Nascita indesiderata e conseguenze risarcitorie

Nascita indesiderata e conseguenze risarcitorie
Nascita indesiderata e conseguenze risarcitorie

Nascita indesiderata e conseguenze risarcitorie

La fattispecie del cd. danno da nascita indesiderata ricorre quando la gestante viene privata della possibilità d’interrompere la gravidanza per via dell’omessa diagnosi di malformazioni congenite del feto. Nel caso di specie, i genitori di una bambina affetta dalla sindrome di Down convenivano in giudizio il primario di Ostetricia e Ginecologia ed il direttore del Laboratorio di Analisi di un ospedale, nonché l’Azienda U.S.L. n. X di Lucca, per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita, assumendo che la madre fosse stata avviata al parto senza che fossero stati disposti approfondimenti, benché i risultati degli esami ematochimici effettuati alla sedicesima settimana avessero fornito dei valori non rassicuranti.

La responsabilità per lesione del diritto all’interruzione della gravidanza a causa dell’omessa diagnosi di malformazione del nascituro, con conseguente nascita indesiderata, si colloca nel quadro generale della responsabilità medica, la cui qualificazione giuridica ha costituito l’oggetto di un lungo percorso di evoluzione da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Fino alla fine degli anni ‘90 si riteneva che tra medico e paziente non potesse ravvisarsi alcun rapporto contrattuale, poiché il primo risultava estraneo al contratto di spedalità (o prestazione di assistenza sanitaria), con la conseguenza che per i danni arrecati ai malati poteva sorgere in via esclusiva una responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. Un allontanamento da tale impostazione si è registrato nel 1999, a seguito di una significativa svolta giurisprudenziale: la Cassazione ha affermato che esistono delle relazioni, come quelle tra sanitario e paziente, che impongono degli specifici obblighi di protezione, nonché comportamentali. Tali obblighi, anche se non scaturenti da un contratto nel senso stretto del termine, si fondano sul cd. contatto sociale, ed integrano una responsabilità di tipo contrattuale (v. Cass., n. 589/1999, con cui la Corte di Cassazione ha stabilito che l’obbligazione del medico dipendente dal servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul contatto sociale, ha natura contrattuale).

La fattispecie del contatto sociale sottrae i soggetti della relazione dal mero rapporto di reciproca estraneità (rendendo inadeguata l’applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale), per via della particolare professionalità di uno di essi, idonea a far sorgere in capo all’altro un affidamento. Presupposto di tale elaborazione è l’accoglimento del modello di matrice tedesca della responsabilità per violazione dell’affidamento, come categoria generale comprendente le fattispecie in cui può ritenersi che dal contatto tra soggetti sorga, pur in assenza di un vero e proprio contratto ed in presenza dell’elemento della professionalità, l’affidamento dell’una all’altra parte, il quale è fonte obbligatoria. Si tratta di quelle ipotesi che si caratterizzano per il fatto che il danno si inquadra, come nella responsabilità precontrattuale, in un rapporto il cui contenuto – in assenza di un obbligo di prestazione – è costituito da obblighi di protezione.

La Corte di Cassazione basava normativamente la figura del contatto sociale sul concetto di atipicità delle fonti di obbligazioni rinvenibile nell’art. 1173 c.c., laddove tale norma prevede che le fonti obbligatorie possano essere costituite, oltre che dal contratto e dal fatto illecito, da «ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico». Nonostante l’importanza storica della sentenza n. 589/1999, negli anni si sono susseguite pronunce contrastanti, tendenti a ricollocare tale responsabilità nell’ambito della fattispecie della tutela extracontrattuale.

Un chiarimento sul punto lo si è ricevuto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 577/2008, paragrafo 4.1: «Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’inadempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento».

Con questa pronuncia, la Corte ha consacrato la corrente dottrinale e giurisprudenziale che aveva scorto nel rapporto medico-paziente una matrice contrattualistica tale da richiedere al debitore la prova della sua innocenza.

Nel caso in esame, affidato alle Sezioni Unite, si tratta di verificare se sussista la responsabilità dei medici con riferimento alla particolare ipotesi in cui questi non abbiano disposto accertamenti ulteriori avviando così la donna al parto, accertamenti che invece i ricorrenti ritenevano necessari sulla base dei risultati degli esami ematochimici effettuati.

Dopo la sentenza del Tribunale di Lucca, di rigetto della domanda, confermata dalla Corte d’Appello di Firenze, secondo cui la donna era tenuta a provare una condizione di pericolo per la propria salute fisica o psichica, la quale condizione avrebbe legittimato il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza dopo il novantesimo giorno (v. art. 6, Legge 22 maggio 1978, n. 194), i coniugi hanno proposto ricorso per Cassazione.

La coppia ha motivato il ricorso sulla base dell’impossibilità di fornire la prova suddetta, in quanto per poter prendere coscienza di una condizione di pericolo occorre prima disporre di un quadro informativo completo. La linea di ragionamento compiuta dai ricorrenti è la seguente: se i sanitari avessero fornito loro tutte le informazioni mediche necessarie, avrebbero potuto prendere coscienza delle esatte condizioni del nascituro e del conseguente pericolo per la salute psico-fisica della gestante, dovuto allo stress che crescere un bambino affetto da infermità le avrebbe causato, decidendo di riflesso di abortire (nel rispetto dei requisiti posti dall’art. 6, l. 194 del 1978). Qui, dunque, la problematica dell’inquadramento giuridico della responsabilità medica si viene ad intrecciare con quella del diritto ad abortire.

Non si tratta solo di verificare se il medico abbia inadempiuto ai propri obblighi informativi verso la paziente, ma anche se tale inadempimento abbia effettivamente causato il mancato aborto da parte della donna qualora ne sussistessero le condizioni di legge. Questa fattispecie, ammessa in diversi ordinamenti, viene definita wrongful birth action, ovvero azione di risarcimento per nascita indesiderata.

La pretesa risarcitoria si basa, per l’appunto, sulla violazione di un diritto proprio della madre. In via parallela, o alternativa, a tale azione, alcuni genitori hanno chiesto il risarcimento del danno in qualità di rappresentanti del proprio figlio nato infermo a seguito della diagnosi erronea o mancante; questa fattispecie viene definita wrongful life action. La situazione di base che dà origine alle due ipotesi è la medesima, vale a dire l’omessa diagnosi con conseguente nascita inferma, variando solo l’aspetto del riconoscimento della titolarità dell’azione.

Riconoscere la titolarità dell’azione in capo allo stesso nato malformato solleva delle questioni impegnative. In primo luogo, riconoscere la legittimazione ad agire al bambino significa attribuire rilevanza giuridica alla condizione del nascituro fin dal momento del concepimento, quando tradizionalmente il momento iniziale della rilevanza piena della persona per il diritto è individuato nella nascita. In secondo luogo, l’attribuire tale legittimazione al nascituro equivale ad ammettere che egli possa dolersi in prima persona di un pregiudizio determinato dal suo stesso stato esistenziale.

Con riguardo alla prima questione, la giurisprudenza è ormai propensa a ritenere che la soggettività del nascituro non sia determinante in ordine alla possibilità di tutelarne le prerogative in via risarcitoria, del resto in aderenza alla maggior dottrina. Con riguardo alla seconda, se da un lato l’orientamento prevalente esclude che sia configurabile un diritto di non nascere, o di non nascere se non sano, dall’altro è stato di recente affermato che il nascituro, una volta venuto ad esistenza, ha diritto al risarcimento da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, e ha altresì il diritto di venire rappresentato nell’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità (v. Cassazione Civile n. 16754/2012).

 La legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria costituisce uno dei principali punti del ricorso, insieme a quella dell’onere probatorio in relazione alla correlazione causale tra l’inadempimento dei sanitari e il mancato ricorso all’aborto. Con riguardo a tale correlazione causale, l’evento dannoso in questo specifico caso non è tanto costituito dalla malformazione in sé, come se si trattasse di un danno biologico (per esempio, dovuto ad un errore commesso durante il parto), bensì dalla situazione esistenziale del nato, che si produce a valle della violazione da parte del medico del diritto personalissimo della madre di decidere sull’interruzione della gravidanza.

A tal proposito, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 16754/2012, ha riconosciuto per la prima volta – discostandosi dalle precedenti pronunce n. 14888/2004 e n. 10471/2009 – la risarcibilità del danno da nascita malformata, attribuendo l’evento dannoso non tanto alla circostanza dell’omessa diagnosi in sé considerata, ma alla violazione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica.

La particolarità del caso di specie risiede nel fatto che la malattia è contratta dal concepito per vie naturali, non causata dalla condotta del medico. In altri termini, il danno consiste nella condizione esistenziale del nato in quanto conseguenza della colpevole omissione del medico, con la quale ultima ha impedito alla donna l’esercizio del suo diritto personalissimo di decidere sull’interruzione della gravidanza.

Così ricostruito l’evento dannoso, il diritto al risarcimento è riconoscibile, come prima rilevato in via generale a proposito della wrongful birth action, non per il solo fatto dell’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione cui il sanitario è tenuto verso i suoi pazienti, ma è anche necessaria la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per ricorrere all’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza.

Il solo inadempimento del dovere di esatta informazione da parte del sanitario non basta affinché possa prodursi il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto all’interruzione della gravidanza, se non nella ipotesi in cui venga provata la sussistenza degli elementi integrativi della fattispecie per il legittimo esercizio di tale diritto (v. Cass. 1.12.1998 n. 12195). Ne deriva che occorre accertare la presenza delle condizioni richieste dalla l. 194 del 1978 per procedere all’aborto, la quale stabilisce, all’art. 6, che l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni possa essere praticata quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della gestante. La ratio di tale previsione normativa consiste nel negare la connotazione dell’aborto come strumento di pianificazione familiare.

Sulla base delle considerazioni fino ad ora compiute, per una valutazione il più possibile corretta del caso di specie occorre porre l’attenzione sui seguenti aspetti:

i) l’inadempimento da parte del medico dell’obbligo di fornire tutte le informazioni mediche concernenti la gravidanza della paziente, includendovi il novero completo dei possibili esami da svolgere;

ii) la sussistenza dei presupposti del diritto di abortire ai sensi della l. 194 del 1978;

iii) il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento dannoso, qualificato quest’ultimo in termini di esistenza diversamente abile del nato ad esito di lesione del diritto all’autodeterminazione della donna.

Ciò posto, come si accennava in precedenza, il ricorso comprende due questioni meritevoli di essere sottoposte al vaglio delle Sezioni Unite, vale a dire quella relativa all’onere probatorio in relazione alla correlazione causale fra l’inadempimento dei sanitari ed il mancato ricorso all’aborto, e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria. Il problema dell’onere probatorio è quello che presenta profili di maggior complessità.

Occorre chiedersi a quale delle due parti vada attribuito l’onere di provare l’esistenza di un collegamento di tipo causale tra la condotta omissiva dei medici ed il mancato ricorso all’aborto. La risposta si ricollega al problema esposto all’inizio, dell’inquadramento giuridico della responsabilità medica.

Qualificare l’omesso obbligo informativo dei sanitari come un inadempimento di tipo contrattuale piuttosto che come un inadempimento di tipo extracontrattuale produce delle conseguenze considerevoli. La responsabilità extracontrattuale, o aquiliana, rende più gravosa la situazione del danneggiato sia in termini di onere probatorio sia in termini di prescrizione. Quanto all’onere probatorio, se nella responsabilità extracontrattuale il danneggiato è tenuto a dimostrare il fatto illecito in tutte le sue componenti, incluso il nesso di causalità tra la condotta a cui viene imputato l’evento dannoso e l’effettiva produzione di quest’ultimo, nella responsabilità contrattuale il debitore che voglia liberarsi dalla responsabilità risarcitoria ha l’onere di fornire la prova che la causa dell’inadempimento risiede in una impossibilità della prestazione a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

Quanto al diverso modo di atteggiarsi della prescrizione, l’art. 2947 c.c. introduce una prescrizione breve di cinque anni per il risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, viceversa in campo contrattuale, stante l’esplicito riferimento dell’art. 2947 c.c. al fatto illecito, si applica la regola dell’art. 2946 c.c. che prevede in via generale il termine di decorrenza decennale.

Da un lato, la giurisprudenza di legittimità, nelle sue più recenti evoluzioni, ha manifestato di preferire l’impostazione che qualifica la responsabilità dei sanitari in termini di responsabilità contrattuale, con conseguente alleggerimento dell’onere della prova in capo all’attore.

Dall’altro, la stessa Corte di Cassazione, sezione III civile, con la sentenza n. 12264/2014 ha affermato che, in relazione ad un altro giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata, «è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, poiché tale prova non può essere desunta dal solo fatto della richiesta di sottoporsi a esami volti ad accertare l’esistenza di eventuali anomalie del feto».

In altre parole, i Giudici della Suprema Corte hanno precisato come la mera richiesta, avanzata dalla madre, di venire sottoposta ad accertamenti diagnostici volti a rilevare eventuali malformazioni del feto non possa essere ritenuta idonea a provare che, in caso di esito infausto di detti accertamenti, la donna avrebbe abortito. Ciò rappresenterebbe tutt’al più un semplice elemento indiziario, una presunzione semplice da integrare con elementi probatori ulteriori, pena l’impossibilità di riconoscere un risarcimento per un danno che – di fatto – non è stato provato.

La pronuncia n. 12264/2014 abbraccia una linea di ragionamento che diverge dallo schema puro proprio della fattispecie della responsabilità contrattuale: all’attore è richiesto di spingersi fino alla dimostrazione del collegamento causale tra il mancato rilievo da parte del sanitario dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, ed il grave pericolo per la propria salute con conseguente decisione di abortire. Se ne può concludere che, nella giurisprudenza della Corte, è assente un’interpretazione univoca circa l’esatta ripartizione dell’onere probatorio in caso di responsabilità medica, soprattutto con riguardo alla fattispecie del danno da nascita indesiderata, motivo per il quale la decisione di rimettere la questione alle Sezioni Unite è da considerarsi opportuna.

L’intervento risolutivo sul punto è arrivato nel corso dello stesso 2015, a dicembre: la sentenza n. 25767 delle Sezioni Unite della Suprema Corte ha risposto al quesito, analizzando particolarmente il problema del riparto dell’onere probatorio e quello della legittimazione del figlio al risarcimento del danno per impossibilità ad un’esistenza sana e dignitosa.

In merito al primo aspetto, la Cassazione ha lasciato sostanzialmente aperta la possibilità di dimostrare, con un’indagine ulteriore, che vi sia stata una situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, tale da tradursi in un danno effettivo.

In merito al secondo aspetto: se da un lato la Corte ha a più riprese affermato che non si possa escludere il diritto al risarcimento solo in base alla circostanza che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita, dall’altro lato la speciale connotazione che qui assume il diritto al risarcimento del nascituro pone una questione di particolare complessità; può, tra i diritti risarcibili riconducibili alla titolarità del nascituro, annoverarsi anche il diritto a non nascere?

Il nostro ordinamento non riconosce il diritto alla non vita, e ciò rende imparagonabile – sul piano giuridico – un confronto tra vita affetta da malattia da un lato e “non vita” dall’altro. Le Sezioni Unite, in tale pronuncia, hanno negato l’esistenza del diritto a non nascere, evidenziando che nel riconoscere tale diritto si correrebbe il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica. A sostegno della propria linea di ragionamento, la Cassazione ha utilizzato anche l’argomento comparatistico, richiamando le sentenze che, a partire dal precedente statunitense del 1967, hanno negato in paesi quali gli USA, la Germania ed il Regno Unito, il diritto al risarcimento di questa tipologia di danno.

Al fine di avere una visione il più possibile completa del tema, può osservarsi, in sede conclusiva, come il concetto di nascita indesiderata, oltre a porre problemi di carattere interpretativo sul piano del diritto, li pone anche sul piano etico.

L’esclusione della configurabilità ed ammissibilità nel nostro ordinamento dell’aborto eugenetico, dovuta alla circostanza che la l. 194 del 1978, all’art. 6, non permette d’interrompere la gravidanza oltre il novantesimo giorno senza un pericolo – grave – derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, è speculare all’impostazione adottata dalla Chiesa cattolica con riguardo tanto a questa pratica quanto alle tecniche diagnostiche prenatali. Il Pontefice Giovanni Paolo II si espresse sul punto con l’Enciclica Evangelium Vitae: «Una speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del nascituro. […] Quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento però che le possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l’aborto per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie».

 

Bibliografia

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F.D. BUSNELLI, Cosa resta della legge 40? Il paradosso della soggettività del concepito, in Riv. dir. civ., 2011, n. 4, p. 463 ss.

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  6. RESCIGNO,Il danno da procreazione, Milano, 2006

Nascita indesiderata e conseguenze risarcitorie

La fattispecie del cd. danno da nascita indesiderata ricorre quando la gestante viene privata della possibilità d’interrompere la gravidanza per via dell’omessa diagnosi di malformazioni congenite del feto. Nel caso di specie, i genitori di una bambina affetta dalla sindrome di Down convenivano in giudizio il primario di Ostetricia e Ginecologia ed il direttore del Laboratorio di Analisi di un ospedale, nonché l’Azienda U.S.L. n. X di Lucca, per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita, assumendo che la madre fosse stata avviata al parto senza che fossero stati disposti approfondimenti, benché i risultati degli esami ematochimici effettuati alla sedicesima settimana avessero fornito dei valori non rassicuranti.

La responsabilità per lesione del diritto all’interruzione della gravidanza a causa dell’omessa diagnosi di malformazione del nascituro, con conseguente nascita indesiderata, si colloca nel quadro generale della responsabilità medica, la cui qualificazione giuridica ha costituito l’oggetto di un lungo percorso di evoluzione da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Fino alla fine degli anni ‘90 si riteneva che tra medico e paziente non potesse ravvisarsi alcun rapporto contrattuale, poiché il primo risultava estraneo al contratto di spedalità (o prestazione di assistenza sanitaria), con la conseguenza che per i danni arrecati ai malati poteva sorgere in via esclusiva una responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. Un allontanamento da tale impostazione si è registrato nel 1999, a seguito di una significativa svolta giurisprudenziale: la Cassazione ha affermato che esistono delle relazioni, come quelle tra sanitario e paziente, che impongono degli specifici obblighi di protezione, nonché comportamentali. Tali obblighi, anche se non scaturenti da un contratto nel senso stretto del termine, si fondano sul cd. contatto sociale, ed integrano una responsabilità di tipo contrattuale (v. Cass., n. 589/1999, con cui la Corte di Cassazione ha stabilito che l’obbligazione del medico dipendente dal servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul contatto sociale, ha natura contrattuale).

La fattispecie del contatto sociale sottrae i soggetti della relazione dal mero rapporto di reciproca estraneità (rendendo inadeguata l’applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale), per via della particolare professionalità di uno di essi, idonea a far sorgere in capo all’altro un affidamento. Presupposto di tale elaborazione è l’accoglimento del modello di matrice tedesca della responsabilità per violazione dell’affidamento, come categoria generale comprendente le fattispecie in cui può ritenersi che dal contatto tra soggetti sorga, pur in assenza di un vero e proprio contratto ed in presenza dell’elemento della professionalità, l’affidamento dell’una all’altra parte, il quale è fonte obbligatoria. Si tratta di quelle ipotesi che si caratterizzano per il fatto che il danno si inquadra, come nella responsabilità precontrattuale, in un rapporto il cui contenuto – in assenza di un obbligo di prestazione – è costituito da obblighi di protezione.

La Corte di Cassazione basava normativamente la figura del contatto sociale sul concetto di atipicità delle fonti di obbligazioni rinvenibile nell’art. 1173 c.c., laddove tale norma prevede che le fonti obbligatorie possano essere costituite, oltre che dal contratto e dal fatto illecito, da «ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico». Nonostante l’importanza storica della sentenza n. 589/1999, negli anni si sono susseguite pronunce contrastanti, tendenti a ricollocare tale responsabilità nell’ambito della fattispecie della tutela extracontrattuale.

Un chiarimento sul punto lo si è ricevuto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 577/2008, paragrafo 4.1: «Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’inadempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento».

Con questa pronuncia, la Corte ha consacrato la corrente dottrinale e giurisprudenziale che aveva scorto nel rapporto medico-paziente una matrice contrattualistica tale da richiedere al debitore la prova della sua innocenza.

Nel caso in esame, affidato alle Sezioni Unite, si tratta di verificare se sussista la responsabilità dei medici con riferimento alla particolare ipotesi in cui questi non abbiano disposto accertamenti ulteriori avviando così la donna al parto, accertamenti che invece i ricorrenti ritenevano necessari sulla base dei risultati degli esami ematochimici effettuati.

Dopo la sentenza del Tribunale di Lucca, di rigetto della domanda, confermata dalla Corte d’Appello di Firenze, secondo cui la donna era tenuta a provare una condizione di pericolo per la propria salute fisica o psichica, la quale condizione avrebbe legittimato il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza dopo il novantesimo giorno (v. art. 6, Legge 22 maggio 1978, n. 194), i coniugi hanno proposto ricorso per Cassazione.

La coppia ha motivato il ricorso sulla base dell’impossibilità di fornire la prova suddetta, in quanto per poter prendere coscienza di una condizione di pericolo occorre prima disporre di un quadro informativo completo. La linea di ragionamento compiuta dai ricorrenti è la seguente: se i sanitari avessero fornito loro tutte le informazioni mediche necessarie, avrebbero potuto prendere coscienza delle esatte condizioni del nascituro e del conseguente pericolo per la salute psico-fisica della gestante, dovuto allo stress che crescere un bambino affetto da infermità le avrebbe causato, decidendo di riflesso di abortire (nel rispetto dei requisiti posti dall’art. 6, l. 194 del 1978). Qui, dunque, la problematica dell’inquadramento giuridico della responsabilità medica si viene ad intrecciare con quella del diritto ad abortire.

Non si tratta solo di verificare se il medico abbia inadempiuto ai propri obblighi informativi verso la paziente, ma anche se tale inadempimento abbia effettivamente causato il mancato aborto da parte della donna qualora ne sussistessero le condizioni di legge. Questa fattispecie, ammessa in diversi ordinamenti, viene definita wrongful birth action, ovvero azione di risarcimento per nascita indesiderata.

La pretesa risarcitoria si basa, per l’appunto, sulla violazione di un diritto proprio della madre. In via parallela, o alternativa, a tale azione, alcuni genitori hanno chiesto il risarcimento del danno in qualità di rappresentanti del proprio figlio nato infermo a seguito della diagnosi erronea o mancante; questa fattispecie viene definita wrongful life action. La situazione di base che dà origine alle due ipotesi è la medesima, vale a dire l’omessa diagnosi con conseguente nascita inferma, variando solo l’aspetto del riconoscimento della titolarità dell’azione.

Riconoscere la titolarità dell’azione in capo allo stesso nato malformato solleva delle questioni impegnative. In primo luogo, riconoscere la legittimazione ad agire al bambino significa attribuire rilevanza giuridica alla condizione del nascituro fin dal momento del concepimento, quando tradizionalmente il momento iniziale della rilevanza piena della persona per il diritto è individuato nella nascita. In secondo luogo, l’attribuire tale legittimazione al nascituro equivale ad ammettere che egli possa dolersi in prima persona di un pregiudizio determinato dal suo stesso stato esistenziale.

Con riguardo alla prima questione, la giurisprudenza è ormai propensa a ritenere che la soggettività del nascituro non sia determinante in ordine alla possibilità di tutelarne le prerogative in via risarcitoria, del resto in aderenza alla maggior dottrina. Con riguardo alla seconda, se da un lato l’orientamento prevalente esclude che sia configurabile un diritto di non nascere, o di non nascere se non sano, dall’altro è stato di recente affermato che il nascituro, una volta venuto ad esistenza, ha diritto al risarcimento da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, e ha altresì il diritto di venire rappresentato nell’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità (v. Cassazione Civile n. 16754/2012).

 La legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria costituisce uno dei principali punti del ricorso, insieme a quella dell’onere probatorio in relazione alla correlazione causale tra l’inadempimento dei sanitari e il mancato ricorso all’aborto. Con riguardo a tale correlazione causale, l’evento dannoso in questo specifico caso non è tanto costituito dalla malformazione in sé, come se si trattasse di un danno biologico (per esempio, dovuto ad un errore commesso durante il parto), bensì dalla situazione esistenziale del nato, che si produce a valle della violazione da parte del medico del diritto personalissimo della madre di decidere sull’interruzione della gravidanza.

A tal proposito, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 16754/2012, ha riconosciuto per la prima volta – discostandosi dalle precedenti pronunce n. 14888/2004 e n. 10471/2009 – la risarcibilità del danno da nascita malformata, attribuendo l’evento dannoso non tanto alla circostanza dell’omessa diagnosi in sé considerata, ma alla violazione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica.

La particolarità del caso di specie risiede nel fatto che la malattia è contratta dal concepito per vie naturali, non causata dalla condotta del medico. In altri termini, il danno consiste nella condizione esistenziale del nato in quanto conseguenza della colpevole omissione del medico, con la quale ultima ha impedito alla donna l’esercizio del suo diritto personalissimo di decidere sull’interruzione della gravidanza.

Così ricostruito l’evento dannoso, il diritto al risarcimento è riconoscibile, come prima rilevato in via generale a proposito della wrongful birth action, non per il solo fatto dell’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione cui il sanitario è tenuto verso i suoi pazienti, ma è anche necessaria la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per ricorrere all’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza.

Il solo inadempimento del dovere di esatta informazione da parte del sanitario non basta affinché possa prodursi il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto all’interruzione della gravidanza, se non nella ipotesi in cui venga provata la sussistenza degli elementi integrativi della fattispecie per il legittimo esercizio di tale diritto (v. Cass. 1.12.1998 n. 12195). Ne deriva che occorre accertare la presenza delle condizioni richieste dalla l. 194 del 1978 per procedere all’aborto, la quale stabilisce, all’art. 6, che l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni possa essere praticata quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della gestante. La ratio di tale previsione normativa consiste nel negare la connotazione dell’aborto come strumento di pianificazione familiare.

Sulla base delle considerazioni fino ad ora compiute, per una valutazione il più possibile corretta del caso di specie occorre porre l’attenzione sui seguenti aspetti:

i) l’inadempimento da parte del medico dell’obbligo di fornire tutte le informazioni mediche concernenti la gravidanza della paziente, includendovi il novero completo dei possibili esami da svolgere;

ii) la sussistenza dei presupposti del diritto di abortire ai sensi della l. 194 del 1978;

iii) il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento dannoso, qualificato quest’ultimo in termini di esistenza diversamente abile del nato ad esito di lesione del diritto all’autodeterminazione della donna.

Ciò posto, come si accennava in precedenza, il ricorso comprende due questioni meritevoli di essere sottoposte al vaglio delle Sezioni Unite, vale a dire quella relativa all’onere probatorio in relazione alla correlazione causale fra l’inadempimento dei sanitari ed il mancato ricorso all’aborto, e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria. Il problema dell’onere probatorio è quello che presenta profili di maggior complessità.

Occorre chiedersi a quale delle due parti vada attribuito l’onere di provare l’esistenza di un collegamento di tipo causale tra la condotta omissiva dei medici ed il mancato ricorso all’aborto. La risposta si ricollega al problema esposto all’inizio, dell’inquadramento giuridico della responsabilità medica.

Qualificare l’omesso obbligo informativo dei sanitari come un inadempimento di tipo contrattuale piuttosto che come un inadempimento di tipo extracontrattuale produce delle conseguenze considerevoli. La responsabilità extracontrattuale, o aquiliana, rende più gravosa la situazione del danneggiato sia in termini di onere probatorio sia in termini di prescrizione. Quanto all’onere probatorio, se nella responsabilità extracontrattuale il danneggiato è tenuto a dimostrare il fatto illecito in tutte le sue componenti, incluso il nesso di causalità tra la condotta a cui viene imputato l’evento dannoso e l’effettiva produzione di quest’ultimo, nella responsabilità contrattuale il debitore che voglia liberarsi dalla responsabilità risarcitoria ha l’onere di fornire la prova che la causa dell’inadempimento risiede in una impossibilità della prestazione a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

Quanto al diverso modo di atteggiarsi della prescrizione, l’art. 2947 c.c. introduce una prescrizione breve di cinque anni per il risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, viceversa in campo contrattuale, stante l’esplicito riferimento dell’art. 2947 c.c. al fatto illecito, si applica la regola dell’art. 2946 c.c. che prevede in via generale il termine di decorrenza decennale.

Da un lato, la giurisprudenza di legittimità, nelle sue più recenti evoluzioni, ha manifestato di preferire l’impostazione che qualifica la responsabilità dei sanitari in termini di responsabilità contrattuale, con conseguente alleggerimento dell’onere della prova in capo all’attore.

Dall’altro, la stessa Corte di Cassazione, sezione III civile, con la sentenza n. 12264/2014 ha affermato che, in relazione ad un altro giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata, «è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, poiché tale prova non può essere desunta dal solo fatto della richiesta di sottoporsi a esami volti ad accertare l’esistenza di eventuali anomalie del feto».

In altre parole, i Giudici della Suprema Corte hanno precisato come la mera richiesta, avanzata dalla madre, di venire sottoposta ad accertamenti diagnostici volti a rilevare eventuali malformazioni del feto non possa essere ritenuta idonea a provare che, in caso di esito infausto di detti accertamenti, la donna avrebbe abortito. Ciò rappresenterebbe tutt’al più un semplice elemento indiziario, una presunzione semplice da integrare con elementi probatori ulteriori, pena l’impossibilità di riconoscere un risarcimento per un danno che – di fatto – non è stato provato.

La pronuncia n. 12264/2014 abbraccia una linea di ragionamento che diverge dallo schema puro proprio della fattispecie della responsabilità contrattuale: all’attore è richiesto di spingersi fino alla dimostrazione del collegamento causale tra il mancato rilievo da parte del sanitario dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, ed il grave pericolo per la propria salute con conseguente decisione di abortire. Se ne può concludere che, nella giurisprudenza della Corte, è assente un’interpretazione univoca circa l’esatta ripartizione dell’onere probatorio in caso di responsabilità medica, soprattutto con riguardo alla fattispecie del danno da nascita indesiderata, motivo per il quale la decisione di rimettere la questione alle Sezioni Unite è da considerarsi opportuna.

L’intervento risolutivo sul punto è arrivato nel corso dello stesso 2015, a dicembre: la sentenza n. 25767 delle Sezioni Unite della Suprema Corte ha risposto al quesito, analizzando particolarmente il problema del riparto dell’onere probatorio e quello della legittimazione del figlio al risarcimento del danno per impossibilità ad un’esistenza sana e dignitosa.

In merito al primo aspetto, la Cassazione ha lasciato sostanzialmente aperta la possibilità di dimostrare, con un’indagine ulteriore, che vi sia stata una situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, tale da tradursi in un danno effettivo.

In merito al secondo aspetto: se da un lato la Corte ha a più riprese affermato che non si possa escludere il diritto al risarcimento solo in base alla circostanza che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita, dall’altro lato la speciale connotazione che qui assume il diritto al risarcimento del nascituro pone una questione di particolare complessità; può, tra i diritti risarcibili riconducibili alla titolarità del nascituro, annoverarsi anche il diritto a non nascere?

Il nostro ordinamento non riconosce il diritto alla non vita, e ciò rende imparagonabile – sul piano giuridico – un confronto tra vita affetta da malattia da un lato e “non vita” dall’altro. Le Sezioni Unite, in tale pronuncia, hanno negato l’esistenza del diritto a non nascere, evidenziando che nel riconoscere tale diritto si correrebbe il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica. A sostegno della propria linea di ragionamento, la Cassazione ha utilizzato anche l’argomento comparatistico, richiamando le sentenze che, a partire dal precedente statunitense del 1967, hanno negato in paesi quali gli USA, la Germania ed il Regno Unito, il diritto al risarcimento di questa tipologia di danno.

Al fine di avere una visione il più possibile completa del tema, può osservarsi, in sede conclusiva, come il concetto di nascita indesiderata, oltre a porre problemi di carattere interpretativo sul piano del diritto, li pone anche sul piano etico.

L’esclusione della configurabilità ed ammissibilità nel nostro ordinamento dell’aborto eugenetico, dovuta alla circostanza che la l. 194 del 1978, all’art. 6, non permette d’interrompere la gravidanza oltre il novantesimo giorno senza un pericolo – grave – derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, è speculare all’impostazione adottata dalla Chiesa cattolica con riguardo tanto a questa pratica quanto alle tecniche diagnostiche prenatali. Il Pontefice Giovanni Paolo II si espresse sul punto con l’Enciclica Evangelium Vitae: «Una speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del nascituro. […] Quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento però che le possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l’aborto per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie».

 

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