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L’avvento del leone

Tiziano, Annunciazione, Scuola Grande di San Rocco, 1535
Tiziano, Annunciazione, Scuola Grande di San Rocco, 1535

Riflessioni d’Avvento

Ogni anno il santo periodo dell’Avvento ci si presenta come un prezioso tempo di riflessione circa il mistero dell’Incarnazione. Origliando il sommesso dialogo dell’arcangelo Gabriele con la Vergine Maria o condividendo gli umani turbamenti di san Giuseppe, la nostra riflessione, carica di una tenera ed umana empatia, non può che volgersi ad una domanda: perché? Per quale ragione il Signore ha mandato il Suo Figlio Unigenito in mezzo a noi apparentemente così nudo e indifeso?

Un simile quesito non ha, per noi cristiani, lo scopo di fugare una totale ignoranza; la fede infatti ha già disperso le tenebre più fitte, permettendoci così di scorgere e contemplare lo splendido fine salvifico di questa sublime nascita. Il suo scopo invece è di fondare la nostra contemplazione del mistero in una graduale penetrazione in esso, un moto dello spirito non avente la presunzione di esaurire questo splendido atto della Divina Misericordia, ma solo di scorgerne con più chiarezza i colori ed i minuti dettagli.

Frugando fra i Vangeli in cerca di un punto, per quanto piccolo, dal quale partire, ci si può imbattere in un versetto del Vangelo secondo san Matteo; dalla bocca dell’angelo, apparso in sogno a san Giuseppe, sentiamo provenire queste parole: «[…]; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati»[1]. Questo testo risponde con chiarezza e brevità al nostro quesito anche se, a dire il vero, ciò che ci comunica non ci appare altro che una formalizzazione di quella consapevolezza che la fede già ci garantiva. Come fare quindi per approfondire il senso di queste parole?

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, nell’esporre i differenti sensi della Scrittura, ci spiega l’esistenza del cosiddetto senso allegorico, che viene così esposto: «Il senso allegorico. Possiamo giungere ad una comprensione più profonda degli avvenimenti se riconosciamo il loro significato in Cristo; così, la traversata del Mar Rosso è un segno della vittoria di Cristo e quindi del Battesimo»[2].

Ora, se possiamo comprendere più profondamente il significato di un episodio dell’Antico Testamento cogliendolo in quanto allegoria di Cristo, come nell’esempio, allora forse è possibile fare anche l’inverso, ossia approfondire un aspetto del mistero di Gesù usando come lente quegli episodi più antichi a Lui riferibili.

 

Con l’aiuto di Sansone

Dando fondo alle nostre nozioni bibliche, o anche solo ai ricordi delle numerose letture liturgiche tratte dall’Antico Testamento, possiamo giungere ad un versetto del Libro dei Giudici estremamente significativo.

Si tratta dell’inizio dell’epopea di Sansone, un racconto che anche i meno avvezzi alle frequentazioni bibliche conoscono a grandi linee; la moglie di un israelita della tribù di Dan di nome Manòach, afflitta da sterilità, riceve l’apparizione di un angelo che le annuncia la sua prossima maternità. Dopo averle raccomandato alcune norme di purità[3], il messo celeste le dice: «Poiché, ecco, tu concepirai e partorirai un figlio sulla cui testa non passerà rasoio, perché il fanciullo sarà un nazireo di Dio fin dal seno materno; egli comincerà a salvare Israele dalle mani dei Filistei»[4].

I parallelismi fra Sansone e Gesù sono abbastanza evidenti: ambedue frutto di un intervento miracoloso di Dio, entrambi sono consacrati al Signore allo scopo di salvare da una minaccia. Naturalmente, diversa è la proporzione fra i due: anche solo limitandoci all’annuncio salvifico, possiamo facilmente notare come l’azione cui è chiamato Sansone sia più circoscritta non solo nei destinatari della salvezza, ma anche in riferimento alla minaccia affrontata. Se infatti l’erculeo giudice deve soccorrere i suoi connazionali da una nazione avversaria, Cristo è chiamato a portare la salvezza dal peccato a tutti coloro che si pongono nella sua sequela.

Da questa differenza di proporzione possiamo trarre una vaga indicazione che ci consenta di mettere a frutto questo parallelismo in relazione alla nostra domanda: ciò che Sansone compie con l’ausilio della forza fisica in un contesto particolare può divenire la lente attraverso la quale meglio comprendere quello che Gesù attua spiritualmente in un ambito universale.

 

I due leoni

Un episodio significativo in tal senso ci viene suggerito da Eliseo l’Armeno, teologo e monaco del V secolo d.C. che compose dei brevi commenti al Libro dei Giudici[5]. Egli, nel trattare della figura di Sansone, commenta immediatamente il racconto dell’uccisione del leone: il giudice, scendendo a Timna per prendere moglie, viene assalito da un leone il quale, grazie allo spirito del Signore, viene affrontato ed ucciso a mani nude. Tempo dopo, tornato sul luogo, Sansone vede la carcassa scarnificata della belva ospitante al suo interno un alveare pieno di miele, dal quale attinge[6].

Per prima cosa Eliseo fornisce una sua chiave ermeneutica di questa lotta dicendo che «Un leone affrontò un leone; l’uno più vecchio e pieno di malvagità, l’altro, una sorta di cucciolo di leone, tenero di età e pieno di potenza celeste»[7]. Il teologo associa quindi la fiera assalitrice al male, che «[…], che come leone ruggente va in giro cercando chi divorare»[8], ed il giovane giudice al leone di Giuda[9], elemento da lui letto come figura di Cristo vincitore del peccato[10]. Ecco che quindi Sansone, nell’uccidere il leone a mani nude, diviene immagine di Gesù che, senza armi umane ma solo con la Grazia del Padre, sconfigge il diavolo e distrugge il peccato.

Date queste premesse, Eliseo legge il seguito del racconto in chiave salvifica: «Ora, trascorsi molti giorni, la carcassa del leone si purificò dalla decomposizione e putrefazione; rimase vuoto e sgombro il suo ventre. […]. Gli uomini vivi assomigliano a cadaveri morti, un odore di morte invadeva tutti. Il giovane Sansone, unto e profumato dell’odore della vita, unse e profumò di quel soave odore il leone morto. Verso quell’odore di vita accorse e venne uno sciame di api. […]. Era tanto gradevole e saporoso, che il giovane consacrato ne assaggiò e gli piacque»[11].

La carcassa della belva, nel suo purificarsi dai miasmi della putrefazione, viene associata alla condizione spirituale dei fedeli, chiamati a divenire puri dai loro peccati. Naturalmente, l’azione che rende possibile questa purificazione è l’atto salvifico di Cristo che, proprio come Sansone vittorioso, consente ad ogni uomo di morire al peccato e di condividere lo splendido profumo della Sua santità. Solo quando ogni traccia della fiera passata è sparita, lasciando un felice vuoto nel cuore del fedele, la dolcezza della vita beata può riempirlo, simboleggiata dall’ottimo miele delle api.

 

La gioia della sconfitta

La lettura di Eliseo l’Armeno ci consente di gettare uno sguardo più profondo su quella promessa di salvezza dal peccato che l’Avvento ogni anno rinnova. Essa implica non solo la lotta che il Risorto deve combattere contro la durezza dei nostri cuori, ma anche un lento e difficile processo di purificazione dal male, un tempo in grado di mostrarci dolorosamente il fetore di ciò che riempiva le nostre vite gonfie e malsane. La promessa di redenzione non si ferma tuttavia all’eliminazione del peccato e dei suoi frutti dall’animo dei credenti, ma comprende anche la graduale sostituzione di questo con una dolcezza che si fa dono di gioia agli altri.

Quando perciò, in questo periodo di Avvento, ci accostiamo alle note raffigurazioni ed immagini natalizie, legate spesso alla debolezza del Gesù Bambino, ricordiamoci che la salvezza che è venuto a portare comporta una dura lotta; non solo contro un nemico esterno, ma primariamente contro quella materia putrida e feroce con la quale noi, peccatori, riempiamo la nostra esistenza. Ciò che ci aspetta è la condivisione della Sua sofferenza, poiché anche noi cristiani, che ci accostiamo alla lotta auspicando la nostra sconfitta, dovremo assaggiare tutto l’amaro morso della Passione. La speranza che ci viene offerta non consiste quindi in una infantile fuga dal dolore e dalla morte, ma nella matura accettazione di una redenzione che passa attraverso l’eliminazione di ciò che siamo diventati, nella fiduciosa attesa di essere riempiti della dolcezza della Vita Nuova.

 

[1] Mt 1, 21.

[2] Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), n. 117, 1.

[3] Cf Gdc 13, 3-4.

[4] Gdc 13, 5.

[5] Cf Eliseo l’Armeno, Commento a Giosuè e Giudici (a cura di Riccardo Pane), ESD e ESC, Bologna 2009.

[6] Cf Gdc 14, 4-10.

[7] Eliseo l’Armeno, Commento a Giosuè e Giudici, c. XV, n. 1, p. 203.

[8] 1Pt 5, 8

[9] Cf Gen 49, 9.

[10] Cf Eliseo l’Armeno, Commento a Giosuè e Giudici, p. 203, nota 2.

[11] Eliseo l’Armeno, Commento a Giosuè e Giudici, c. XV, nn. 10-13, pp. 205-207.