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Il fallimento nel mondo delle startup: un tabù già sfatato?

July 4th, New York, USA, Luglio 2018
Ph. Giacomo Porro / July 4th, New York, USA, Luglio 2018

Il termine “fallire” porta con sé un’accezione piuttosto negativa, incorporando il presupposto che colui che esercita un’attività imprenditoriale e per qualsivoglia motivo non vede concretizzarsi i risultati auspicati venga bannato come “fallito”. Una sorta di marchiatura a fuoco di chi ha intrapreso un’iniziativa economica andata male e che, per il resto della sua vita, si porterà con sé questo disonore.

Il fallimento secondo la nostra giurisprudenza è disciplinato come lo stato perdurante di un imprenditore che non è più in grado di soddisfare le proprie obbligazioni. Certamente talvolta questa spiacevole situazione è causata da mala gestio dell’imprenditore o scarsa capacità di gestire l’azienda. Ma numerose altre volte il fallimento è dovuto al tentativo di intraprendere attività innovative, dirompenti sul mercato, che apportino un certo livello di progresso all’intero ecosistema. In questi casi il fallimento è il rischio intrinseco della novità e non deve essere assolutamente questo timore a scoraggiare tali iniziative.

Nel mondo delle startup ad esempio, questo concetto dovrebbe essere ancora più potenziato, poiché il fallimento non deve essere visto con un’accezione esclusivamente negativa ma sarebbe opportuno apprezzarne gli aspetti costruttivi, di crescita dell’imprenditore e dell’ecosistema in generale.

La chiusura di una società può far comprendere all’imprenditore errori nella definizione della struttura organizzativa, approcci al mercato da definire con più accuratezza e anche una gestione della cassa più oculata. Un soggetto che ha già sbagliato alcuni aspetti difficilmente persevererà nell’errore.

Il fallimento mostra a caratteri cubitali lezioni che il successo non può insegnare e può dare ancora più fiducia e determinazione all’imprenditore, oppure può comunicare esplicitamente che l’imprenditoria non è la strada idonea per quel soggetto. Inoltre, un’impresa innovativa che cessa di esistere può essere la scintilla per l’avvio di altre società che hanno colto il potenziale dell’innovazione, compreso le criticità che hanno portato alla liquidazione e ritengono di essere in grado di adoperare soluzioni alternative vincenti.

Pertanto, perché anziché l’austero termine “fallito”, non usare locuzioni come “colui che ha tentato” o “progetto non andato come sperato”?

Ironia a parte, anche il legislatore italiano ha recentemente aggiornato la normativa fallimentare sostituendo appunto al termine “fallimento” con il più morbido “liquidazione giudiziale”, come previsto dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14). Il concetto di base rimane invariato, ovvero una procedura finalizzata a liquidare il patrimonio dell’imprenditore insolvente ripartendolo in favore dei suoi creditori, tuttavia il legislatore ha preso atto che il fallimento ha ormai perso nel corso del tempo la sua mera connotazione di procedura volta essenzialmente ad espellere dal mercato l’imprenditore insolvente, gravato anche dal marchio della colpevole incapacità di corretta gestione degli affari.

Il mancato successo dell’iniziativa economica non è dunque considerato come esclusiva conseguenza di colpevole inettitudine o di attività fraudolente, ma quale possibile evento – in certo qual modo fisiologico – che può interessare un’attività intrinsecamente connotata dal rischio economico. Coerentemente con tale impostazione, non solo è stata confermata l’esclusione di qualsiasi sanzione automaticamente conseguente alla liquidazione delle attività, ma è stato anche modificato il titolo della procedura, da fallimento a liquidazione giudiziale appunto, in considerazione del luogo comune legato alla qualifica di fallito.

Nell’ecosistema delle startup questo tema è ben cruciale, poiché ogni iniziativa che apporta un’importante innovazione tecnologica detiene un rischio elevato di mancato successo. Questo però non dovrebbe precludere la possibilità all’imprenditore di avviare nuove attività alle quali poter apportare una sempre crescente esperienza e spirito critico di valutazione.

Chi crea una startup dimostra già un significativo coraggio e spirito di iniziativa per voler apportare un contributo innovativo all’intero tessuto economico: il tarparne le ali in caso di mancato successo per fattori esogeni o errori non fraudolenti equivarrebbe a perdere un prezioso spirito imprenditoriale che potenzialmente ha ancora molto da dare. 

In Italia purtroppo non sono ancora molti gli startupper, coloro cioè che intraprendono un’iniziativa economica non volta a creare un piccolo, solido business della vita ma quei visionari che mirano a creare una meteora che “scali” (in gergo tecnico, cioè che cresca esponenzialmente in tempi brevi).

Da sfatare anche il mito che chi crea delle startup sono giovani ragazzi nei garage della casa del padre. L’età media di chi costituisce un’impresa innovativa è sopra i 40 anni e questo è più che razionale. Come si può creare qualcosa di realmente innovativo se non si conosce bene lo status quo? Come mettere in piedi una struttura e dei processi organizzativi se non si ha la minima esperienza lavorativa?

Tra gli elementi che consideriamo di tali imprenditori spiccano pertanto le esperienze passate: dove hanno lavorato, ruoli precedenti in startup costituite.

Su quest’ultimo punto però si aprono due scenari di pensiero molto diversi, soprattutto quando ci mettiamo nei panni dei potenziali investitori.

Coloro che apprezzano precedenti tentativi imprenditoriali che abbiano già formato il carattere e temprato l’uomo (o la donna) con il duro impegno che attende il visionario. E chi, forse a volte un po’ troppo superficialmente, valuta negativamente l’aver tentato numerose volte senza mai aver dato prova di successo.

La discriminante vera e propria è quindi se nelle iniziative precedenti si è miseramente fallito e liquidato le società o se si è avuto un seppur minimo ritorno economico. Nel primo caso la mentalità nostrana, anche di molti addetti ai lavori (o chi si millanta tale), è purtroppo di valutare negativamente la persona facendo prevalere questo pregiudizio anche sull’oggettiva valutazione della attuale iniziativa imprenditoriale oggetto di discussione.

Quindi anche se formalmente apprezziamo gli sforzi del legislatore per “smacchiare” i falliti da questo timbro di disonore, nella testa di molti di noi, anche operatori nel settore innovativo per definizione (quello delle startup appunto), ancora permane il tarlo che porta a considerazioni pregiudizievoli in merito a quegli imprenditori, seppur seriali, che non hanno mai ottenuto un successo eclatante.

Un curriculum vitae ricco di altisonanti big companies dà ancora oggi più lustro del coraggio di essersi già messi in gioco. Ci dimentichiamo forse troppo spesso che imprenditori non si nasce ma lo si diventa accumulando esperienze dirette sulla propria pelle.

Fa comunque molto piacere vedere che anche altri operatori del mondo startup italiano hanno promosso questa nuova visione del fallimento.

Cito a titolo di esempio Andrea Visconti, founder della startup Sinba, che a seguito del fallimento della propria società ha realizzato una video-fiaba dove spiega in maniera semplice (la fiaba è dedicata ai suoi figli piccoli) perché la società è sì fallita ma il loro papà non lo è affatto (video completo).

Analizzati con accuratezza gli errori commessi, evidenzia le lezioni imparate e diffonde la sua maggior consapevolezza imprenditoriale anche a chi si accinge a svolgere questo audace ruolo. In questo modo viene sconsacrato il mito negativo del fallimento di in un’impresa ricercandone comunque le lezioni imparate e molto probabilmente acquisendo una maggior grinta per intraprendere la prossima avventura.

Ulteriore iniziativa molto interessante è quella promossa da Startup Geeks, network crescente di imprenditori, startup e operatori del settore, il quale ha promosso un censimento tutto italiano delle startup fallite per capirne da chi le ha vissute in prima persona i perché, gli sbagli e le lezioni imparate. Sfatare il tabù del fallimento e soprattutto mettere a fattor comune le best practice imparate (o anche solo gli errori da non ripetere) è sicuramente un vantaggio rilevante per i vecchi e nuovi innovatori pronti a (ri)partire in nuove avventure.

Dovremmo sempre tenere in considerazione che quando abbiamo di fronte un vero imprenditore, potranno fallire le sue aziende, le sue idee o l’esecuzione delle stesse, ma non fallirà mai l’uomo