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Processo amministrativo. l’azione di risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione

Processo amministrativo
Processo amministrativo

Processo amministrativo. l’azione di risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione

 

Abstract

Il presente scritto si propone di fornire una lettura panoramica del mutamento del processo amministrativo intervenuto con l’approvazione del nuovo codice. In particolare, si pone l’attenzione all’introduzione dell’azione di risarcimento per lesione di interessi legittimi esperibile autonomamente dall’azione di annullamento, concepita in passato quale azione pregiudiziale per conseguire, in limitati casi, il risarcimento del danno

 

Premessa storica

Il sistema di tutela giurisdizionale amministrativo ha subito nel corso del tempo delle modificazioni sostanziali sulle quali ha notevolmente inciso il mutamento delle situazioni soggettive.

La rigida ripartizione della separazione dei poteri aveva posto in un piano subalterno il principio della effettività di tutela delle situazioni soggettive dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione.

Il sistema giustiziale così concepito devolveva le controversie tra privati e pubblica amministrazione a giudici provenienti dalle stesse amministrazioni, con evidenti ricadute sul piano della imparzialità ed effettività della tutela.

Su spinta dei principi di matrice liberale, il così congegnato sistema giurisdizionale subì una battuta d’arresto. Fu, infatti, devoluta la materia del contenzioso amministrativo a quella dei giudici ordinari per “tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico” (art. 2, legge 20 marzo 1865 n. 2248 all.E).

Tuttavia, i buoni propositi mostrarono subito dei limiti. In primo luogo, la devoluzione al giudice ordinario presupponeva la lesione dei diritti soggettivi; in secondo luogo, all’autorità giurisdizionale ordinaria era precluso il potere di annullamento dell’atto illegittimo.

La conseguenza fu che tutte le materie degli “affari non compresi”, ossia le controversie aventi ad oggetto la lesione di interessi legittimi era sottratta alle garanzie giurisdizionali.

Il rimedio fu posto dalla legge n. 5992/1889, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato che conferì la giurisdizione sulle controversie attinenti atti amministrativi lesivi degli interessi legittimi.

Si venne così a delineare un quadro giurisdizionale estensivo delle garanzie processuali, in cui venne riconosciuta tutela agli interessi legittimi.

L’avvento della Costituzione, carico di buoni propositi, cercò di individuare un sistema organico di giurisdizione prevedendo all’art. 102 Cost. che: “La funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari”, ponendo un apposito limite; “Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali”.

L’effetto principale fu la dichiarazione di incostituzionalità della norma concernenti le giurisdizioni amministrative, avvenute con l. 6837 del 1890.

Si provocò un inavvertito vuoto di tutela, a cui pose rimedio la giurisprudenza che attribuì le competenze giurisdizionali soppresse alla competenza del Consiglio di Stato.

Un rimedio fondamentale fu posto dalla legge istitutiva dei Tar, legge del 6 dicembre 1971, n. 1034 che attribuì la competenza giurisdizionale amministrativa ai Tribunali amministrativi regionali e mutò il ruolo del Consiglio di Stato che, così, divenne organo di secondo grado.

Tuttavia, il dibattito sulla natura della giurisdizione amministrativa non si è mai sopito ed oscilla tra i sostenitori della natura amministrativa della giurisdizione, stante l’assenza di diritti soggettivi e coloro che sostengono il ruolo generalizzato della funzione giurisdizionale, comprendendo anche la tutela degli interessi legittimi.

Importante, l’art. 103 Cost. che conferisce la tutela giurisdizionale agli organi di giustizia amministrativa laddove si controverte su interessi legittimi.

 

Dal giudizio sull’atto al giudizio sul rapporto. Il giudizio di spettanza

Il mutamento intervenuto nel corso del tempo ha dispiegato i suoi effetti anche sulla natura del rapporto, sempre più diretto a riconoscere una tutela sostanziale.

L’effettività della tutela va riferita a quanto la disciplina del codice riconosce alle parti del processo.

Non vi è dubbio che il valore aggiunto del nuovo codice amministrativo sia stato quello di aver introdotto una pluralità di azioni, tra le quali spicca l’azione di condanna che segna in termini concreti il riconoscimento di una tutela effettiva.

Secondo la dottrina, la nuova disciplina del processo amministrativo ha come oggetto non più l’atto impugnato, bensì la pretesa sostanziale del ricorrente, la quale implica che l'esame del giudice amministrativo si concentra sull'intero rapporto giuridico tra la pubblica amministrazione e il privato.

Va osservato, poi, che l'impugnazione varia a seconda dell’oggetto del giudizio, in quanto se esso attiene ad un provvedimento negativo, lesivo di un interesse pretensivo, la pretesa sostanziale è quella di ottenere il provvedimento positivo e non già il mero annullamento.

Se l'impugnazione riguarda un provvedimento sfavorevole, lesivo di un interesse oppositivo, la pretesa sostanziale non si limita all'annullamento di quel provvedimento emanato, ma ai estende alla valutazione circa impossibilità per l'amministrazione di adottarne un altro avente il medesimo effetto.

Se l'impugnazione riguarda il silenzio, la pretesa sostanziale è quella di conseguire il provvedimento richiesto, cioè il provvedimento positivo.

La pretesa sostanziale del privato comporta una disamina estensiva del rapporto tra la pubblica amministrazione ed il privato interessati.

Come è stato rilevato. l'oggetto del processo non è più soltanto l'atto, ma anche il rapporto, come ormai condiviso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 179 del 2016.

D’altronde, conferma proviene dall’art. 1 del codice che chiaramente enuncia: “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”.

Il processo amministrativo, abbandonato il modello del processo sull’atto, è disegnato come un giudizio sul rapporto.

In particolare, trattasi di un giudizio di spettanza, in quanto tende ad accertare la fondatezza della pretesa al bene della vita a cui aspira il cittadino attraverso l’esperimento delle azioni disciplinate dal codice del processo amministrativo.

Il giudizio di spettanza si risolve in un corretto uso del potere discrezionale della pubblica amministrazione; in altri termini, di fronte alle pretese del soggetto privato, la pubblica amministrazione è obbligata ad esercitare correttamente il potere di cui dispone, il cui esercizio si risolve nella motivazione del provvedimento definitivo, parametro di valutazione delle scelte discrezionali della pubblica amministrazione.

Tuttavia, la mera lamentazione della spettanza al bene della vita non è sufficiente ai fini dell’esplicazione della tutela, in quanto ciò che si ritiene necessario è che l’interesse sotteso al conseguimento del bene sia meritevole di tutela per l’ordinamento.

 

Metamorfosi dell’interesse legittimo

I mutamento dell’ultimo decennio in materia processuale hanno trovato la loro spinta in una fondamentale sentenza del massimo consesso civile a sezioni riunite.

La ben nota sentenza n. 500 del 1999 ha definitivamente scardinato la intangibilità e formalità dell’interesse legittimo ed ha assegnato un ruolo di natura sostanziale alla quasi sacralità dell’interesse legittimo.

Prima della sentenza richiamata, la giurisprudenza facendo propria la teoria dell’affievolimento era giunta a riconoscere la risarcibilità degli interessi legittimi quali diritti soggettivi affievoliti, secondo cui il diritto soggettivo di fronte all’azione della pubblica amministrazione finiva per degradare in interesse legittimo che finiva per riespandersi soltanto a seguito dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento, finendo per radicare la giurisdizione, ai fini del risarcimento, in quella del giudice ordinario.

L’impossibilità del giudice ordinario di intervenire direttamente sull’atto amministrativo discendeva dal dettato normativo degli artt. 3 e 4 della LAC che precludevano al giudice la possibilità di annullare l’atto amministrativo dichiarato illegittimo, conferendo soltanto il potere di disapplicarlo.

Pertanto, alla rigida separazione dei poteri si aggiungeva la netta separazione tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria che si traduceva nella inammissibilità del giudice ordinario di incidere su un provvedimento amministrativo, compensata dalla devoluzione a pronunciare condanna al risarcimento.

La pregiudizialità sembrava apparentemente superata dalla sentenza 500 del ’99 che parificava il provvedimento illegittimo all’elemento costitutivo dell’illecito.

Di parere opposto era la giurisprudenza amministrativa che continuava as aderire alla pregiudizialità amministrativa.

Tale scelta derivava dall’art. 7 co. 3 legge TAR che qualificava le questioni risarcitorie come “conseguenziali all’annullamento dell’atto impugnato”, lasciando intendere un privilegio assicurato al preventivo annullamento dell’atto amministrativo.

In tal senso, l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2003 ha stabilito che nelle materie appartenenti alla giurisdizione amministrativa, il privato che lamenti la lesione di un interesse legittimo, non può chiedere direttamente il risarcimento, ma è tenuto alla previa impugnazione dell’atto amministrativo.

Alla giurisdizione amministrativa ha fatto eco la sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale nella parte in cui ha stabilito: “il giudice ordinario ha la facoltà di disapplicare il provvedimento amministrativo quando l’oggetto della controversia è costituito da un diritto soggettivo perfetto e quando la valutazione della legittimità del provvedimento debba avvenire solo in via incidentale, il che si verifica allorché l’atto amministrativo non assume rilievo come causa del diritto del provato, ma come mero antecedente, sicché la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come questione pregiudiziale”.

La questione ha visto un nuovo impulso come le ordinanze nn. 13659 e 13660 delle Sezioni Unite, le quali si sono espresse a favore dell’autonomia delle due azioni: “se l’esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutata per la ragione che nel termine per ciò stabilito non è stato chesto l’annullamento dell’atto, il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione e la sua decisione, a norma dell’art. 362 co. 1, c.p.c., si presta a cassazione da parte delle Sezioni Unite quale giudice del riparto della giurisdizione”.

Malgrado ciò, la giurisprudenza amministrativa ha perseverato nell’anteporre la pregiudiziale amministrativa.

 

L’azione di condanna

Nella prospettiva iniziale, l’unica azione esperibile è stata da sempre l’azione costitutiva di annullamento. Si sono dovuti attendere secoli prima che venissero introdotte azioni tali da assicurare una nuova tutela per il cittadino.

Senza dubbio, l’azione di condanna nel processo amministrativo trova la sua legittimazione nella sentenza n. 500 del 1999 che ha definitivamente segnato ogni rottura con il passato.

Sul piano normativo già l’art. 7 della legge 205 del 2000 aveva riconosciuto al giudice amministrativo il potere di condannare l’amministrazione, introducendo, altresì, una prima forma di condanna, quale rimedio al silenzio della pubblica amministrazione.

Il codice del processo amministrativo completa e calibra il percorso evolutivo che ha avuto inizio con la sentenza delle Sezioni Unite, disciplinando le azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo.

In particolare, l’azione di condanna è regolata dall’art. 30 del Codice che legittima il suo esperimento unitamente con un’altra azione e nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva anche in via autonoma.

In questo solco si inserisce l’art. 34 co. 1 let. c) che prevede che in caso di accoglimento del ricorso, il giudice può pronunciare sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione di ogni misura idonea a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio e disporre misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.

Inoltre, il comma 3 prevede che se nel corso del giudizio di annullamento del provvedimento non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori.

Emerge la volontà del legislatore di devolvere in maniera ampia la cognizione relativa all’azione di condanna al giudice amministrativo, ciò sia nelle ipotesi di esperimento autonomo, sia nel caso di esperimento contestuale ad altra azione, segnando in tal modo il definitivo superamento della pregiudizialità amministrativa ai fini risarcitori.

La medesima disposizione al comma 3 prevede che la domanda di risarcimento va proposta entro il termine di 120 giorni decorrenti dal giorno in cui si è verificato il fatto ovvero delle conoscenze del provvedimento.

Ai fini della determinazione del risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto ed il comportamento complessivo delle parti ed esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza.

Circa la natura del modello di responsabilità, giurisprudenza maggioritaria riconduce la responsabilità da illegittimo esercizio delle funzioni amministrative al generale paradigma dell’art. 2043 c.c., anche se residuano tentativi di attribuire uno spazio autonomo e diverso dal modello extracontrattuale.

E’ stato osservato in dottrina che la previsione dell’art. 2043 c.c. mal si attaglia all’esercizio dei poteri pubblicistici, ma andrebbe ancorata all’ipotesi per il risarcimento del danno da ritardo.

In tal modo si attribuirebbe una responsabilità capace di esulare da ogni accertamento del grado di colpa e dell’ingiustizia del danno.

 

Azione risarcitoria

Il dibattito sulla pregiudizialità amministrativa ha dispiegato i suoi effetti anche sul termine decadenziale per impugnare il provvedimento.

I sostenitori dell’approccio diretto ed autonomo dell’azione di condanna ritenevano che il termine di prescrizione per ottenere il risarcimento del danno derivante da provvedimento illegittimo finisse per coincidere con il termine di impugnazione del provvedimento (60 giorni).

Di conseguenza, il diniego di risarcimento, argomentato sulla scorta che l’illegittimità dell’atto non era stata dichiarata in sede di annullamento finiva per divenire un diniego di giustizia sindacabile in sede di legittimità per motivi inerenti alla giurisdizione.

I sostenitori della tesi favorevole alla previa impugnazione dell’atto lesivo ritenevano che ragioni di coerenza del sistema processuale non ammettevano che un provvedimento amministrativo non impugnato potesse finire per essere strumento per fondare un risarcimento.

Ecco allora che l’art. 30 c.p.a. ha sancito la definitiva abolizione della pregiudizialità amministrativa, riconoscendo la possibilità di promuovere l’azione di condanna per il risarcimento del danno in via autonoma, stabilendo un termine di decadenza pari a centoventi giorni.

Si è raggiunto, pertanto, un compromesso fra esigenza di giustizia e le invocate ragioni di coerenza, in quanto è stato riconosciuto al privato la facoltà di avanzare l’azione di risarcimento a prescindere dall’annullamento del provvedimento lesivo ed è stato riconosciuto all’amministrazione la possibilità di conoscere, in un tempo breve, le sorti del provvedimento.

La scelta del legislatore è stata ritenuta pienamente legittima da parte della Corte costituzionale con la sentenza n. 94 del 2017, con cui è stato condivisa la scelta del legislatore in termini di certezza del rapporto giuridico amministrativo.

Non dissimile l’orientamento della Corte di Giustizia UE che legittima l’esistenza di un breve termine per far valere ragioni giuridiche che si ritengono lese, a meno che la brevità del termine non renda impossibile o gravoso l’esercizio dell’azione.

Da una disamina dell’art. 30 co. 5, il ricorrente dispone dell’intero arco processuale, nonché di centoventi giorni dal passato in giudicato della sentenza per poter proporre l’azione di risarcimento.

La natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione si riflette sulla natura, contrattuale o aquiliana, dell’azione proposta.

La questione mostra implicazioni pratiche rilevanti anche sul piano processuale a causa del diverso regime giuridico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale:

a) termine di prescrizione dell’azione, pari a cinque anni per l’azione extracontrattuale e dieci anni per l’azione contrattuale;

b) onere della prova, nel caso dell’azione contrattuale la colpa è presunta e grava sul debitore l’onere della prova circa la non imputabilità dell’adempimento; nel caso dell’azione extracontrattuale è onere del danneggiato provare la colpa o il dolo dell’autore del danno;

c) misura del risarcimento, nella responsabilità contrattuale esso è limitato ai danni prevedibili, salvo il dolo del debitore; mentre in caso di responsabilità extracontrattuale è esteso ai danni non imputabili.

Allo stato tende a prevalere la tesi della natura aquiliana della responsabilità, come è stato ribadito dall’Adunanza Plenaria n. 7 del 2021.

Bibliografia:

- R. GALLI, Nuovo corso di diritto amministrativo, Tomo II, 2016, Cedam;

- F.G. SCOCA, Giustizia amministrativa, 2023, Giappichelli;

- E. CASETTA-F. FRACCHIA, Manuale di diritto amministrativo, 2018, Giuffrè;

- S. BACCARINI, “Scelta” delle azioni e valutazione della “necessità” dell’annullamento per la tutela del ricorrente, in Dir. proc. amm., fasc.4, 2011, pag. 1260;

- G. TAGLIANETTI, L'azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi tra garanzie di giustizia ed esigenze di certezza, in Il Processo, fasc.1, 2022, pag. 101;

- Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 22 luglio 1999, n. 500;

- Cons. St., Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4;

- Cons. St., Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7;

- Corte costituzionale, 15 luglio 2016, n. 179.