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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: no alla manifesta insussistenza per la reintegra

La Corte costituzionale interviene sulla legittimità costituzionale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: no alla manifesta insussistenza per la reintegra


La Corte costituzionale, con la recentissima Sentenza n. 125/2022, ha censurato l’articolo 18, c. 7, Legge 300/1970, sancendo l’illegittimità costituzionale dell’espressione “manifesta.

Secondo la previsione normativa solo in presenza della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento era prevista la tutela reintegratoria, oltre alla condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria, parametrata all’ultima retribuzione globale di fatto e comunque non superiore all’importo di dodici mensilità, per il periodo che intercorre dal licenziamento alla effettiva reintegrazione.

Da tale somma occorre detrarre quanto il lavoratore, nel periodo di estromissione, abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (aliunde perceptum) e quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde percipiendum). Il datore di lavoro è poi obbligato a versare i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.

Nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro sin dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Nella determinazione dell’indennità si tiene conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti e «delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». Se, nel corso del giudizio, il licenziamento risulti «determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari», come recita il settimo comma dell’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, troveranno applicazione «le relative tutele».

La Consulta è intervenuta nuovamente sull’articolo 18 Legge 300/1970, e, precipuamente, sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Orbene, è proprio sul carattere “manifesto” dell’insussistenza che verte la pronuncia in esame, che si assume lesivo dei principi costituzionali rectius dell’articolo 3 della Costituzione.

Secondo la prospettazione del giudice a quo vi sarebbe, in primo luogo, “una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, da un lato, e il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, dall’altro lato. Solo nella prima fattispecie sarebbe richiesta – ai fini della reintegrazione del lavoratore – una insussistenza manifesta del fatto e tale trattamento differenziato sarebbe sprovvisto di una plausibile ragion d’essere”.

E, ancora, “Il vulnus al principio di eguaglianza (articolo 3, primo comma, Costituzione) si coglierebbe anche nel raffronto con la disciplina dei licenziamenti collettivi, che – nel caso di violazione dei criteri di scelta – concede la reintegrazione, invece preclusa per i licenziamenti individuali determinati da ragioni economiche”.

Il criterio individuato dal legislatore sarebbe, inoltre, “intrinsecamente illogico e dunque lesivo dell’articolo 3, primo comma, Costituzione, in quanto incerto nella sua applicazione concreta e carente di un preciso e concreto metro di giudizio, idoneo a definire il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto”.

L’irragionevolezza della disposizione censurata si rivelerebbe, inoltre, nell’inversione dell’onere della prova in essa sancita. Il lavoratore, pur estraneo alle relative circostanze di fatto, dovrebbe dimostrarne la manifesta insussistenza.

L’inversione dell’onere della prova a svantaggio del lavoratore entrerebbe in conflitto, inoltre, con il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’articolo 3, secondo comma, Costituzione

Il rimettente prospetta, infine, il contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 24 Costituzione La disposizione censurata comprimerebbe in maniera irragionevole e sproporzionata il diritto del lavoratore di agire in giudizio.

La Corte ha ritenuto fondata la questione inerente all’articolo 3 Costituzione (avente carattere assorbente rispetto alle altre) assumendo, anzitutto, l’indeterminatezza dell’espressione “manifesta” connotante l’insussistenza del fatto: siffatta indeterminatezza attribuirebbe troppa discrezionalità al datore di lavoro, oltre che ai giudici di merito, la cui valutazione sarebbe sfornita di ogni criterio direttivo nonché priva di un “fondamento empirico”.

Il presupposto in esame, inoltre, “non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio”, essendo, in altre parole, “disancorato dal valore dell’illecito”.

Conclude la Corte osservando come il carattere “manifesto” richiesto dal legislatore del 2012 vanifichi la ratio della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni, principi che devono permeare l’ordinamento processuale.

Pertanto la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’articolo 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola «manifesta».