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Le interdittive antimafia: alla ricerca del giusto equilibrio tra incertezze ermeneutiche e forzature applicative

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Le interdittive antimafia: alla ricerca del giusto equilibrio tra incertezze ermeneutiche e forzature applicative

 

Indice

1. Premessa

2. Documentazione antimafia tra comunicazioni ed informazioni

3. Le informative specifiche

4. Le informative generiche

5. Profili critici

6. Rapporti tra le interdittive e le misure terapeutiche

7. La prevenzione antimafia collaborativa ai sensi del D. L. n. 152 del 2021

8. Il nuovo volto delle garanzie partecipative

9. Conclusioni

 

1.Premessa

La politica criminale che il legislatore persegue con le interdittive antimafia assolve la funzione di preservare l’economia dall’infiltrazione di consorterie criminali attraverso l’adozione di strumenti amministrativi di carattere preventivo.

Alla mutevolezza delle organizzazioni mafiose, l’ordinamento risponde con strumenti capaci di colpire gli scopi economici delle mafie, sempre più attente e desiderose di soddisfare le proprie bramosie economiche, attingendo a mercati legali.

È doveroso ricordare che le organizzazioni mafiose stanno ormai dismettendo il volto violento, ed intimidatorio, tratti caratterizzanti della mafiosità, per inserirsi nel solco del mercato lecito e poter agire indisturbati nel raggiungimento dei loro obiettivi (criminali).

Pertanto, l’oggetto di tutela non è più circoscritto ad esigenze di ordine pubblico ma si estende anche a quelle economiche, per cui l’originario oggetto di tutela acquista nuove forme.

Si osserva: “L’intuita attitudine plurioffensiva dell’associazione di stampo mafioso rende ragione della pluralità degli interessi protetti indicati, con varia latitudine espansiva, nell’ordine pubblico, nell’assicurazione delle corrette condizioni della libertà di mercato e d’iniziativa economica”.    

Da tempo il legislatore, con l’obiettivo della salvaguardia dell’ordine pubblico economico, adotta politiche di contenimento del fenomeno mafioso mediante l’adozione di strumenti preventivi, idonei a sterilizzare l’attività di imprese compromesse con le congreghe mafiose.

Tuttavia, le politiche preventive adottate dal legislatore non sono esenti da critiche dottrinali e, financo, seppur in modo più marginale, dalla giurisprudenza a causa dei molteplici profili di “sofferenza costituzionale” che presentano le interdittive.

 

2. Documentazione antimafia tra comunicazioni ed informazioni

Il Codice Antimafia – Libro I, Titolo II, Capo III – contempla l’articolato sistema della documentazione antimafia, distinguendo le comunicazioni antimafia e le interdittive antimafia che costituiscono l’ossatura del sistema antimafia.

Si tratta, in entrambi i casi, di misure di prevenzione amministrativa ispirate a logiche e funzioni differenti tra loro.

Le comunicazioni antimafia si presentano quali sistemi di accertamento a carattere vincolato che conferiscono al Prefetto la potestà amministrativa di accertare, mediante la consultazione della banca dati di cui all’art. 96 del Codice Antimafia, la sussistenza a carico di determinati soggetti, di una misura di prevenzione personale emessa dal Tribunale ed idonea a dimostrare la sussistenza di un grado di permeabilità mafiosa.

In altri termini, quando una persona fisica o giuridica chiede il rilascio di uno dei titoli di cui all’art. 67, il Prefetto, previa verifica della banca dati nazionale unica, comunica alla Pubblica Amministrazione competente, la sussistenza o meno di una in capo al richiedente di una misura di prevenzione di ordine giurisdizionale. In caso di esito positivo, il Prefetto spicca una comunicazione intedittiva, al contrario se vi è un esito negativo, il Prefetto emana una documentazione liberatoria e si procede a rilasciare l’atto abilitativo per lo svolgimento dell’attività di impresa.

Si osserva in dottrina che: “La comunicazione antimafia, sia quella di tipo liberatorio si quella di tipo interdittivo, non è un vero e proprio provvedimento amministrativo, mancando in essa un momento volitivo di esercizio della discrezionalità amministrativa, bensì è atto di conoscenza cioè atto che dichiara l’esistenza di una determinata situazione di fatto o di diritto di cui l’Amministrazione è venuta a conoscenza mediante l’opera di apprendimento dei suoi organi”.

L’informazione (interdittiva) antimafia è un provvedimento amministrativo di natura preventiva e discrezionale volta ad accertare le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84, comma 3 del Codice Antimafia.

In questo caso, la Pubblica Amministrazione richiede al Prefetto l’emanazione di una informativa antimafia, prima di stipulare, approvare o autorizzare contratti e subcontratti. Il Prefetto, previa consultazione della banca dati nazionale unica, informa la Pubblica Amministrazione dell’esistenza o meno di una misura di prevenzione di tipo giurisdizionale o dell’esistenza o meno del rischio di infiltrazione mafiosa.

Sul piano classificatorio, mentre la comunicazione antimafia attiene alle ipotesi di rilascio di titoli autorizzatori o concessori; l’informativa interdittiva concerne l’avvio di un rapporto economico tra il privato e la Pubblica Amministrazione.

Circa la natura delle interdittive antimafia, l’edizione giurisprudenziale formatasi in materia ritiene che: “Per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, va premesso che si tratta di una misura volta – ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge” (Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n.1743).

Ne deriva che l’interdittiva antimafia presenta carattere preventivo e cautelare che si propone di sterilizzare ogni minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico economico derivante dal rischio concreto di infiltrazione mafiosa.

Ogni dubbio circa la natura preventiva ed anticipatoria è stato fugato dalla sentenza n. 57 della Corte costituzionale che ritiene: “Quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento. È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento in questione, al quale, infatti, viene riconosciuta dalla giurisprudenza natura «cautelare e preventiva» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa”.

Ciò desta particolari dubbi, in quanto si rischia di inciampare nel fenomeno della “truffa delle etichette” attraverso cui adottando misure preventive si cela il rischio di applicare misure astrattamente cautelari, ma sostanzialmente sanzionatorie.

Il Prefetto per valutare il rischio di infiltrazione mafiosa è chiamato ad apprezzare, mediante un ragionamento di tipo probabilistico che si fonda sulla regola del “più probabile che non”, l’esistenza di elementi gravi, precisi e concordanti tali da attestare il rischio di infiltrazione mafiosa nella compagine imprenditoriale.

Nel compiere questo ragionamento, il Prefetto deve seguire un giudizio prognostico (ex ante) assistito da un grado d verosimiglianza degli elementi a sua disposizione individuati e valorizzati in modo unitario e non già atomistico per giungere a ritenere fondato il rischio di permeabilità mafiosa.

L’adozione della regola del più probabile che non è perfettamente compatibile con la ratio dell’istituto che muove da una finalità preventiva e cautelare che consente di non accogliere la regola penalistica dell’oltre ragionevole dubbio, atteso che con l’interdittiva si cerca di prevenire il rischio di infiltrazione mafiosa e non già a sanzionare condotte penalmente rilevanti.

Peraltro, il rischio di infiltrazione mafiosa può essere desunto dalla ricorrenza dei cc.dd “delitti spia”, contemplati nell’art. 84, comma 4 lett.a), a cui vanno aggiunte valutazioni che prescindono da elementi tipizzati, fino ad ammettere interpretazioni largheggianti.

A riguardo, il Consiglio di Stato ha individuato una serie di situazioni indiziare legittimanti l’adozione del provvedimento interdittivo ed è giunta a ritenere che: “L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi: a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità” (Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743; Cons. St., Sez. III, 15 gennaio 2019, n. 389).

Sul piano degli effetti, abbiamo assistito ad un ampliamento del provvedimento interdittivo, inizialmente limitato ai contratti con la Pubblica Amministrazione attraverso contratti pubblici, sovvenzioni e concessioni.

Con il decreto correttivo 153 del 2014 si è avuto un ampliamento dell’efficacia delle interdittive anche alle autorizzazioni e, quindi, ai rapporti tra la società interessata dalla interdittiva ed i privati.

È stato osservato che: “Il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica” (Cons. St., Sez. III, 9 febbraio 2017, n. 656).

Prova ne è l’art. 94 del Codice Antimafia che impone alle Pubbliche Amministrazioni di revocare le autorizzazioni, le concessioni e di recedere dai contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione e la società attinta dalla interdittiva.

Sul piano degli effetti, le interdittive antimafia provocano l’incapacità giuridica dell’azienda; pertanto al privato attinto da una misura interdittiva non è privato della possibilità di ottenere atti ampliativi, né stipulare contratti con l’Amministrazione pubblica.

L’art. 94 del Codice antimafia prevede che in caso di interdittiva successiva la parte pubblica deve revocare l’autorizzazione o concessione, recedere dal contratto, fatto salvo il pagamento del valore delle opere eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione della parte rimanente, nei limiti delle utilità conseguite.

Le pubbliche amministrazioni non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi.
 

3. Le informative specifiche

Il tentativo di infiltrazione mafiosa può essere valutato sulla scorta dell’esistenza di specifiche circostanze tipizzate che, come abbiamo visto, sono rappresentate dai cc.dd. delitti spia.

Gli elementi normativi sono annoverati nell’ art. 84 comma 4:

a) dai provvedimenti che adottano una misura cautelare o il, giudizio ovvero che recano una condanna anche non definitiva per la rimozione dei delitti di cui agli articoli 353 , 353 bis , 603 bis , 629 , 640 bis , 644 , 648 bis , 648 ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51 , comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modifiche, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356;

b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione;

c) salvo che ricorra l’esimente di cui all’articolo 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi prevista;

d) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno ai sensi del decreto-legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modifiche, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, ovvero di quelli di cui all’articolo 93 del presente decreto;

e) dagli accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d);

f) dalle sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle citazioni societarie, fatto da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità sub professionali dei entranti, denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia.  

La scelta del legislatore di annoverare tassativamente le ipotesi da cui desumere il tentativo di infiltrazione non autorizza l’operatività di alcun automatismo, ma onera il Prefetto di accertare in concreto se vi è il rischio di condizionamento mafioso, cristallizzato nel provvedimento motivazionale, seppur ispirato da logiche probabilistiche tali da attestare la possibile permeabilità mafiosa dell’impresa.

Tra le ipotesi che suscitano perplessità ai fini dell’adozione della informativa antimafia vi sono le sentenze di proscioglimento. La ratio sottesa a tale previsione risiede nella circostanza che seppur la contiguità mafiosa non costituisce un fatto penalmente rilevante, essa può essere ritenuta idonea ad accostare la contiguità ad un concreto condizionamento di tipo mafioso, abbracciando anche questa volta quella finalità preventiva che caratterizza la documentazione antimafia.

Può essere apprezzato per l’adozione dell’informativa antimafia anche il mero rapporto di parentela. Questa ipotesi richiede una maggior attenzione e rifuggire dall’idea di chi ritiene che il parente del mafioso è anch’egli mafioso.

Non mancano pronunce che non ammettono forme di automatismo in tal senso: “nel nostro ordinamento la pericolosità sociale di un individuo non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale e genetico-costitutiva (…) né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale” (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 3 agosto 2016, n. 257).

Ancora più esplicito è il Tar Campania: “Sennonché, affinché abbia carattere determinante ai fini dell’emissione dell’interdittiva antimafia, occorre che il legame di parentela si raccordi con la ravvisata esistenza, sia pure in via presuntiva, di altri dati quali la comunanza di interessi o la soggezione o compiacenza ai voleri del parente, tanto da farne desumere che l’impresa possa essere condizionata nei suoi indirizzi dalla regia estranea e orientata all’assecondamento di logiche criminali (…)La mancanza di tale pertinente apprezzamento inficia il provvedimento, sottraendo all’accertamento il carattere di compiutezza che valga ad evitare che l’ineliminabile permanenza del rapporto di parentela sottragga all’interessato ogni libertà nella determinazione delle proprie individuali scelte d’impresa.” (TAR Campania, Sez. I, 9 marzo 2022, n. 2985).

Pertanto, nel caso di rapporti parentali si richiede l’esistenza di una regia familiare nella gestione degli affari dell’impresa al fine di comprendere se l’attività imprenditoriale sia riferibile agli interessi economici della consorteria mafiosa.


4. Le informative generiche

Il tentativo di infiltrazione mafiosa può essere, altresì, legittimato da alcuni elementi prasseologici idonei a segnalare il rischio di infiltrazione svincolati da un’applicazione tassativa della legge.

In particolare, le lettere d) ed e) dell’art. 84 si caratterizzano per una formulazione cc.dd a “struttura aperta” che consente di ricavare, in sede di applicazione della interdittiva, tutta una serie di elementi sintomatici da cui desumere il rischio di infiltrazione mafiosa che può presentarsi nelle forme della contiguità soggiacente e nella contiguità compiacente.

Si autorizza, pertanto, a spiccare una interdittiva sulla scorta di elementi che facilmente si sottrarrebbero ad una applicazione rigida e tassativa della legge.

Gli elementi da cui desumere l’esistenza di elementi sintomatici sono rassegnati in alcune pronunce, tra le quali va segnalata la sentenza del Consiglio di Stato n. 1743 del 2016: “L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi: a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità”.

L’abbandono della rigidità normativa per far spazio a clausole generali non sempre facilmente definibili è stata accolta con favore dalla giurisprudenza in aderenza della funzione preventiva attribuita alle interdittive.

Il formante giurisprudenziale, a riguardo, ritiene che: “la sopra richiamata funzione di frontiera avanzata dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi” (Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).

Si osserva in dottrina che un uso imprudente dello strumento della interdittiva può finire per “bruciare” l’imprenditore sano anziché “fare terra bruciata attorno alle mafie”.

Sulla scorta di alcune pronunce, la dottrina denuncia il sistema estensivo generato con le interdittive generiche, secondo cui esse sarebbero censurabili sotto il profilo costituzionale per violazione dell’insuperabile principio di legalità.

Nel caso De Tommaso contro Italia, con la sentenza della Grande Camera del 23 febbraio 2017, l’Italia è stata condannata per l’adozione dei presupposti di pericolosità generica formulati in modo vago ed elastico (soggetto dedito abitualmente dedito a traffici delittuosi e di persona che viva abitualmente con i proventi di attività delittuose).

Il fermento ermeneutico provocato dalla sentenza De Tommaso ha portato il Consiglio di Stato prima e la Corte costituzionale poi a ritenere compatibile il sistema italiano delle misure di prevenzione con gli standards imposti dalla Corte EDU.
 

5. Profili critici

La levata di scudi operata dalla giurisprudenza in via definitiva si è avuta con la sentenza del Consiglio di Stato n. 3641 dell’8 giugno del 2020 che ha definitivamente stabilito che le misure interdittive antimafia costituiscono la “risposta ordinaria dell’ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata”.

La logica del “più probabile che non” che governa la materia delle interdittive favorisce l’adozione delle misure de quo anche nelle ipotesi di mero pericolo di contiguità mafiosa delle imprese che operano nel mercato legale, nonché conferisce penetranti poteri alle autorità amministrative soggetti soltanto alla “sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento del fatti”  (Cons. St., Sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724).

In verità, ciò di cui sarebbe deficitario il potere attribuito al Prefetto è proprio la discrezionalità, in quanto la potestà attribuita al Prefetto si risolve piuttosto in una attestazione consistente nella possibilità che una impresa possa subire o essere inviluppata in un contesto mafioso.

L’ampio potere discrezionali di cui godono in materia le autorità amministrative hanno finito per irretire nell’area della mafiosità i meri contatti, i rapporti di semplice frequentazione con soggetti che gravitano nelle più disparate organizzazioni criminali.

Si finisce così per ricondurre, attraverso operazioni ermeneutiche del tutto opinabili, nell’area della mafiosità anche situazioni non ancora identificabili attraverso cui le consorterie mafiose potrebbero soltanto operare un condizionamento nella gestione delle imprese.

Si finisce per trascurare che l’interdittiva provoca, specie per le imprese che operano nel settore pubblico, una decozione dell’impresa a causa delle perdite reddituale che intervengono gradualmente.

Anche la misura mitigatrice del controllo giudiziario non sembra attenuare gli effetti, in quanto spesso interviene dopo un importante lasso di tempo e di fatto quel provvedimento temporaneo interdittivo finisce per essere la scure definitiva dell’impresa attinta da una interdittiva antimafia.

Distonie sistemiche si rinvengono, inoltre, nelle ipotesi del c.d. “contagio”, ove una impresa pulita può essere destinataria di una interdittiva per il solo fatto di entrare in contatto con una impresa in “odor di mafia”.

La distonia risiede nella divergenza di giudicati tra le Corti, ove in una materia che si presenta foriera di perplessità costituzionali la linearità di vedute tra gli organi giurisdizionali costituisce una garanzia per la tenuta del sistema così come congegnato dal legislatore.

In particolare, per il Consiglio di Stato: “perché possa presumersi il contagio alla seconda impresa della mafiosità della prima è, ovviamente, necessario che la natura, la consistenza e i contenuti delle modalità di collaborazione tra le due imprese siano idonei a rilevare il carattere illecito dei legami stretti tra i sue operatori economici” (Cons. St., Sez. III, 22 giugno 2016, n. 2774).

Maggiori cautele vengono adottate dal Consiglio di giustizia amministrativa siciliana per cui: “la giurisprudenza amministrativa è concorde nell’affermare (…) che il rischio di infiltrazione mafiosa non si trasmette automaticamente ed ineluttabilmente a cagione e per effetto dell’instaurazione di un qualsiasi contatto o collegamento negoziale o di un qualsiasi rapporto commerciale, pur se intrattenuto con un “soggetto apparentemente puro” (a carico del quale – cioè – non sussista alcuna stimmata indicativa, pur se presuntivamente, di vicinanza ad ambienti mafiosi)” (CGA, 28 agosto 2017, n. 379).

Il tema delle “interdittive a cascata” suscita molti dubbi costituzionali, in quanto in esse opererebbe una doppia presunzione, la prima opera sulla scorta di accadimenti indiziari riconducibili alla impresa operante nel cono d’ombra mafioso, la seconda presunzione si baserebbe sulla prima, con buona pace di tutti i diritti costituzionalmente protetti.

Si è rilevato in dottrina che il contagio sia in grado di portare a decozione di imprese sane: “essendo stato personalmente destinatario dell’interdittiva antimafia, quello diventerà una sorta di untore per gli altri operatori economici, giacché ogni collaborazione con lui potrà assumere valenza indiziaria dell’altrui esposizione al rischio antimafia”.

Pertanto, non sono accettabili automatismi, ma è necessario accertare, sulla base del più probabile che non, l’esistenza di una cointeressenza o contiguità tale da sprigionare il contagio mafioso tra le imprese.

Quanto all’oggetto, la formulazione della norma “tentativi di infiltrazione mafiosa” è stata completamente soppiantata dalla giurisprudenza che parla di “rischio “o di “pericolo” di infiltrazione mafiosa; di conseguenza mentre con il tentativo deve essere accertato in concreto un fatto storico idoneo a condizionare la gestione dell’impresa, con le formule vacue di “rischio” o “pericolo” si guarda ad eventi che potrebbero soltanto verificarsi in futuro.
 

6. Rapporti tra le interdittive e le misure terapeutiche

Al fine di evitare che con la misura tranciante dell’interdittiva possa determinarsi una decozione dell’impresa, il legislatore è intervenuto più volte per introdurre meccanismi più soft per evitare l’estinzione dell’impresa.

In questo modo hanno trovato ingresso nel nostro ordinamento misure proporzionali secondo l’esigenza di prevenzione delle imprese attinte dalla misura, le cui finalità sono ispirate, con sfumature diverse, a politiche recuperatorie delle imprese.

Così con l 17 ottobre 2017 n. 161, il legislatore ha introdotto una nuova misura di prevenzione patrimoniale, disciplinata dall’art. 34 bis del Codice antimafia e rubricata “Controllo giudiziario dell’impresa”.

L’istituto di nuovo conio va ad aggiungersi all’amministrazione giudiziaria dei ben ex art. 34. Tratto caratterizzante di entrambi gli istituti è la conservazione della titolarità dell’impresa attinta dalla misura di prevenzione (e dall’interdittiva).

Nella ipotesi contemplata dall’art. 34, lo Stato interviene soltanto nell’amministrazione dei beni; nel caso dell’art. 34 bis, l’intervento dello Stato si riduce ulteriormente per limitarsi ad un controllo sull’amministrazione dell’impresa interessata.

Tanto premesso, l’Amministrazione giudiziaria conosce un penetrante intervento dello Stato, specie nelle situazioni in cui è sovente la collusione tra le organizzazioni mafiose ed il comparto economico.

La misura è disposta nelle ipotesi in cui: “sussistono sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’articolo 416 bis del codice penale o possa comunque agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione personale o patrimoniale previste dagli articoli 6 e 24 del presente decreto, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a), b) e i-bis), del presente decreto, ovvero per i delitti di cui agli articoli 603 bis, 629, 644, 648 bis e 648 ter del codice penale, e non ricorrono i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali”.

L’Amministratore giudiziario esercita i poteri propri del management dell’impresa e nel caso di imprese esercitate in forma societaria, l’Amministratore giudiziario esercita i poteri propri degli organi sociali.

Il controllo giudiziario di cui all’art. 34 bis è attivabile nei casi in cui sussista un pericolo concreto di infiltrazione mafiosa mediante “l’agevolazione occasionale”, intesa quale attitudine del soggetto economico a corrispondere un contributo alle attività di persone già gravate da pregiudizi.

La vigilanza operante sull’andamento della gestione mira a decontaminare l’impresa dall’infiltrazione mafiosa attraverso l’adozione del modello organizzativo di cui al D. Lgs. 231/2001.

Il Tribunale nel disporre la misura può imporre, in alternativa, le seguenti prescrizioni: a) l’obbligo di comunicare al questore e al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, ovvero del luogo in cui si trovano i beni se si tratta di residenti all’estero, ovvero della sede legale se si tratta di un’impresa, gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti e gli altri atti o contratti indicati dal tribunale, di valore non inferiore a euro 7.000 o del valore superiore stabilito dal tribunale in relazione al reddito della persona o al patrimonio e al volume d’affari dell’impresa: b) nominare un giudice delegato e un amministratore giudiziario, il quale riferisce periodicamente, almeno bimestralmente, gli esiti dell’attività di controllo al giudice delegato e al pubblico ministero.

Quanto ai rapporti tra interdittiva e misure di prevenzione di cui all’art. 34 e 34 bis, la proposizione della richiesta del controllo giudiziario presuppone, anzitutto, il preventivo ricorso avverso l’interdittiva ed in caso di accoglimento della richiesta del provvedimento di cui all’art. 34 bis si determina la sospensione dell’interdittiva.

E l’art. 34 bis prevede: “Il provvedimento che dispone l’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 o il controllo giudiziario ai sensi del comma 6 del presente articolo sospende gli effetti di cui all’art. 94”.

La dottrina ha evidenziato come la ratio del controllo giudiziario risiede nella capacità recuperatoria e nel favor verso la continuità aziendale, rifuggendo da logiche retrospettive e stigmatizzanti dell’istituto del controllo giudiziario.

Dello stesso avviso pare essere la suprema Corte che oltre a parlare di “messa alla prova aziendale” aggiunge che il giudice deve valutare gli “elementi probatori in chiave dinamica, proiettando nell’immediato futuro la realtà aziendale ritenuta (in altra sede) inquinata, ammettendo le imprese ricorrenti alla misura richiesta se l’intervento giudiziale di “bonifica” risulti possibile ed escludendo tale evenienza nel caso in cui il grado di compromissione sia talmente elevato da non interferire sugli effetti dell’interdittiva” (Cass. Pen., Sez. II, 28 gennaio 2021, n. 9122).

Importante, infine, la novità introdotta dall’art. 47 del D.L. 152 del 2021 che ha inserito il c.d. controllo giudiziario volontario al comma VI dell’art. 34 bis Codice antimafia. Si riconosce la facoltà alle imprese di essere sentite dal Tribunale di prevenzione, in attesa che sia decisa l’impugnazione dell’interdittiva antimafia.

  
7. La prevenzione antimafia collaborativa ai sensi del D. L. n. 152 del 2021

Il legislatore con il D.L. 152 del novembre 2021 convertito in Legge n. 233 del 29 dicembre 2021 ha introdotto l’art. 94 bis rubricato “Misure amministrative di prevenzione collaborativa applicabili in caso di agevolazione occasionale”.

La novella si è resa necessaria a causa dei numerosi nodi ermeneutici che hanno mostrato un lato poco convincente della materia così come proposta dal codice antimafia, afflitto da distorsioni concettuali con ricadute significative sul piano sistematico.

Punto di partenza per la disamina della disciplina di nuovo conio, risulta essere la individuazione del concetto vago e strisciante di occasionalità. Un approccio è stato offerto dalla giurisprudenza che lo ha definito: “il substrato principale su cui deve appuntarsi l’accertamento del giudice è la realtà imprenditoriale nelle sue implicazioni gestionali, operative che per essere colte nella loro essenza e nelle loro componenti non possono che essere considerate in una visione dinamica e non statica; ed invero, è solo seguendo il loro divenire – dal passato e con proiezione nel futuro – nel contesto di riferimento che si può veramente cogliere a entità dei legami esistenti tra l’impresa e i fattori inquinanti al fine di qualificarlo o meno come occasionale” (Cass. Pen., Sez. V, 22 dicembre 2021, n. 46799).

Ne deriva che l’occasionalità prende spunto da episodi passati anche di non breve durata, ma possono essere rimossi per il futuro stimolando la prosecuzione dell’attività di impresa.

Con la prevenzione collaborativa si stabilisce un rapporto diretto tra l’impresa e le autorità amministrative, senza alcun monitoraggio da parte dello Stato.

Con la prevenzione informativa si instaura, in particolare, un rapporto direttamente tra l’impresa e l’autorità prefettizia, attraverso l’adozione di misure di controllo della durata di sei e dodici mesi quali:

a) l’adozione del modello organizzativo ai sensi del D. Lgs. 231/2001;

b) la trasmissione del flusso informativo verso il Gruppo interforze, di atti il cui valore risulta superiore a 5.000 euro o di valore superiore stabilito dal Prefetti;

c) in caso di società, la comunicazione di forme di finanziamento da parte di soci o di terzi;

d) la comunicazione al gruppo interforze dei contratti di associazione in partecipazione stipulati;

e) l’utilizzazione di un conto corrente per atti di pagamento, riscossione e finanziamenti particolari.

Decorso il termine di durata della misura, il Prefetto esprime una valutazione sulla scorta dei dati forniti dal gruppo interforze e se accerta l’assenza dell’agevolazione occasionale e di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, rilascia un’informazione antimafia liberatoria. Tuttavia, è sempre riconosciuto al Prefetto la potestà di revocare in qualsiasi momento la misura ed adottare una interdittiva antimafia.

Ricorrendo i presupposti, il Tribunale, su proposta del Procuratore della Repubblica, del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo, del Questore o del direttore della direzione investigativa antimafia possa disporre in controllo giudiziario.


8. Il nuovo volto delle garanzie partecipative

Il Codice antimafia, ivi comprese le successive modificazioni, nel disciplinare le misure poste a presidio dell’ordine e della sicurezza pubblica, accompagnata da una esigenza di celerità, avevano finito per comprimere alcune garanzie procedimentali previste dalla L. 241/90, una su tutte le garanzie partecipative.

La legittimità di tale compressione era stata ritenuta legittima anche dalla Corte costituzionale che in nome del contrasto alla criminalità organizzata era legittimo escludere un contrasto con le norme costituzionali.

Confortata dalla Corte costituzionale, anche il Consiglio di Stato aveva ritenuto che “La delicatezza di tale ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del moderno diritto amministrativo” (Cons. St., Sez. III, 8 marzo 2017, n.1109; Cons. St., 31 gennaio 2020, n. 820; Cons. St., Sez III, 3 marzo 2020, n. 1576).

L’impresa attinta da un provvedimento interdittivo risulta esautorata da ogni tipo di rapporti economici e si vede immediatamente cessare ogni rapporto con gli enti pubblici che, abbiamo visto, sono obbligati a recedere dai rapporti contrattuali con le imprese interessate dall’interdittiva, determinando così una morte civile dell’imprenditore.

Risulta evidente come vi fosse un interesse primario dell’imprenditore a poter intervenire già durante la fase procedimentale, in un’ottica marcatamente difensiva. Malgrado ciò, la necessità di provvedere con urgenza rendeva necessario sospendere ogni garanzia partecipativa e riespanderla soltanto con l’attivazione del contenzioso.

Una cesura così netta non è stata accolta da chi riteneva che proprio attraverso la partecipazione procedimentale si consentiva all’impresa di poter fornire elementi utili per addivenire ad una ponderazione degli interessi e alla adozione delle misure più idonee, atteso l’intervento delle interdittive sulla libertà costituzionale della libertà di iniziativa economica.

Questo dato ha portato ad una rimeditazione della giurisprudenza amministrativa la quale ha riconosciuto la necessità di ristabilire un equo bilanciamento di interessi contrapposti, purché ne ricorrevano le condizioni.

La tutela dei diritto di difesa poteva essere così esercitata ogniqualvolta la permeabilità mafiosa appaia “In tutte queste ipotesi dunque, laddove la partecipazione procedimentale non frustri l’urgenza del provvedere e le particolari esigenze di celerità del procedimento – art. 7 della l. n. 241 del 1990 – per bloccare un grave, incontrollabile o imminente pericolo di infiltrazione mafiosa e, dunque, non ostacoli la ratio stessa dell’informazione antimafia quale strumento di massima tutela preventiva nella lotta contro la mafia, la partecipazione procedimentale, prima di adottare un provvedimento interdittivo, potrebbe e dovrebbe essere ammessa in via generale perché: a) consentirebbe all’impresa di esercitare in sede procedimentale i propri diritti di difesa e di spiegare le ragioni alternative di determinati atti o condotte, ritenuti dalla Prefettura sintomatici di infiltrazione mafiosa, nonché di adottare, eventualmente su proposta e sotto la supervisione della stessa Prefettura, misure di self cleaning, che lo stesso legislatore potrebbe introdurre già in sede procedimentale con un’apposita rivisitazione delle misure straordinarie, ad esempio, dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, conv. con mod. in l. n. 114 del 2014, da ammettersi, ove la situazione lo consenta, prima e al fine di evitare che si adotti la misura più incisiva dell’informazione antimafia; b) consentirebbe allo stesso Prefetto di intervenire con il provvedimento interdittivo quale extrema ratio solo a fronte di situazioni gravi, chiare, inequivocabili, non altrimenti giustificabili e giustificate dall’impresa, secondo la logica della probabilità cruciale, di infiltrazione mafiosa, all’esito di una istruttoria più completa, approfondita, meditata, che si rifletta in un apparato motivazionale del provvedimento amministrativo, fondamento e presidio della legalità sostanziale in un ordinamento democratico, che sia il più possibile esaustivo ed argomentato; c) consentirebbe infine al giudice amministrativo di esercitare con maggiore pienezza il proprio sindacato giurisdizionale sugli elementi già valutati dalla Prefettura in sede procedimentale, anche previo approfondimento istruttorio nel contraddittorio con l’impresa, nonché sul conseguente corredo motivazionale del provvedimento prefettizio, e di affinare così ulteriormente, nell’ottica della full jurisdiction, i propri poteri cognitori e istruttori in questa delicata materia, crocevia di fondamentali valori costituzionali, eurounitari e convenzionali in gioco.” (Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 10 agosto 2020, n. 4979).

L’impulso ermeneutico offerto al legislatore per intervenire sulla materia ed introdurre delle novità da sempre auspicabili.

E così l’art. 48 del D.L.152/2021 ha sensibilmente modificato l’art. 92, accogliendo le doglianze elevate dalla dottrina e da una parte della giurisprudenza, sub specie Tar Puglia che aveva già sollevato perplessità circa l’assenza del contraddittorio preventivo.

Pertanto gli auspici formulati sono stati accolti ed il nuovo comma 2 bis dell’art. 92 prevede che se il Prefetto ritenga sussistenti i presupposti per l’emanazione dell’interdittiva “ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa”.

Una attenta lettura della novella impone una duplice indagine.

In primo luogo, la disciplina prevede l’esclusione del contraddittorio se vi sono “particolari esigenze di celerità del provvedimento”, ma ciò non deve destare perplessità, atteso che la stessa l. 241/90 autorizza tale limitazione all’art. 7; in secondo luogo, si esclude la comunicazione se ricorrono “elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose”.

Attraverso il contraddittorio procedimentale si assegna all’impresa un termine non superiore a venti giorni nel quale il soggetto interessato può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché richiedere l’audizione.

Sul piano degli effetti, la comunicazione sospende il termine entro il quale il prefetto deve rilasciare l’informazione antimafia.

All’esito del contradditorio, il prefetto può, in alternativa, tra loro: rilasciare una informazione liberatoria; disporre le nuove misure di collaborazione preventiva (se ricorre l’agevolazione occasionale); adottare l’interdittiva, valutando la nomina di un commissario o il rinnovo degli organi sociali ex art. 32, comma 10 D. L. 90/2014.

Interessante è l’aspetto delle sopravvenienze che potranno essere valutate ai fini dell’adozione dell’interdittiva. Si prevede, a riguardo, che tra la ricezione della comunicazione e la conclusione del contraddittorio possono essere valutate: il cambiamento di sede, di denominazione, della ragione o dell’oggetto sociale, della composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza, la sostituzione degli organi sociali, della rappresentanza legale della società nonché della titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, il compimento di fusioni o altre trasformazioni o comunque qualsiasi variazione dell’assetto sociale, organizzativo, gestionale e patrimoniale delle società e imprese interessate dai tentativi di infiltrazione mafiosa, possono essere oggetto di valutazione ai fini dell’adozione dell’ interdittiva antimafia.

In conclusione, il contraddittorio costituisce un aspetto fondamentale del procedimento, atteso che la ratio della novella è certamente quella di evitare la decozione delle imprese e stimolare la sopravvivenza delle stesse, specie se ricorre una agevolazione soltanto occasionale o se vi è un tentativo di infiltrazione mafiosa.

Pertanto, “il contraddittorio in questione non può relegarsi a strumento di mero carattere formale nell’ambito di un fenomeno da tempo in atto di complessiva dequotazione delle garanzie procedimentali e degli istituti partecipativi, presentando invece valenza sostanziale in considerazione dell’ampiezza degli apprezzamenti demandati al Prefetto e del collegamento funzionale tra contraddittorio e le previste misure di self cleaning”.


9. Conclusioni

Le osservazioni in rassegna hanno mostrato il volto poco sereno delle informazioni interdittive, segnate da numerose aporie sistematiche che in più occasioni hanno richiesto un intervento legislativo diretto ad aggiustare il tiro, ovvero cercare di stabilire un giusto equilibrio tra i valori in gioco: da un lato, buon andamento, concorrenza e, più in generale, legalità dell’Amministrazione e dall’altro, libertà di iniziativa economica per l’impresa.

Gli interventi legislativi che hanno interessato l’articolata disciplina delle interdittive si sono mostrati poco efficaci, avendo partorito, al contrario, una serie di distorsioni applicative che hanno poco contribuito a generare quel necessario bilanciamento tra gli interessi sottesi.

Come noto, si tratta di controverse questioni trattate dalla giurisprudenza che hanno sovente hanno generato campi di tensione con la dottrina.

Il riferimento è alle lasche valutazioni nozionali che hanno favorito storture interpretative, fino a generare un lassismo ermeneutico.

Si pensi al concetto di “tentativi di infiltrazioni”, il cui portato interpretativo evoca comportamenti e condotte concrete, tali da condizionare la gestione dell’impresa, ma che la giurisprudenza ha sostituito, forzandone il contenuto, con il concetto vaporoso di “rischio” la cui portata andrebbe ascritta a momenti di incertezza circa la verificazione di un evento.

Dubbi sorgono, altresì, in ordine al “contagio”, dove una impresa sana può essere destinataria di una interdittiva in ragione del mero contatto commerciale con una impresa in odor di mafia.

Ebbene, una parte della giurisprudenza ritiene idoneo il mero contatto; per la dottrina ed altra giurisprudenza non è sufficiente il mero contatto se non è accompagnato da un solido quadro indiziario. Desta, pertanto, perplessità l’utilizzo di presunzioni che legittimano l’adozione di misure asfittiche che incidono direttamente sulle garanzie costituzionali.

I dubbi e le incertezze non si arrestano ai profili semantici ma finiscono per sprigionare i propri effetti sulla penetrante potestà attribuita al Prefetto, legittimato a spiccare una interdittiva antimafia. Non convince l’ampia discrezionalità riconosciuta al Prefetto, il cui sindacato si limiterebbe ai classici profili di logicità, proporzionalità e ragionevolezza.

Invero, si tratterebbe non già di discrezionalità, bensì di attestazioni, ovvero di un atto di conoscenza attraverso cui si accerta (e dimostra) il tentativo di infiltrazioni mafiose.

Le incertezze si acuiscono notevolmente per via dell’adozione del permissivo standard probatorio del “più probabile che non” che, in ragione dell’esigenza di anticipazione della tutela e della discrezionalità conferita al Prefetto, si ritiene legittimo quale parametro fondante per emanare l’interdittiva antimafia.

Tramite una sequenza inferenziale, il Prefetto sarebbe in grado di acclarare l’esistenza del rischio di infiltrazione mafiosa per trovarne conferma, poi, in una serie di indizi riscontrati oggettivamente.

In altre parole, non si procede con il rigore dell’oltre ragionevole dubbio, tipico del diritto penale, attraverso cui si neutralizzano ricostruzioni alternative, ma si predilige un criterio meno rigoroso, in quanto non si tratta di provvedimenti sanzionatori, bensì cautelari volti a prevenire il pericolo di infiltrazioni di consorterie mafiose.

Tuttavia, la discrezionalità riconosciuta al Prefetto è controbilanciata da un massivo obbligo motivazionale che può essere soddisfatto anche per relationem, rinviando ad atti e relazioni stese dagli organi di polizia.

L’introduzione dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario prima, e le misure introdotte con la recente riforma costituiscono validi strumenti per salvaguardare ed evitare la decozione delle imprese.

Si è proceduto alle riforme anche per mano della giurisprudenza amministrativa che, con spirito critico, ha posto in evidenza tutta una serie di aporie sopra evocate che fanno delle misure interdittive una materia scivolosa e per tale ragione si richiede un maggior rigore in sede applicativa.

Malgrado le opinabili scelte legislative e giurisprudenziali, le interdittive antimafia costituiscono un valido strumento di presidio di legalità, in grado di paralizzare le attività economiche interessate da cointeressenze con le organizzazioni criminali, i cui effetti potrebbero essere apprezzati laddove venisse conferito agli organi giurisdizionali il potere di emanare una interdittiva antimafia, finendo così per superare definitivamente quelle sofferenze costituzionali da cui è affetta la materia.

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