Vie libere. Topografia di anime in una città immaginaria

di Paolo L. Bernardini
Vie libere. Topografia di anime in una città immaginaria di Paolo L. Bernardini
Vie libere. Topografia di anime in una città immaginaria di Paolo L. Bernardini

C’era una volta la città ideale, fulcro del dibattito urbanistico, architettonico e filosofico del Rinascimento. Oggi Paolo L. Bernardini, ordinario di Storia moderna presso l’Università degli Studi del­l’Insubria, presenta al lettore la sua personale città ideale, che ricostruisce con minuziosa cura nelle pagine di questa variegata raccolta di studi e saggi.

L’Autore compie un’operazione a suo modo visionaria, disegnando un’insolita mappa urbana con le storie esemplari e spesso dimenticate di filosofi, scrittori, politici, economisti e imprenditori che hanno improntato la propria vita alla pratica e alla promozione della libertà contro sistemi politici oppressivi nei confronti dell’individuo, e intitolando strade, piazze, contrade e traverse a personaggi e accadimenti reali che hanno segnato un passo significativo nel cammino della libertà umana, senza confini fisici né temporali.

Venticinque capitoli corrispondono ad altrettanti indirizzi da visitare, stimolanti itinerari metaforici da percorrere in linea retta o a zig zag, saltando a piacimento in avanti o all’indietro fra le pagine, nello spazio e nel tempo: il lettore si troverà a passeggiare lungo via Ray Kroc (l’imprenditore fondatore di McDonald’s) e via Giovanfrancesco F. Lottini, autore del Cinquecento caduto nell’oblio; attraverserà viale Frédéric Bastiat e sosterà nella Piazzetta Murray N. Rothbard; imboccherà la Traversa Cesare Beccaria per approdare al Parco delle Vittime di Molare.

Ecco un significativo estratto da Piazza Igino Petrone. Nell’ombra serena di Rosmini. Per una rilettura di Igino Petrone (1870-1913):

 

Sono, quelli in cui viviamo, tempi in cui il dramma compiuto dall’esaurimento del diritto nel diritto positivo si sconta sulla pelle degli individui, e dei popoli. Costituzioni (e norme) morte, scritte da uomini morti, ancorano e aggiogano, troppo spesso e in troppi luoghi del mondo, uomini e genti. E la stessa pensabilità di un diritto legato e sottoposto alla Giustizia sembra essere messa in giuoco, se non compromessa.

Il trionfo del positivismo giuridico, poi slittato nel mero esercizio intellettuale della filosofia analitica – paradigma predominante fino ad oggi – ha fatto sì che in maniera del tutto totalitaria il diritto positivo venisse posto su di un altare che non gli spetta. Allo stesso tempo, la proliferazione e sovrapposizione di norme scritte derivanti da una molteplicità di fonti di cui non si indovina bene la gerarchia – norme regionali, statali, europee, a citarne solo alcune – hanno contribuito alla trasformazione del diritto in quello che non dovrebbe essere, un garbuglio gestito (ma anche spesso patito) da azzeccagarbugli, per l’appunto, d’ogni tipo.

Il filosofo analitico del diritto da una dignità scientifica alla figura dell’azzeccagarbugli, e ne e in qualche modo il nobile contraltare speculativo, e dunque legittima, nel trionfo del positivismo giuridico, non altro che l’azione, e la stessa natura (vista come assolutamente necessaria) dello Stato, divenuto unica fonte e costante produttore di diritto, ma spesso esso pure privo di legittimazione oltre a quella che esso stesso si da, in modi e forme di frequente eterogenei.

Nella grande tradizione che vede la trasformazione del positivismo di Comte in un’ideologia totalizzante, priva delle aperture di libertà che lo stesso Comte aveva posto a salvaguardia del proprio sistema, dunque nella seconda meta dell’Ottocento, si compie quella terribile “positivizzazione”, per cosi dire, del diritto, che segue la drammatica unificazione normativa compiuta a fine Settecento dai nuovi Stati nati a Westphalen – nel diritto pubblico, tragicamente, ma anche penale e civile, di conseguenza – cui molti, soprattutto in ambito cattolico, ma non solo, valorosamente si opporranno, nel solco di Toniolo, ad esempio, ma soprattutto in quello, ben scavato e saldo, di Antonio Rosmini. Che muore nel 1855, lasciando un’immensa e tuttora affascinantissima produzione, e una scuola di pensiero.

I suoi posteri dovranno affrontare non solo l’ascesa del positivismo giuridico, ma anche dottrine correlate, il marxismo nei suoi riflessi nel diritto, e pensatori totalitari come, poniamo, un Labriola. Con cui molti naturalmente si confrontano, in Italia, essendo costui uno dei massimi rappresentanti del marxismo italiano. Esiste dunque una scia luminosa lasciata da Rosmini, che non manca di investire i suoi eredi spirituali. Non tutti sono noti, e anzi su alcuni da tempo e calato un oblio non del tutto giustificato, poiché si tratta di pensatori spesso brillanti, spesso sistematici, in molti casi in grado di cimentarsi con discipline diverse, o confrontarsi con discipline nuove e assai pretenziose nel loro auto-nominarsi veri e unici strumenti “moderni” di sapere politico e giuridico, come la nascente sociologia, il caro frutto di Comte.

Uno di questi pensatori è Igino Petrone, nato in un piccolo paesino agricolo vicino a Campobasso, Limosano, nel 1870, ordinario di Filosofia del diritto a Napoli, e morto precocemente nel 1913. Definito “principe dello spiritualismo”, la sua fama oggi appare oscura, ma non lo fu per decenni, se e vero che ancora nel 1950 (a 37 anni dalla morte del Petrone) Giorgio Del Vecchio pubblico una sua raccolta di saggi, Filosofia del diritto. Con l’aggiunta di vari saggi di etica, diritto, sociologia;

mentre ancor oggi ogni tanto si scrive su di lui, principalmente tesi di laurea, che illuminano un mondo lontano, ma non per questo del tutto incapace di parlarci. A Campobasso una scuola media porta il suo nome. Il paese d’origine e divenuto una “città fantasma” nota agli appassionati del genere, nel parco delle Morge Cenozoiche in Molise, e la casa natale si trova li. Un monumento lo ricorda.

Petrone, “ingegno sovrano” secondo Del Vecchio, nonché unico a potersi definire tale, per lo stesso Del Vecchio, dopo Rosmini, fu certamente una figura singolare. Seppe dedicare saggi economici e sociologici al Molise, colto nel passaggio doloroso all’Italia unita, seppe scrivere di economia agraria sulla base delle proprie esperienze dirette, fu in grado di dialogare con la filosofia tedesca, allora egemone, e anglosassone, ad esempio James, e soprattutto cerco di opporsi – sconfitto – al trionfo del positivismo giuridico, all’esaurirsi delle forze vitali del diritto nelle lettere morte dei codici e delle pandette.

Fu un pensatore liberale-classico? Forse no, non in senso stretto, non gli si possono attribuire idee che non aveva, anche per l’alto senso della funzione dello Stato nel sofferto processo di trasformazione in legge scritta dell’alto ideale di Giustizia, che a tale legge, per un Petrone ben avvertito dell’antica lezione di Antigone, come pure delle istanze del diritto naturale, doveva sempre essere superiore. Ma ben addentro alle filosofie della vita del tempo, Bergson e non solo, sapeva coniugarle molto bene con lo spiritualismo, e gli elementi liberali del Rosmini.

Diffidava profondamente della svolta statalistica e astratta imposta allo stesso diritto, nello stravolgimento dell’ideale stesso di giustizia, a partire, naturalmente, dai Giacobini.

Paolo L. Bernardini, Vie libere. Topografia di anime in una città immaginaria, collana Oche del Campidoglio, pagg. 264, euro 17.00, ISBN 978-88-98094-51-6.