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Il “fresh start” imprenditoriale in Italia: realtà o miraggio?

plitvice, 2014
Ph. Alessandro Saggio / plitvice, 2014

Grazie al progressivo penetrare dell’influenza della cultura giuridica anglosassone (in specie statunitense), anche nel nostro ordinamento si è fatta strada l’idea di garantire all’imprenditore che abbia attraversato l’esperienza del fallimento la possibilità di “a fresh start”, cioè di una “seconda occasione” di tornare a essere imprenditore

Il “fresh start” si presenta, di norma, nella forma della liberazione del debitore dall’adempimento delle obbligazioni rimaste non soddisfatte a seguito della procedura fallimentare, la cosiddetta “esdebitazione” o “discharge”.

Ammetterlo o meno è, invero, una scelta che può essere valutata positivamente o negativamente a seconda della prospettiva adottata: tuttavia, e la convergenza delle varie giurisdizioni nazionali verso questo esito sembra confermarlo, la soluzione più opportuna è nel senso di approvarlo, non solo perché l’esperienza dimostra che consentire ai creditori di perseguire il patrimonio del debitore che residua o è posteriore alla chiusura della procedura fallimentare produce risultati modestissimi sul piano pratico [cfr., con riferimento al caso italiano, Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, 2007, p 169], ma anche e soprattutto per l’effetto positivo che esso produce sull’ecosistema imprenditoriale. Si potrebbe dire, infatti, che il fallimento libera tanto risorse materiali (capitale, forza lavoro, beni vari) quanto talenti imprenditoriali: e tanto le prime, quanto i secondi possono in questo modo essere messi nuovamente a frutto sul mercato.

Il beneficio dell’esdebitazione è ormai riconosciuto, a determinate condizioni, a qualsiasi categoria di debitore sottoponibile a una delle procedure concorsuali liquidative disciplinate dal Codice della crisi di impresa. La scelta è stata suggerita anche da considerazioni di concorrenza tra ordinamenti: difatti, gli imprenditori sovra-indebitati o insolventi potrebbero, alle prime avvisaglie del rischio di fallire, trasferirsi in uno Stato membro dell’Unione Europea diverso da quello di origine, per avvantaggiarsi così di tempi e di condizioni di esdebitazione rispettivamente più brevi e più favorevoli, con conseguente aumento dell’incertezza giuridica e dei costi di recupero crediti per i creditori. Pertanto, l’imprenditore persona fisica o i soci (illimitatamente responsabili) dell’impresa persona giuridica potranno, in astratto, avere diritto a una seconda occasione, e questo a prescindere dal fatto che l’impresa in crisi vada incontro alla riorganizzazione o alla liquidazione. Tuttavia, deve essere chiaro che l’esdebitazione è solo un aspetto – certo fondamentale – del concetto che abbiamo indicato come “seconda occasione”.

L’esdebitazione non è un fine in sé: essa ha senso solo se l’imprenditore è stato effettivamente messo nella possibilità di rigenerare l’attività in crisi ovvero se ha consapevolmente scelto di terminarla, e se ha avuto la possibilità di farlo in tempi rapidi e certi. In questo senso, quindi, la possibilità di un “fresh start” dipende da come è stata gestita la fase della crisi.

Purtroppo, già la macchinosità e la complessità delle procedure di allerta introdotte dal Codice della crisi di impresa [cfr., in proposito, Vella, “L’epocale introduzione degli strumenti di allerta nel sistema concorsuale italiano”, in Questione giustizia, 2019, 2, p. 249; Istituto Bruno Leoni, “Imprese avvisate, mezze salvate?”, editoriale del 26 novembre 2019; Stanghellini, “La proposta di Direttiva UE in materia di insolvenza”, in Fall., 2017, 8-9, p. 875] fanno temere che la “seconda occasione” rischi di essere, tutt’al più, un miraggio. A ciò si aggiungono le scelte, criticabili, che il legislatore del Codice della crisi di impresa ha adottato in materia di concordato preventivo con continuità aziendale (articoli 84 ss.), che rappresenta lo strumento privilegiato per il debitore che abbia scelto la via della rigenerazione dell’impresa.

La disciplina di questo istituto è stata, infatti, “irrigidita”. Innanzitutto, nel caso di concordati “misti”, che contengano quindi anche aspetti liquidatori, si è fatto leva su un concetto di “prevalenza” che sembra voler inibire comportamenti del debitore anche del tutto legittimi, in quanto diversi dell’abuso o della frode in danno dei creditori (torna quindi il tipico sospetto che aleggia su queste procedure).

Ancora, si è fatto della conservazione dei posti di lavoro una condizione di legittimità della proposta di ristrutturazione, senza alcuna considerazione in ordine alla concreta situazione dell’impresa e del mercato in cui essa opera (laddove la ristrutturazione dell’impresa può passare, e spesso deve passare, da un suo ridimensionamento). Infine, si sono resi più cogenti i tempi di soddisfazione dei creditori privilegiati (in controtendenza rispetto all’attuale interpretazione dell’articolo 186 bis co. 2 lett. c. legge fallimentare) e si è nuovamente assegnato al giudice un ruolo che va oltre il mero controllo del rispetto della legalità (quasi tradendo una scarsa fiducia nei confronti dell’imprenditore, che deve essere quindi posto sotto stretta sorveglianza). Tutti questi elementi, «se non possono essere definiti di controriforma, certamente vogliono spostare (in modo antistorico) il focus del concordato preventivo» [Panzani-Arato, “Il Codice della crisi: un rinvio o un addio?”, in IlCaso.it, 5 ottobre 2020, pp. 4-5] con conseguenze non desiderabili in ordine alla riuscita del tentativo di rigenerazione dell’impresa.

Meglio avrebbe fatto il legislatore interno a ispirarsi, come ha fatto quello europeo, al modello rappresentato dal Chapter 11 statunitense, ad esempio attribuendo al debitore poteri simili a quelli del debtor-in-possession, per consentirgli di dimostrare, già durante la procedura, la propria serietà circa le intenzioni relative al risanamento aziendale [cfr. F. Carelli, “L’influenza del Chapter 11 sulle legislazioni della crisi d’impresa e le differenze con gli strumenti previsti dal CCI”, in IlCaso.it, 25 settembre 2020, pp. 36 ss.].

Diversamente, invece, in base all’attuale sistemazione di interessi proposta dal legislatore sembra possibile sostenere che il debitore che desideri avere una “seconda occasione” sarà portato a preferire la strada più radicale della liquidazione giudiziale a quella del tentativo di ristrutturazione dell’impresa: ma chiudere l’attività non è sempre la scelta economicamente più efficiente e socialmente vantaggiosa.