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Trattativa Stato-mafia: il giudizio ordinario

Parte ottava: il procedimento sulla trattativa
La Calunnia - Botticelli
La Calunnia - Botticelli

Questo scritto è stato originariamente pubblicato l'8 aprile 2020 dalla rivista Diritto Penale e Uomo. Viene adesso ripubblicato, per gentile concessione della direzione della predetta rivista, nella rubrica "La linea della palma" di Filodiritto" .

 

3.4.3 Il giudizio ordinario (la sentenza della Corte di assise di Palermo).

Il 20 aprile 2018, a quasi cinque anni di distanza dalla prima udienza tenutasi il 27 maggio 2013 e dopo 228 udienze, 1.250 ore di dibattimento, la deposizione di 190 testi[1], l’acquisizione di innumerevoli documenti cartacei e digitali, e cinque giorni di camera di consiglio, la Corte di assise di Palermo ha letto il dispositivo della sentenza nei confronti di Leoluca Bagarella + 9[2].

È questa la prima decisione sulla trattativa Stato – mafia emessa a seguito di un giudizio dibattimentale e di una cognizione acquisita nella pienezza del contraddittorio tra le parti.

La motivazione, depositata il 9 luglio 2018, ha dimensioni straordinarie: 5.237 pagine, divise in nove parti a loro volta divise in 71 capitoli e una miriade di paragrafi.

La Corte ha accolto le proposizioni essenziali dell’accusa.

Ha riconosciuto l’esistenza del reato di minaccia al Governo e ne ha riconosciuto responsabili in ogni sua parte Leoluca Bagarella (condannato a ventotto anni di reclusione) e Antonino Cinà (dodici anni di reclusione).

Ha ugualmente affermato la responsabilità di Giuseppe De Donno (otto anni di reclusione), Mario Mori e Antonio Subranni (entrambi dodici anni di reclusione) per il medesimo reato ma circoscrivendola alle condotte contestate fino al 1993, escludendo l’aggravante della connessione teleologica e assolvendoli per le condotte successive per non avere commesso il fatto.

Ha dichiarato responsabile anche Marcello Dell’Utri (dodici anni di reclusione) ma solo delle condotte compiute nei confronti del Governo guidato da Silvio Berlusconi, assolvendolo per le condotte precedenti per non avere commesso il fatto.

Ha condannato Massimo Ciancimino (otto anni di reclusione) per il reato di calunnia in danno di Gianni De Gennaro.

Ha assolto Nicola Mancino dal reato di falsa testimonianza per insussistenza del fatto e Massimo Ciancimino dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa con la stessa formula.

Ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Salvatore Riina per morte del reo e di Giovanni Brusca, previa concessione della speciale attenuante della collaborazione, essendosi estinto il reato per prescrizione.

Ha condannato tutti gli imputati riconosciuti responsabili del reato di minaccia al Governo al risarcimento del danno delle parti civili Presidenza del Consiglio dei Ministri, Regione Sicilia, Comune di Palermo, Centro studi e iniziative culturali Pio La Torre, Libera associazione contro le mafie.

Ha condannato tutti costoro, tranne Marcello Dell’Utri, al risarcimento del danno dell’Associazione tra familiari delle vittime di via dei Georgofili e Massimo Ciancimino al risarcimento del danno provocato a Gianni De Gennaro.

Premesse queste informazioni di sintesi, ci si limiterà nel prosieguo ad esprimere, senza alcuna pretesa sistematica e di completezza, alcune sensazioni suscitate dalla lettura della motivazione.

Si ritiene che questa sia l’unica “misura” possibile nel confronto con una sentenza monumentale, emessa a conclusione di un giudizio che ha esplorato una rilevantissima quantità di temi e di tracce, sulla quale è già in corso la verifica di secondo grado che, verosimilmente, richiederà tempi tutt’altro che brevi.

Entro questi precisi confini, pare di doversi necessariamente prendere le mosse proprio dal dato dimensionale più volte sottolineato.

Ogni aspetto del primo giudizio dibattimentale sulla trattativa assume dimensioni straordinarie, addirittura eclatanti.

La sensazione di chi scrive è del resto avvertita dallo stesso collegio che l’ha così espressa (pagg. 65 e ss.):

«senza alcuna enfasi, può con assoluta serenità affermarsi che l’istruttoria dibattimentale svolta nel processo di cui la presente sentenza costituisce epilogo ha ricostruito la storia recente dell’organizzazione “cosa nostra” […].

Il processo ha assegnato a questa Corte un incarico arduo e pressoché titanico, perché i fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa contestata, l’art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri».

Comincia così la motivazione propriamente detta.

Non si tratta di una sottolineatura fine a se stessa, non è il bisogno di far comprendere quanto sia stato duro l’impegno necessario e quanta dedizione ci sia voluta per completare l’impresa.

Non è questo.

La Corte avverte che il suo lavoro ha raggiunto una profondità e un’estensione non comparabili con qualsiasi altra esperienza giudiziaria precedente o coeva e trova in questo una legittimazione e una credibilità tali da farne un unicum nel panorama dei giudizi che hanno esplorato direttamente o indirettamente la trattativa.

Segue non a caso l’esposizione dei fatti esplorati: tentativi di golpe e stragi dei primi anni Settanta, sequestro e uccisione di Aldo Moro, stagione del terrorismo brigatista, gesta della loggia P2, sequestro Cirillo, ai quali si sono aggiunte le stragi di mafia e gli omicidi di uomini delle istituzioni.

Sullo sfondo – avverte la Corte - si materializzano ancora, componendo un unico filo conduttore, gli interventi di strutture massoniche e paramassoniche e di esponenti infedeli dei cosiddetti servizi segreti.

Si accentua in tal modo l’irripetibile ampiezza dell’esplorazione e si introduce una nuova suggestione: la trattativa viene da lontano, da un mondo segreto e parallelo fatto di intrighi e ombre in cui si parlano, agiscono e convergono lo Stato e l’antistato e i loro mediatori in servizio permanente con il risultato di corrodere le fondamenta democratiche del Paese e di rendere possibile quello che dovrebbe essere impossibile e impensabile.

Da questa prima sensazione ne derivano altre che le sono strettamente connesse.

Attengono ad altrettanti pensieri forti che pare di individuare alla radice della decisione.

Nulla è troppo quando è necessario capire fenomeni di questa portata: non vale in casi del genere il banale principio dell’economia dei mezzi processuali per il quale compito del giudice è identificare il limite minimo di ciò che serve per la sua decisione e non oltrepassarlo; vale invece l’opposto principio che quanto più si estende l’accertamento, tanto meglio e con più precisione si arriverà alla verità.

Perde rilievo il tempo la cui importanza e i cui effetti cedono di fronte al valore primario della verità da raggiungere.

Scolorano, nel senso di non potere incidere sull’esercizio delle funzioni del giudice o di meritare di essere stigmatizzate quando invece incidono, perfino le regole normative o loro interpretazioni che neghino o ostacolino l’accertamento della verità come inteso dalla Corte.

Più di un passaggio testuale conferma la correttezza di queste sensazioni.

Si pensa anzitutto al rigetto di tutte le eccezioni che hanno messo in dubbio la competenza della Corte palermitana (pagg. 68 e ss.).

Il collegio le ha respinte tutte con dovizia di riferimenti normativi e argomentazioni tecniche ma, fedelmente all’impegno preso, non si farà alcun commento al riguardo.

Ciò che conta è il resto.

Contano le espressioni di compiacimento e sollievo (riferite alla decisione n. 53590/2017 delle Sezioni unite penali che ha ritenuto non necessaria, ai fini della connessione teleologica regolata dall’art. 12, comma 1, lettera c), c.p.p., l’identità tra gli autori del reato mezzo e quelli dei reati fine).

Contano le espressioni di preoccupazione legate a possibili mutamenti giurisprudenziali futuri che potrebbero mandare in fumo il lavoro pluriennale della Corte.

Il che è come dire: è un bene quello che conferma la competenza in capo alla Corte palermitana, è un male assoluto quello che la nega o la mette in dubbio.

Un’altra conferma viene dalle considerazioni spese in motivazione allorché, riconosciuta la colpevolezza di Massimo Ciancimino per il delitto di calunnia in danno di Gianni De Gennaro, l’estensore rileva (pag. 837) che il termine di prescrizione per il reato in questione è decorso pochi giorni dopo la data della lettura del dispositivo e lamenta l’assoluta irrazionalità del nostro sistema processuale che permette la prosecuzione della decorrenza del termine medesimo anche quando la pretesa punitiva statuale sia stata esercitata.

È scontata la legittimità di ogni opinione sulla prescrizione, sul modo in cui opera e sugli effetti che produce.

Colpisce tuttavia che a quella legittima opinione non sia seguito neanche un rigo sul tempo decorso dai fatti, sulla prevedibilità di un serio rischio prescrizionale a fronte di un accertamento giudiziale che fin dall’inizio si preannunciava lungo e complesso, sull’opportunità che proprio per questo si prendesse in considerazione una trattazione separata.

Nell’opinione della Corte la prescrizione del reato contestato a Ciancimino è frutto esclusivo delle sciagurate regole normative senza che affiori alcuna possibile concausa interna all’organizzazione giudiziaria complessiva.

Resta ancora qualcosa da mettere in luce e lo si farà immediatamente per poi avviarsi alla conclusione.

Un’occasione di riflessione è data dal capitolo 2 della parte terza (pagg. 867-1.027), intitolato “Gli antefatti”.

È la parte che riguarda la genesi e le cause del periodo stragista.

La Corte ne colloca l’inizio sul finire del 1991, quando ancora il maxiprocesso non era arrivato al suo epilogo ma si era comunque compreso che sarebbe stato impossibile condizionarlo.

Le stragi – è questo il convincimento del collegio – furono la reazione rabbiosa di Cosa nostra e dell’ala corleonese che la dominava in quel periodo quando dovettero prendere atto che la compiacenza e la sottovalutazione su cui tante volte avevano fatto affidamento in passato erano finite e che gli uomini sui quali si pensava di poter contare come comode entrature nelle istituzioni non erano così disponibili come si era creduto.

Di questo titolo interessano particolarmente le conclusioni raggiunte dal collegio giudicante (pag. 987) sul «ruolo dell’On. Mannino quale soggetto sollecitatore della c.d. trattativa Stato-mafia».

Nella motivazione si dà come fatto scontato che il politico abbia rivestito quel ruolo e lo si attribuisce alla sua consapevolezza di essere un bersaglio designato di Cosa nostra per non essere riuscito a darle ciò che voleva sopra ogni cosa, “il buon esito” del maxiprocesso.

Il passo successivo è che il politico si rivolse al generale Subranni, che conosceva da tempo, non per chiedergli misure di protezione fisica ma per «operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato», cioè, in termini più chiari, per aprire un canale di dialogo ed eventualmente di trattativa con Cosa nostra.

Uno degli elementi cui la Corte ha attribuito maggiore rilievo in questa direzione è stato la deposizione del giornalista Antonio Padellaro (pagg. 959 e ss.), all’epoca dei fatti notista politico per il settimanale L’Espresso allora diretto da Claudio Rinaldi.

Secondo la descrizione dell’episodio fatta in motivazione, l’8 luglio 1992 Padellaro si incontrò con Mannino nell’ufficio romano di questi. Si era concordata un’intervista formale ma il politico cambiò idea e, pur acconsentendo a parlare col giornalista, pretese che le sue dichiarazioni non venissero pubblicate in forma a lui attribuibile.

Il succo del suo racconto fu che sapeva di essere nel mirino di Cosa nostra. Gli constava che essa aveva proposto a esponenti delle istituzioni uno schema di accordo per il maxiprocesso così congegnato: una sorta di salvacondotto per gli uomini dell’ala corleonese che avrebbero dovuto essere messi in libertà e via libera alle condanne per tutti gli altri.

La proposta non fu presa in considerazione ed anzi le politiche antimafia furono perseguite con maggiore determinazione.

Non per questo Cosa nostra mise fine ai suoi approcci e un tentativo fu fatto con Mannino, cui venne chiesto di adoperarsi per un alleggerimento della legislazione repressiva ma egli si rifiutò.

Si evitano commenti di merito e ci si limita ad osservare che la Corte si serve della deposizione di Padellaro per rafforzare l’idea della propensione di Mannino al dialogo sebbene dalle dichiarazioni del giornalista risulti invece che il ministro gli si era presentato come irremovibilmente contrario ad ogni concessione alla mafia siciliana.

«Non ho voluto cedere, perciò mi hanno messo sulla lista nera», questa è la frase che Padellaro attribuisce a Mannino e come tale è correttamente riportata alle pag. 969, 978 e 986.

Tuttavia, quando la Corte passa alla rassegna conclusiva (pag. 987), così descrive la condizione dell’imputato: «ben consapevole della vendetta che “cosa nostra” intendeva attuare anche nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l’esito del maxi processo auspicato dai mafiosi (v. anche confidenze al giornalista Padellaro trasfuse nell’appunto redazionale di cui si è ampiamente detto)».

È vero che la motivazione sul punto fa riferimento alla convergenza di un complesso di fonti di prova ma si dovrebbe comunque convenire che la formulazione del periodo fa intendere che Padellaro sia stato testimone di una sorta di confessione stragiudiziale di Mannino ma così non è.

È comprensibile che l’esigenza di sintesi e di rappresentazione unitaria dei fatti possa portare con sé il rischio di passaggi non completamente sorvegliati ma resta comunque accreditata, limitatamente a questo specifico dettaglio, un’apparenza difforme dalla realtà.

A pagina 1.205 inizia la trattazione del capitolo 4 della terza parte, intitolata “L’accelerazione dell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino”.

È uno dei temi più drammatici e inquietanti di tutto il giudizio.

La Corte, sulla base degli elementi conoscitivi esposti nel capitolo, assume come ineludibile deduzione logica che la decisione di assassinare il magistrato, pur presa da tempo da Riina, subì un’improvvisa accelerazione, sebbene la sua pianificazione non fosse ancora completa e sebbene non potesse sfuggire al boss che la nuova strage avrebbe reso inevitabile una forte reazione statuale, riducendo al silenzio anche coloro che in buona fede avevano considerato il nuovo regime ex art. 41-bis (introdotto dal d.l. 306/1992 dopo la strage di Capaci) in contrasto con le garanzie proprie dell’ordinamento costituzionale.

In parallelo, il collegio ritiene ugualmente provato che lo stesso Riina congelò il progetto, allora prossimo al suo epilogo, di uccidere Calogero Mannino.

La spiegazione dell’accelerazione è questa:

«non v’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Ciancimino costituisca un elemento di sicura novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio del Dott. Borsellino con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quella manifestazione di incontenibile ed efferata violenza concretizzatasi nella strage di via D’Amelio, maggiori vantaggi di quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo».

L’Assise di Palermo è dunque convinta che, per una sorta di eterogenesi dei fini, l’attivismo degli ufficiali volto a fermare le stragi riuscì sì a salvare la vita di Calogero Mannino ma provocò l’eccidio di via D’Amelio.

Si comprendono bene, e certo le ha comprese bene la Corte, le implicazioni logiche e tecniche di questa convinzione.

Si sta affermando che le condotte degli ufficiali del ROS si inserirono in un progetto omicidiario già autonomamente deliberato da Salvatore Riina e ne provocarono il rafforzamento e l’immediata attuazione e lo si sta dicendo in assenza di un’accusa formale mossa agli interessati in uno qualunque dei procedimenti che hanno avuto direttamente ad oggetto la strage di via D’Amelio o che hanno esplorato o lambito la tesi della trattativa.

Ne deriva – va ammesso senza reticenze – una sensazione di disagio. Non perché si tratta di ipotesi che fanno venire i brividi, per usare la frase dei giudici fiorentini, non perché si debba rifuggire dalle verità scomode o se ne debbano temere le conseguenze di disillusione e sfiducia nell’opinione pubblica. Non per questo. 

È semplicemente perché si vorrebbe che una verità grave come questa (se di verità si tratta) sia proclamata non come una mera proposizione ausiliaria di un giudizio che riguarda una presunta trattativa illecita ma come risultato di una procedura che assicuri garanzie e contraddittorio.

Si chiude con un’ultima breve notazione collegata, come di consueto, ad uno specifico passaggio motivazionale.

Nelle pagine 1963 e ss. si delinea il capitolo 13, intitolato “L’anomalia investigativa della mancata perquisizione del “covo di Riina”.

La Corte prende atto dell’assoluzione definitiva di Mori dall’accusa di favoreggiamento per questo episodio.

Ritiene tuttavia di comprendere ugualmente l’omissione «nel contesto delle condotte del Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti».

Questa conclusione pare inficiata da due incongruenze.

La prima: la Corte dichiara formale ossequio al giudicato ma attribuisce alla condotta di Mori una caratterizzazione psicologica esclusa dal giudice naturale del fatto il quale – è utile ricordarlo – affermò testualmente che:

«gli elementi che sono stati acquisiti non consentono ed anzi escludono ogni logica possibilità di collegare quei contatti intrapresi dal col. Mori con l’arresto del Riina».

La seconda: il passaggio motivazionale pertinente menziona sì la sentenza del Tribunale di Palermo ma si confronta poi con la decisione della Corte di appello nel diverso procedimento a carico di Mori e Obinu e ne valorizza talune perplessità (che comunque non impedirono l’esito assolutorio anche in quel giudizio) sulle reali motivazioni che animarono il comportamento dell’ufficiale.

Diventa ancora più marcata la sensazione di disagio descritta in precedenza.

L’impressione è che il giudice della trattativa si sia attribuito la prerogativa di reinterpretare ogni dato sottoposto alla sua attenzione, foss’anche, come in questo caso, una sentenza munita del crisma della definitività.

Si ritorna così alle considerazioni fatte in apertura di paragrafo.

La decisione della Corte di assise di Palermo è presentata dai suoi artefici come un punto di non ritorno, un’esperienza da cui non si potrà più prescindere e che, proprio perché tale, può pretendere di rappresentare l’unica plausibile verità sulle vicende che ne sono state l’oggetto.

A chi scrive pare che l’evidente bisogno di una fiducia totalizzante nella corrispondenza tra la funzione esercitata nel caso specifico, il modo in cui la si è esercitata e il prodotto che ne è derivato, se è comprensibile per il lungo coinvolgimento dei protagonisti in vicende che sollecitano corde profonde in ogni essere umano e per l’ansia encomiabile di fare giustizia, non lo è più su un piano generale, comportando il rischio di dimenticare il dubbio e con esso il limite, il confronto, l’apertura.

 

4. Le conclusioni

Si è provato a raccontare la storia della considerazione giudiziaria della trattativa.

Giunti al termine, e allo stato degli eventi, si dovrebbe tuttavia parlare delle trattative.

Non solo perché è stata la stessa accusa pubblica a distinguere in più fasi l’interlocuzione tra uomini dello Stato e uomini dell’antistato ma soprattutto a causa delle differenze ricostruttive, talvolta dissimili solo per accenni e sfumature, altre volte invece confliggenti in modo insanabile, che, come si è visto, hanno caratterizzato gli esiti giudiziari sintetizzati nello scritto.

Non sorprende che questo sia accaduto.

La trattativa, la sua esistenza, la sua sostanza, i fini di chi l’avrebbe condotta e di chi l’avrebbe voluta e ordinata, sono stati fin dalla genesi e sono ancora adesso altamente divisivi.

Come avvenne più di quarant’anni fa dopo il rapimento di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse (allorché, con l’accompagnamento di aspre polemiche, il fronte della fermezza prevalse su quello della trattativa), è la natura stessa della questione che rende difficili risposte giuste per definizione e provoca fisiologicamente fronti contrapposti, ciascuno identificato da proprie gerarchie valoriali.

La storia della trattativa è quindi una storia di convinzioni ideologiche, etiche e politiche ma anche di sentimenti e umori profondi.

È una storia ancor più complicata perché tanti hanno avuto il compito di narrarla e, mentre questo accadeva, la società italiana cambiava e insieme ad essa cambiava pure, e tanto, la magistratura.

Si affermavano nuove sensibilità, nascevano nuovi linguaggi, si rivendicavano nuove funzioni e nuovi modi di stare nella comunità e di interpretarne i bisogni.

I giudizi sulla trattativa e i loro esiti talvolta così distanti sono figli di questi cambiamenti e non poteva essere diversamente.

Comunque sia, si è ben lontani dalla parola fine e non è affatto detto che quando la si avrà tutti saranno disposti a considerarla definitiva.

 

Bibliografia essenziale

Si riporta di seguito una piccola ma significativa scelta delle pubblicazioni sulla trattativa.

Si noterà che alla forza attrattiva di questa storia non sono sfuggiti molti dei suoi protagonisti.

Hanno voluto infatti  far conoscere il loro punto di vista non solo studiosi come Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo e giornalisti come Marco Travaglio, Marco Lillo e Pino Corrias, ma anche storici collaboratori di giustizia (Tommaso Buscetta), imputati (Mario Mori e Massimo Ciancimino), esponenti politici (Vincenzo Scotti, il ministro dell’Interno che, secondo l’accusa, fu rimosso dal suo incarico per l’inflessibile rigore dei suoi orientamenti antimafia), magistrati come Luca Tescaroli (PM contitolare delle indagini sulla strage di Capaci), Sebastiano Ardita (attuale componente del PM, in passato responsabile dell’ufficio detenuti del DAP), Roberto Scarpinato (attuale Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Palermo, in passato componente del pool antimafia della Procura di Palermo), Antonio Ingroia (avvocato, in passato Procuratore aggiunto di Palermo e tra i principali fautori della tesi della trattativa), Nino Di Matteo (attuale componente del CSM, già componente del pool dei PM che condussero l’inchiesta sulla trattativa), Piergiorgio Morosini (estensore del decreto che dispone il giudizio che ha dato luogo alla fase dibattimentale del processo sulla trattativa).

 

[1] Tra costoro è compreso l’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, sentito nella sua sede del Quirinale. Si ricorda peraltro che proprio il Presidente Napolitano sollevò conflitto di attribuzione nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo in riferimento all’intercettazione di sue conversazioni telefoniche con il senatore Nicola Mancino. Il conflitto fu risolto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2013 che, accogliendo le ragioni presidenziali, dichiarò che non spettava alla Procura palermitana né valutare la rilevanza delle conversazioni intercettate né omettere di chiederne l’immediata distruzione al giudice competente senza contraddittorio tra le parti e con modalità tali da assicurare la segretezza del loro contenuto.

[2] La sentenza è reperibile a questo link.

T. Buscetta (intervistato da S. Lodato), “La mafia ha vinto”, Mondadori, Milano, 1999

R. Scarpinato (intervistato da S. Lodato), “Il ritorno del principe”, Chiarelettere, Milano, 2008

M. Ciancimino, F. La Licata, “Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione”, Feltrinelli, Milano, 2010

P. Morosini, “Attentato alla giustizia. Magistrati, mafie e impunità”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011

S. Ardita, “Ricatto allo Stato”, Sperling & Kupfer, Milano, 2011

M. Mori, G. Fasanella, “Ad alto rischio. La vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Totò Riina”, Mondadori, Milano, 2011

A. Ingroia (intervistato da G. Lo Bianco e S. Rizza), “Io so", Chiarelettere, Milano, 2012

L. Tescaroli, “Se le bombe pagano. Breve storia della trattativa Stato-mafia”, Micromega, n. 8, 2012

G. Fiandaca, “La trattativa Stato-mafia tra processo politico e processo penale”, Criminalia, 2012

V. Scotti, “Pax mafiosa o guerra? A vent’anni dalle stragi di Palermo”, Eurilink, Roma, 2012

G. Fasanella, “Una lunga trattativa”, Chiarelettere, Milano, 2013

G. Fiandaca, S. Lupo, “La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014

N. Biondo, S. Ranucci, “Il patto. La trattativa tra Stato e mafia nel racconto inedito di un infiltrato”, Chiarelettere, Milano, 2014

M. Travaglio, “È Stato la mafia”, Chiarelettere, Milano, 2014

N. Di Matteo, S. Lodato, “Il patto sporco. Il processo Stato – mafia nel racconto di un protagonista”, Chiarelettere, Milano, 2018

M. Lillo, M. Travaglio, “Padrini fondatori. La sentenza sulla trattativa Stato-mafia che battezzò col sangue la Seconda Repubblica”, Paperfirst, 2018

P. Corrias, “Fermate il capitano Ultimo!”, Chiarelettere, Milano, 2019