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Espressioni offensive sulla chat di Whatsapp

Sussiste il reato di diffamazione anche se la persona offesa figura tra i partecipanti alla conversazione
Diffamazione su Whatsapp
Diffamazione su Whatsapp

Integra il reato di diffamazione – e non l’illecito civile di ingiuria – rivolgere espressioni offensive in una chat, anche nell’eventualità in cui tra i fruitori del messaggio figuri la persona offesa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza 21 febbraio 2019, n. 7904.

 

Il caso in esame

La pronuncia in oggetto trae origine dal ricorso proposto nell’interesse di un soggetto accusato di aver rivolto, nel corso di una conversazione in chat su una nota piattaforma di messaggistica istantanea (nel caso di specie, Whatsapp), espressioni offensive e denigratorie all’indirizzo di una ragazza, anch’ella minorenne, partecipante alla chat stessa. Il Tribunale per i minorenni di Bari si era pronunciato con sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato, trattandosi di soggetto non imputabile perché minore di anni quattordici al momento del fatto.

Nel ricorso avverso la suddetta sentenza, il difensore aveva eccepito violazione di legge, in relazione all’articolo 595 del Codice penale, ritenendo che il giudicante avesse erroneamente ritenuto integrato il delitto di diffamazione e non l’illecito civile di ingiuria, in ragione del fatto che la minore, destinataria delle espressioni denigratorie, figurava tra i partecipanti alla chat e aveva, conseguentemente, avuto diretta percezione delle offese rivoltele.

 

La soluzione della Suprema Corte

Al fine di definire gli ambiti applicativi delle due fattispecie, quello della diffamazione di cui all’articolo 595 del Codice penale e quello della ingiuria (ora illecito civile sottoposto a sanzione pecuniaria, a seguito dell’abrogazione dell’articolo 594 del Codice penale ad opera del Decreto Legislativo n. 7/2016), i giudici di legittimità hanno fatto ricorso ai principi giurisprudenziali applicati in tema di diffamazione commessa mediante email o internet.

In particolare, la Corte ha affermato che:

l’eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato l’illecito di ingiuria (magari a suo tempo, sub specie del delitto di ingiuria aggravata ai sensi dell’art. 594, comma 4, cod. pen.), piuttosto che il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (“e-mail” o “internet”) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi –, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso”.

Peraltro, osserva la Corte, dal tenore dei messaggi offensivi (“si vabbè non se ne deve andare lei per colpa di una Troia Putt[…]”) emergerebbe come che la persona offesa fosse estranea alla conversazione in atto al momento dell’utilizzo delle espressioni offensive, coinvolgente esclusivamente altri soggetti partecipanti alla chat. Si trattava, pertanto, di una conversazione coinvolgente soggetti diversi dalla persona offesa, sebbene la stessa fosse potenzialmente in grado di difendersi intervenendo.

Per queste ragioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenuto infondato.