L’informativa antimafia nel sistema dei criteri della prevenzione è una misura oggettivamente avanzata? Il trust c.d. antimafia
L’informativa antimafia nel sistema dei criteri della prevenzione è una misura oggettivamente avanzata? Il trust c.d. antimafia
Premessa
L’informazione antimafia secondo l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, è una misura preventiva che si fonda sull’essenziale momento predittivo rappresentato dal giudizio prognostico sull’infiltrazione mafiosa (principio di tassatività processuale, attinente alle modalità di accertamento probatorio in giudizio).
Infatti il Consiglio di Stato ha chiarito che ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale». La regola di inferenza logica del “più probabile che non”, impone in sintesi di verificare se dai fatti, l’indice di infiltrazione mafiosa, sia realisticamente desumibile quale pericolo di inquinamento non perché quegli stessi fatti non possano avere una spiegazione alternativa possibile, ma perché il pericolo inferibile da tali fatti rappresenta l’ipotesi più probabile di tutte le altre, pur possibili, e cioè costituisce il 50% + 1 di possibilità (c.d. probabilità cruciale).
Detta misura pertiene alla materia della prevenzione penale ed amministrativa, la quale ha subito negli ultimi anni una dinamica evolutiva piuttosto consistente, stimolata non soltanto dalla necessità di colpire in anticipo il fenomeno mafioso, ma anche ultimamente per la rilevanza che la stessa occupa nel quadro del programma Next Generation EU (NGEU); programma, con il quale l’Unione Europea ha dovuto rispondere alla crisi pandemica che ha colpito l’intera economia mondiale, e che per portata ed ambizione, prevede investimenti e riforme per accelerare la transizione ecologica e digitale, migliorare la formazione delle lavoratrici e dei lavoratori e conseguire una maggiore equità di genere, territoriale e generazionale.
Infatti per avere contezza di detta mutazione, è sufficiente ricordare gli alquanto innovativi - sotto lo spaccato dell’interpretazione giurisprudenziale - arresti giurisprudenziali (cfr. Sez. III, 9 febbraio 2017, n° 565 e 8 marzo 2017, n° 1109), con i quali il Consiglio di Stato ha dichiarato che con il disposto di cui all’art. 89 bis del d.lgs. n°159/2011, così come modificato ed integrato dal d.lgs. n° 153/2014 , peraltro ritenuto rispettoso da parte della Consulta (con le decisioni n°4 del 18 gennaio 2018 e n° 57 del 26 marzo 2020) dei criteri postulati dalla legge delega n°136/2010, si è inteso prevenire il pericolo di fenomeni infiltrativi mafiosi nell’economia legale anche a prescindere da eventuali contratti, concessioni o sovvenzioni pubblici e, quindi, dai rapporti dell’impresa con la pubblica amministrazione, ed ha pertanto esteso l’efficacia interdittiva delle informazioni antimafia alle autorizzazioni e, dunque, anche ai rapporti tra privati.
Ed ancora lo sviluppo evolutivo di detta materia è continuato con la legge n°161/2017, con la quale il legislatore ha ulteriormente maturato il sistema della prevenzione penale dell’infiltrazione criminale delle imprese, aggiungendo (rectius separando) dall’amministrazione giudiziaria, disciplinata dall’art. 34 del codice antimafia e prevista nei casi di infiltrazione “strutturata” o “permanente”, il controllo giudiziario, quale misura autonoma, avente quale specifico presupposto l’occasionalità dell’infiltrazione, (c.d. infiltrazione occasionale art. 11, comma 1, L. 17 ottobre 2017 n° 161 che ha introdotto nel testo unico l’art. 34 bis), e coniugato nelle due forme del controllo giudiziario d’ufficio (art. 34 bis, comma 2) e del “controllo giudiziario c.d. a domanda o a richiesta” (art. 34 bis comma 6), e specificato che quest’ultimo, il quale può essere richiesto direttamente dall’impresa colpita dal provvedimento di interdittiva antimafia, nei cui confronti sia stata, però, proposta impugnazione, contrariamente al controllo giudiziario di cui al secondo comma del citato art. 34 bis, comporta che per la valutazione dell’accoglimento o meno dello stesso, si deve tener conto di quanto accertato dalla P.A. nel provvedimento preventivo di natura amministrativa.
Infine il provvedimento (D.L. 6 novembre 2021, n° 152 convertito nella L. n°233/2011) intervenuto nella materia delle interdittive antimafia con cui è stata introdotta, in aggiunta alla misura amministrativa dell’interdittiva antimafia, una nuova misura amministrativa preventiva, cautelare e provvisoria: la prevenzione collaborativa applicabile in caso di agevolazione occasionale; misura amministrativa quest’ultima, non più statica, com’era per l’informativa, ma dinamica, che ha, al pari del sopra citato controllo giudiziario, quale presupposto sostanziale quello dell’occasionalità del rischio infiltrativo.
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In un così delineato quadro normativo e pretorio di prevenzione penale–amministrativa, in verità caratterizzato da un invero esageratamente ampio e per certi versi incontrollato ed incontrollabile potere discrezionale conferito all’autorità prefettizia nell’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 84 del codice antimafia, l’impresa colpita dal provvedimento di interdittiva, emesso dal Prefetto che, da una serie di elementi puramente indiziari, ha rinvenuto un rischio di potenziale pericolo, non si vedrà invero più soltanto precluso l’accesso ai contratti pubblici, ma si troverà più generalmente impossibilitata ad avviare qualsivoglia attività economica, dal momento che siffatta informativa determina una vera e propria incapacità giuridica speciale (al punto che si è parlato tanto in dottrina che in giurisprudenza di “ergastolo imprenditoriale” da cui discende il rischio del fallimento della stessa impresa).
Ed invero è stato correttamente osservato che affliggere, per effetto dell’informazione antimafia interdittiva, anche i provvedimenti, come quelli di cui all’art. 67 del d.lgs n°159/2011, esclusivamente funzionali all’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, significherebbe estromettere d’imperio un soggetto dal circuito dell’economia legale privandolo in radice del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare la propria iniziativa economica collocandolo, in tutto e per tutto, nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione definitiva adottata in sede giurisdizionale.
Appare pertanto senza alcun dubbio essenziale che la costruzione di una strategia di prevenzione dell’infiltrazione mafiosa venga conciliata con l’esigenza di salvaguardare quegli interessi che trovano soddisfacimento e tutela nel sano esercizio dell’attività imprenditoriale, individuando un punto di equilibrio tra l’esigenza di contrastare l’infiltrazione delle consorterie mafiose nel tessuto dell’economia globale, da un lato, e la libertà imprenditoriale, d’altro lato, e quindi così pervenire ad individuare non soltanto strumenti alternativi di matrice preventiva e di controllo, calibrati sul diverso grado di interferenza criminale ed improntati, quindi, ad una funzione “terapeutica” e di successiva “riabilitazione” dell’impresa (amministrazione e controllo giudiziario), ma anche ad assicurare all’impresa la possibilità di utilizzare altri strumenti giuridici che permettano alla stessa di preservare il proprio patrimonio imprenditoriale attraverso la rimozione di qualsivoglia vincolo tra il titolare dell’impresa stessa e la struttura organizzativa dal medesimo imprenditore creata, così da recidere ogni legame tra il soggetto sospettato di contiguità mafiose ed il patrimonio imprenditoriale medesimo, viepiù che la disciplina antimafia focalizza l’attenzione più sui rapporti e sulle influenze di fatto che non sugli aspetti formali della titolarità dell’impresa.
Addirittura sarebbe auspicabile che nelle ipotesi di minor inquinamento mafioso venga sempre doverosamente agevolato il recupero dell’impresa, e che, di conseguenza, lo strumento interdittivo venga utilizzato quale extrema ratio, nelle ipotesi di più grave o irrimediabile infiltrazione mafiosa.
In ragione di ciò per avversare la sopra citata riflessione, non possono essere di certo invocate la forza intimidatoria del vincolo associativo e la violazione della concorrenza derivante dalla mole ingente di capitali provenienti da attività illecite che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, in quanto esse non possono assurgere quale causa di una prospettiva anticipatoria della difesa della legalità.
Il trust strumento di gestione del fenomeno patologico dell’informativa antimafia
Il trust è istituto di matrice anglosassone, attraverso il quale un soggetto disponente (settlor), potrà separare (o, secondo la terminologia più in voga, «segregare») parte del proprio patrimonio mediante il trasferimento di esso ad un soggetto fiduciario, dettando al trustee disposizioni per la gestione di detto patrimonio a beneficio di un terzo o di terzi (beneficiaries) anche per il conseguimento di uno scopo determinato e ulteriore che, però, deve sempre essere espresso in termini assolutamente specifici.
Detto istituto pertanto è un “abito sartoriale”, che si adatta alle peculiari e variegate esigenze che la realtà quotidiana chiede di fronteggiare, atteso che con esso è possibile comporre interessi comuni utilizzando logiche speciali di tutela.
Non appare però inutile premettere che le pur numerose e gravi perplessità riguardo alla costituzione in Italia per via negoziale di un trust, pur in assenza di un qualsiasi elemento di internazionalità – i cui elementi oggettivi e soggettivi siano tutti sostanzialmente connessi e correlati al territorio italiano, eccezion fatta per il profilo della legge straniera applicabile - sono state del tutto superate, atteso che è ormai pacificamente ritenuta pienamente ammissibile la costituzione di trusts interni, nelle circostanze di situazioni meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico (l’ammissibilità del trust interno è stata anche desunta dall’art. 2645-ter c.c.), le quali, in caso di eventuali contrasti, vengono regolati dalla normativa straniera richiamata come applicabile; normativa che, al pari degli ordinamenti di common law, si compone non solo di norme di origine legislativa, ma anche e soprattutto di principi di fonte giurisprudenziale, senza trascurare persino l’utilizzo di complessi pareri de veritate.
E’, infatti, ormai prassi consolidata l’utilizzo di detto istituto anche come strumento per consentire all’impresa di continuare a operare sul mercato indipendentemente dalla titolarità delle quote societarie dei soggetti sospettati di contiguità con la criminalità organizzata, allo scopo di pervenire all’ottenimento della certificazione antimafia negata dall’Autorità prefettizia per sospette infiltrazioni mafiose (c.d. trust antimafia).
Ed invero il trust c.d. antimafia, il cui fondo risulta essere composto dalla partecipazione sociale, è istituito proprio con la finalità di ovviare all’incertezza in cui si possono eventualmente venire a trovare i titolari dell’impresa. Il trust, quindi, ha quale fine principale quello di consentire all’impresa di comunque operare sul mercato attraverso l’acquisizione, comunque, della certificazione antimafia, con la non trascurabile conseguenza che l’imprenditore al quale è stata negata la c.d. liberatoria antimafia, sarà obbligato ad accettare l’esito negativo che l’impresa non sia più sua (rectius che lo stesso non abbia più la gestione e/o il controllo della stessa).
Infatti lo stesso imprenditore disponente non può, quindi, rivestire cariche amministrative nelle società le cui partecipazioni sono state segregate in trust così come non può altresì attribuirsi il potere di modificare i beneficiari, atteso che detto potere è personale e non fiduciario. Oltre a ciò, la società di cui sia unico socio il trust non deve avere partecipazioni in consorzi, in cui amministratore o qualsivoglia altra carica amministrativa sia rivestita dal disponente, ed ancora i figli del disponente, solitamente beneficiari, non devono essere dipendenti della società e soprattutto rivestire cariche amministrative.
Dunque, come è stato giustamente rilevato in dottrina (M. Lupoi), si è in presenza di un vero e proprio esproprio, auto-disposto, che l’imprenditore accetta al solo fine di salvare una entità produttiva e un valore, oramai destinato alla propria famiglia.
Pertanto, il trust costituito con l’intendimento di salvare l’impresa sospettata di contiguità o infiltrazione mafiosa deve assumere una connotazione particolarmente esigente, atteso che il medesimo, in quanto preordinato al raggiungimento di un complesso obiettivo potrà presentare una serie di caratteristiche sfavorevoli per l’imprenditore, specialmente nel caso in cui lo stesso si ritenga immune da contiguità o infiltrazioni, in quanto detto istituto per raggiungere l’obiettivo a cui mira l’imprenditore deve produrre effetti simili a quelli di una compravendita.
La conseguente attribuzione della proprietà delle partecipazioni al trustee, unitamente all’indipendenza ed alla autonomia attribuitagli nella gestione economica dell’impresa, determinerà la separazione del patrimonio incluso nel fondo in trust non solo rispetto ai titolari delle quote sociali ma, più in generale, alla loro famiglia. Esigenza che, è bene ribadirlo, deve necessariamente essere soddisfatta.
Va evidenziato, altresì, con espresso riferimento ai profili gestionale, che il trustee, deve essere libero nella conduzione dei beni nell’interesse dei beneficiari del trust (generalmente i discendenti dell’imprenditore disponente, o anche il suo coniuge, oltre che i discendenti), considerato che il medesimo deve essere un soggetto non subalterno al disponente. Ricorrere alle interposizioni e alle simulazioni come già evidenziato, rischia di fare saltare l’intera operazione, in quanto il trustee non risponde mai al disponente, ma ai beneficiari (a parte il caso dei trust di scopo). Pertanto qualsiasi intesa segreta fra disponente e trustee non è mai opponibile ai beneficiari.
La costruzione del trust antimafia con riferimento all’opera di tipizzazione della giurisprudenza amministrativa
Il trust, dunque, ai fini che qui interessano, ha quale obiettivo peculiare quello di recidere qualsiasi vincolo tra i titolari dell’impresa e la struttura organizzativa dagli stessi creata.
Tuttavia spesso detto istituto viene adoperato con lo scopo di aggirare i divieti imposti dal sistema delle informative antimafia, mediante l’utilizzazione dello strumento della segregazione patrimoniale (c.d. gestione fiduciaria) da parte di soggetti, a vario titolo collegati ad interessi di sodalizi mafiosi, appartenenti alla compagine societaria.
A tal proposito, non appare inutile porre in evidenza che l’utilizzazione del trust se intesa quale mero espediente giuridico–formale che non elida la signoria del disponente, non si può interporre come barriera insuperabile ad un provvedimento di diniego della informativa antimafia, viepiù che “schermare” la disponibilità di quote societarie o ingenti patrimoni per “celare” il reale dominus delle società e ottenere così la certificazione antimafia, trasformerebbe illegittimamente il trust in uno strumento giuridico elusivo, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero eventualmente anche in tema di sham trust.
Pertanto l’indagine, che presuppone la disamina dei profili di compatibilità-interferenza tra la disciplina delle informative antimafia ed il trust, va condotta avuto riguardo alla descrizione della struttura fiduciaria del trust stesso onde acclarare se – nonostante la segregazione in trust delle partecipazioni societarie del socio colpito da informativa antimafia – permanga, di fatto, l’ingerenza dello stesso nella gestione sociale dell’impresa, viepiù che l’art. 84, comma 4, del d. lgs. n° 159 del 2011, accanto ad una serie di elementi indiziari chiaramente tipizzati alle lettere a), b), c) e f), prevede anche elementi di valutazione, lasciati all’apprezzamento discrezionale dell’autorità prefettizia: e cioè quelli postulati dalle lettera d) ed e) che sostanziano due ipotesi in cui il tentativo di infiltrazione mafiosa non è desunto da elementi tipizzati, predeterminati dal legislatore, ma dagli accertamenti disposti dal Prefetto, anche tramite l’accesso ai cantieri, e dunque da elementi istruttori raccolti dall’autorità procedente senza che di essa descritta attività istruttoria l’impresa destinataria del provvedimento possa ritenerne in anticipo natura e limiti (c.d. informazione antimafia generica).
Invero sebbene proprio il carattere indeterminato di tali disposizioni abbia spinto la dottrina, soprattutto in ambito giuspenalistico, a rilevare un deficit del connotato di tipicità (in difformità a quanto, invece, prescritto all’art. 2, par. 3, Prot. add. 4, CEDU) al Prefetto è, comunque, consentito di poter emanare provvedimenti interdittivi sulla base di presupposti vaghi ed indeterminati rendendo così del tutto imprevedibile l’adozione della misura. Tale deficit di tipicità viene, peraltro, contestato dalla giurisprudenza amministrativa.
Infatti, secondo la ricostruzione operata dal Consiglio di Stato, la prevedibilità delle prefate disposizioni è assicurata dall’integrazione del precetto elastico previsto dalla norma, con l’opera di tipizzazione compiuta dalla giurisprudenza, atteso che questo consente di enucleare con sufficiente determinatezza le situazioni indici di infiltrazione mafiosa, così da realizzare un sistema di prevenzione integrato (legge-giurisprudenza) di tassatività sostanziale, tanto più che l’annullamento di qualsivoglia discrezionalità in questa materia sarebbe contrario alla ratio della misura preventiva, perché la previsione di soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, per ciò stesso non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, ma soprattutto deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.
Pertanto l’interpretazione, ad opera di una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative anche caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione, può, comunque, garantire un sufficiente livello di tassatività sostanziale e di prevedibilità del precetto preventivo, che nella materia penale, con i cc.dd Engel criteria, non sarebbe invece adeguata, atteso che nessuna tipizzazione legislativa potrebbe determinare con sufficiente attendibilità la multiforme, variabile, trama delle possibili infiltrazioni mafiose, ma si dovrebbe pur sempre lasciare un margine di ragionevole apprezzamento concreto all’autorità amministrativa proprio per adeguare la fattispecie astratta alla vicenda effettuale in base ad una valutazione complessiva, approfondita e non atomistica.
È noto difatti che, accanto alla c.d. contiguità soggiacente tipizzata dal legislatore, esiste una vasta area di contiguità compiacente, nella quale l’impresa a rischio di infiltrazione mafiosa scende a patti con le associazioni criminali in diverse forme, per così dire, a condotta libera, ma che ormai hanno trovato una precisa e tutt’altro che ondivaga codificazione pretoria, ad opera della giurisprudenza amministrativa negli ultimi anni, con l’individuazione di precise situazioni indiziarie, che lasciano trasparire l’esistenza di una chiara corrività dell’impresa agli interessi o addirittura alle direttive di compagini delinquenziali.
Pertanto nella costruzione del trust antimafia è altresì di fondamentale importanza prendere in esame l’opera di tipizzazione giurisprudenziale con particolare riferimento ai rapporti familiari, ai legami commerciali con imprese interdette per via del c.d. contagio, all’assunzione di dipendenti legati alle cosche.
Quindi, quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, “la pubblica amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione – la quale sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali – che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della “famiglia”, sicché in una “famiglia” mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, ‘'influenza del “capofamiglia” e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo la pubblica amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una “famiglia” e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito)”. (cfr. Cons. St., sez. III, 7 febbraio 2018, n° 820 nonché Cons. St., sez. III, 19 dicembre 2018, n° 7151; nello stesso senso, ancor più di recente, Cons. St., sez. III, 2 novembre 2020, n° 6740).
In queste ipotesi, l’impresa si pone quale braccio operativo in ambito imprenditoriale della famiglia mafiosa, schermata da una distinta soggettività giuridica quando non addirittura, dalla personalità giuridica – nelle società di capitali – che muove le leve dell’attività secondo una logica “clanica” tipica delle associazioni mafiose in una valutazione complessiva nella quale è evidente che la presenza di alcuni parenti incensurati è del tutto irrilevante e, anzi, spesse volte tesa a costruire un rassicurante, quanto apparente, schermo di legalità.
Per quel che concerne l’assunzione di dipendenti legati al mondo delle organizzazioni criminali, va evidenziato che, secondo la giurisprudenza amministrativa, ciò che rileva è il dato che la presenza di detti soggetti possa essere ritenuta indicativa, alla luce di una quadro indiziario complessivo (ad es. accertare se tale fenomeno è imponente e frequente, e non già casuale, sporadico ed isolato), del potere della criminalità organizzata di incidere sulle politiche assunzionali dell’impresa e, mediante ciò, di inquinarne la gestione a propri fini. (come ad es. l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali» sentenza n° 1743 del 3 maggio 2016, richiamata anche dalla sentenza n° 3299 del 20 luglio 2016).
Infatti «la circostanza che un’impresa abbia assunto persone controindicate, nell’assenza di ulteriori elementi, può assumere in sé valore sintomatico della contiguità con gli ambienti della criminalità organizzata a condizione che agli operatori economici – soprattutto nei settori “a rischio” di cui all’articolo 1, comma 52, della legge 6 novembre 2012, n° 190, in cui la pervasività del fenomeno mafioso appare statisticamente più evidente – siano normativamente riconosciuti adeguati meccanismi preventivi per venire a conoscenza della possibile sussistenza di ragioni di controindicazione a fini antimafia, pur genericamente formulate, vieppiù nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia già iscritto alla c.d. white list di cui al DPCM 18 aprile 2013 (equipollente all’informativa antimafia liberatoria) e le plurime e contestuali nuove assunzioni conseguano all’adempimento di un obbligo giuridico, come nel caso della c.d. clausola sociale».
Conclusioni
Infine nella costruzione del trust, va, inoltre, a mio avviso anche esaminata la presenza di una eventuale pena comminata all’imprenditore per reati associativi o per concorso esterno in associazione mafiosa, ovvero anche la circostanza eventuale che nei confronti dello stesso sia pendente un procedimento penale. Infatti poiché la certificazione antimafia viene negata dal Prefetto anche sulla base di un semplice sospetto che fondi un giudizio valutativo di tipo prognostico, nel quale assumono rilievo, per legge, fatti e vicende più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, in quanto solo sintomatici e indiziari, non appare revocabile in dubbio a maggior ragione che un’eventuale condanna per associazione mafiosa imporrà una configurazione del trust del tutto altra e diversa rispetto a quella del proscioglimento penale, anche se, invero, i fatti oggetto del processo penale non perdono la loro idoneità a fungere da validi elementi di sostegno per una informativa antimafia sfavorevole.
Di guisa che, come persino nella giurisprudenza amministrativa è stato rilevato con riferimento al requisito dell’attualità del quadro indiziario, che può giustificare l’emissione del provvedimento interdittivo, l’attualità del pericolo costituisce un elemento di imprescindibile rilievo, che consente all’informazione di prevenire minacce reali e presenti e non pericoli meramente immaginari o già verificatisi, con la naturale conseguenza che l’assenza di pericolosità sociale in capo al soggetto - che fungerebbe da tramite con le associazioni mafiose - priva il provvedimento interdittivo di «quel necessario requisito dell’attualità che esso deve avere nel sorreggere il quadro indiziario posto a base dell’informazione antimafia».
Inoltre altro aspetto di non poco momento è quello relativo alla durata del trust.
Essa dovrà essere sufficientemente lunga, verosimilmente rapportata all’età dei discendenti che l’imprenditore voglia beneficare.
Ed invero, mentre la durata di un trust per un lungo periodo ha una sua logicità, viepiù se correlata all’età del disponente, una durata per un breve periodo oltre ad essere incomprensibile, non trova giustificazione logica alcuna in quanto lo stesso può essere ben surrogato dall’istituto della donazione, sempreché l’imprenditore a cui è stata irrogata una condanna in primo grado, non abbia la certezza di una sentenza di assoluzione in appello. In tal caso il trust dovrebbe prevedere che l’impresa (rectius la partecipazione aziendale) torni in sua piena proprietà.
Infatti, cessato il trust, l’impresa perverrà ai suddetti discendenti per accrescerne il loro patrimonio. Qualora siffatta conseguenza non rientrasse nelle corde del disponente imprenditore (per qualsivoglia ragione), il disponente può, quindi, progettare il trust con una funzione di programmazione successoria, di lunga durata (anche per decenni, magari fino alla morte del disponente e del suo coniuge, o persino saltando gli immediati discendenti del disponente, fatte salve le tutele spettanti ai suoi legittimari) e facendo pervenire l’impresa alla successiva generazione. In sintesi il classico trust di programmazione successoria con la totale perdita di qualsiasi controllo e di qualunque interesse economico sia dell’imprenditore che della propria moglie.
In tal caso il trasferimento (in futuro) del gruppo societario ai propri figli e la presenza di un gestore di alto profilo, senza alcun vincolo o vantaggio patrimoniale per sé o per il proprio coniuge, certamente comporterà una valutazione diversa in senso positivo da parte dell’Autorità prefettizia.
In buona sostanza un trust che possa soddisfare l’obiettivo di consentire all’impresa di operare senza problematiche antimafia e di proteggere la discendenza del disponente.
Per quel che concerne la presenza o meno di un c.d. guardiano, essa è da ritenersi preferibile quando l’attività di impresa presenti particolare complessità e quando i beneficiari siano numerosi e magari di minore età o debbano o possano ancora nascere. In tutti gli altri casi, i compiti di controllo e di indirizzo dell’attività del trustee possono far capo ai beneficiari.
In conclusione, il trust antimafia può essere un utile strumento di salvaguardia degli interessi correlati all’attività imprenditoriale colpita dal provvedimento interdittivo, soprattutto nelle circostanze in cui le difficoltà dell’impresa colpita dalla mancata certificazione o dalla sua revoca non sarebbero plausibilmente superabili.