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Mani Pulite: cosa è stata e cosa ci ha lasciato

Parte seconda
Antonio di Pietro, simbolo di Mani Pulite
Antonio di Pietro, simbolo di Mani Pulite

Mani Pulite: cosa è stata e cosa ci ha lasciato

 

Io stringo i pugni e mi dico

che tutto cambierà

Neffa, Cambierà

 

3.2. I “numeri” complessivi dell’inchiesta

L’unica cosa certa della dimensione quantitativa di Mani Pulite è che fu imponente.

Tutte le fonti consultate restituiscono infatti numeri impressionanti.

Non c’è invece coincidenza tra i dati dell’una e dell’altra, verosimilmente a causa delle differenti metodologie di ricerca e delle oggettive difficoltà di accesso e di verifica di materiali imponenti, risalenti nel tempo e frammentati in plurimi rivoli.

La prima fonte è un documentario curato da Rai Storia in occasione del ventennale di Mani Pulite e riassunto sul web da Rai News[1].

La seconda è un approfondimento del quotidiano La Repubblica[2].

La terza e ultima fonte è una ricerca condotta per il Corriere della Sera da Luigi Ferrarella compulsando direttamente i fascicoli processuali[3].

 

3.3. I suicidi

Furono ben 31 - ma secondo alcune fonti il numero fu più alto[4]- le persone che si tolsero la vita perché coinvolte in Mani Pulite o comunque lambite dall’inchiesta o per effetti indotti da questa.

Si impongono alcune avvertenze: le vicende di cui si parla sono connesse non alla sola Mani pulite milanese ma a quella nazionale; si parlerà solo dei casi di cui esiste evidenza giornalistica e che appaiono ragionevolmente classificabili come suicidi; le vittime saranno indicate con le sole iniziali come gesto dovuto di rispetto.

Ecco la storia di alcune di loro.

Cominciò FF. Era il coordinatore dell’USL 75 di Milano. Non era indagato ma temeva di esserlo a causa di una laurea falsa. Si uccise col monossido di carbonio della sua auto il 23 maggio 1992[5].

Seguì RA, segretario del PSI di Lodi. Il 17 giugno 1992, dopo essere stato interrogato dai giudici di Mani Pulite, si sparò un colpo alla tempia[6].

Il 21 luglio 1992 fu il turno di GR, messo comunale, su un cui conto era stato accertato un deposito di un miliardo di lire[7].

Il 27 luglio 1992 si uccise sparandosi alla testa MM, importante imprenditore edile comasco, dopo essere stato interrogato dal sostituto Davigo in relazione a presunte tangenti per i lavori della Milano-Serravalle[8].

Il 2 settembre 1992 si uccise sparandosi un colpo di fucile nella cantina di casa il deputato del PSI e tesoriere regionale del partito SM, dopo avere ricevuto vari avvisi di garanzia dai PM milanesi[9]. Prima del suo tragico gesto, SM compilò una lettera indirizzata a Giorgio Napolitano, presidente della Camera dei Deputati[10].

Il 25 febbraio 1993 si tolse la vita SC, già dirigente generale del ministero delle Partecipazioni statali[11].

Il 12 aprile 1993 VC, consigliere comunale di Pescara, si lanciò dal sesto piano del palazzo in cui abitava dopo essere stato coinvolto in un’indagine su presunti reati compiuti dal comitato di gestione dell’USL pescarese[12].

Il 30 aprile 1993 si gettò nell’Adige GM, ex segretario amministrativo della DC di Rovigo[13].

Il 26 giugno 1993 fu trovato il corpo senza vita di AV, accademico e componente del CIP farmaci nonché collaboratore dell’ex ministro De Lorenzo.

Il 20 luglio 1993 si suicidò GC, presidente dell’ENI. Il suo corpo senza vita fu trovato nelle docce del carcere milanese di San Vittore con un sacco di plastica infilato in testa e sigillato da una corda.

Prima di uccidersi GC scrisse lettere ai familiari e ai suoi avvocati per spiegare le ragioni del suo gesto[14].

Il 23 luglio 1993 si suicidò sparandosi con una pistola RG, leader del gruppo Ferruzzi[15].

Il 10 luglio 1994 si suicidò sparandosi in bocca AL, maresciallo della Guardia di Finanza, in quel momento agli arresti domiciliari dopo un breve periodo di carcerazione[16].

 

4. Le caratteristiche identitarie

4.1. La mediaticità

È nella comune consapevolezza che Mani Pulite fu uno spartiacque per il nostro Paese e dopo di essa nulla fu più come prima.

Nelle varie partizioni di questo paragrafo si proverà a mettere a fuoco i segni più evidenti della straordinarietà di un’esperienza che travalicò ampiamente la dimensione giudiziaria, trasformandosi in fenomeno di costume, catalizzatore di sentimenti popolari, orientamento etico, discrimine politico, fonte di nuovi equilibri di sistema e altro ancora.

Poco o nulla di tutto questo sarebbe stato però possibile se Mani Pulite non avesse attirato lo strabiliante seguito pubblico che la accompagnò per anni e se essa stessa non avesse avuto tra le sue armi l’inedita abilità mediatica dei suoi protagonisti di prima fila.

Un ruolo preponderante lo ebbero naturalmente la stampa e la TV che si mossero secondo due prospettive complementari: un’informazione quotidiana capillare sugli eventi dell’inchiesta; l’attribuzione di uno spazio preponderante al tema della corruzione così da conferirgli assoluta centralità nel dibattito pubblico e nell’agenda politico-istituzionale[17].

Basti qui ricordare che la fortunata trasmissione Rai “Un giorno in Pretura”, nata per offrire al grande pubblico televisivo l’opportunità (o l'illusione?) di uno sguardo dall’interno (o dal buco della serratura?) nelle aule di giustizia, tra il 1993 e il 1994 dedicò ben 25 puntate al processo Enimont che sono state adesso raccolte in boxset e offerte all’audience, al pari di una serie di successo[18].

Senza poi contare lo stile descrittivo di quelle puntate, la scelta delle visuali e dei dettagli sui quali focalizzarsi (comprese le gocce di sudore di alcuni personaggi, il filo di bava che tracima inconsapevolmente dall’angolo della bocca di altri), la narrazione prescelta. Ognuno di questi temi meriterebbe di essere approfondito per coglierne il senso, le implicazioni e gli effetti. Ma non qui, non questa volta almeno.

Ci fu poi un’ulteriore caratteristica della copertura informativa di Mani Pulite ad opera dei mass media: in buona parte i professionisti dell’informazione la intesero all’insegna della condivisione dei suoi scopi e dei suoi metodi sicché lo sguardo critico divenne merce assai rara e si manifestò per lo più a distanza di molti anni dall’epicentro dell’inchiesta[19].

E ci fu infine un aspetto cruciale che divenne la genesi diretta o indiretta di molteplici trasformazioni successive: i PM titolari delle indagini, sia pure con intensità differenti tra loro, abbracciarono la crescente notorietà piuttosto che ritrarsene, diventando personaggi mediatici e testimonial di se stessi.

Come si è visto, ci furono interviste, comunicati diretti all’opinione pubblica, dichiarazioni pubbliche e canali costantemente aperti con la stampa.

Non fu una cosa di poco conto. Si diede vita in questo modo ad un nuovo metodo di comunicazione della giustizia senza più mediazioni e filtri. I pubblici ministeri scesero nell’agorà mediatica e ne occuparono il centro.

Non fu una cosa di sola immagine e di puro rilievo scenico, tutt'altro.

La conquistata centralità dei PM servì loro anzitutto a propagandare una nuova idea di giustizia e di verità: entrambe stavano per intero nei risultati delle loro attività.

Lo si coglie con la massima chiarezza nel comunicato letto in TV da Antonio Di Pietro, riportato nella nota n. 11 della seconda parte.

Frasi come «persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione» e «precedenti misfatti» riferite a indagati equivalgono a dire che le indagini preliminari hanno già raggiunto la verità cui è preordinato il giudizio penale e che le fasi e i gradi che seguiranno non potranno che confermarla.

A parte questo primo ed essenziale messaggio, altri e non meno importanti possono essere colti nelle parole del Dr. Di Pietro: l'incombenza e la diffusione del male, l'inefficienza delle istituzioni e la disfunzionalità degli strumenti messi in campo a fronte di un'emergenza così maligna e nefasta, il contrasto tra legge e coscienza, la frustrazione di chi prova sentimenti di giustizia ed equità, la solitudine di chi prova a resistere, la chiamata alle armi degli uomini di buona volontà perché si raccolgano attorno alla cittadella assediata (la Procura di Milano, va da sé) e uniscano le loro forze a quelle di chi è ancora in piedi a combattere nonostante ogni avversità e chiede solo di potere continuare.

Se il pregio delle parole dovesse essere misurato solo in base alla loro capacità di arrivare al cuore delle persone, quelle del PM Di Pietro furono un innegabile capolavoro.

E se la loro efficacia stesse nel suscitare sentimenti di identificazione e desiderio di schierarsi a fianco dell'oratore, il capolavoro fu doppio[20].

Si conclude qui ma il tema sarà ripreso più avanti così da valutarne in modo più compiuto le ulteriori implicazioni.

[1] Lo si può consultare a questo link. Si parla in questo caso di «25400 avvisi di garanzia, 4525 arresti, 1069 politici coinvolti in due anni di indagini solo da parte del pool di Milano, 1300 tra condanne e patteggiamenti definitivi, 430 assoluzioni, 31 suicidi tra il 1992 e il 1994. In uno studio dell'epoca l'economista Mario Deaglio calcolò il costo delle tangenti per i cittadini e per il sistema economico italiano in generale: Costo fino a 4 volte superiore rispetto agli altri paesi europei per opere pubbliche analoghe, costo di 10mila miliardi di lire annui per le tasche dei cittadini, costo tra i 150mila e i 250mila miliardi di lire di indebitamento pubblico, costo tra i 15mila e i 25mila miliardi di lire di interessi annui sul debito».

[2] Fu pubblicato sull’edizione web del 16 febbraio 2017, a questo link. I dati principali forniti dal giornale romano sono questi: 4.520 persone iscritte nel registro degli indagati; per 3.200 di costoro fu chiesto il rinvio a giudizio, le restanti 1.320 posizioni furono trasmesse ad altre autorità giudiziarie; tra i 3.200 per i quali fu esercitata l’azione penale, 1.688 imputati passarono attraverso l’udienza preliminare, 1.322 furono rinviati a giudizio e 661 di essi furono condannati (345 dei quali con patteggiamento); 635 furono prosciolti dal GIP (242 nel merito e 314 per prescrizione) e 620 furono condannati dal GIP (ivi compresi i patteggiamenti); 443 posizioni vennero trasmesse ad altre autorità giudiziarie.

[3] È stata pubblicata il 14 febbraio 2022 ed è consultabile a questo link. Se ne ricava che tra il 1992 e il 1994 il pool composto dai sostituti Di Pietro, Colombo, Davigo e Greco gestì 3.146 procedimenti in cui furono indagate 2.565 persone. I condannati nel merito o con patteggiamento furono 1.408, 544 furono gli assolti, 448 i prosciolti per prescrizione o altre cause estintive. La pena massima inflitta fu di cinque anni e sei mesi di reclusione. Un anno fu il tempo massimo di custodia cautelare in carcere. I risarcimenti complessivi ammontarono a 140 miliardi di lire.

[4] Ci si riferisce al reportage Il risultato di Tangentopoli: 40 suicidi e centinaia di innocenti carcerati di T. Maiolo, pubblicato sul Riformista il 16 febbraio 2022, consultabile a questo link. Anche Il Post, nell’edizione web del 17 febbraio 2022 consultabile a questo link, accredita la possibilità che i suicidi siano 40. In entrambi i casi, tuttavia, non sono stati forniti riscontri verificabili a sostegno di questa stima più ampia.

[5] La notizia fu riportata dal quotidiano La Repubblica il 21 luglio 1993, a questo link.

[6] La notizia proviene dalla stessa fonte indicata nella nota n. 5.

[7] La notizia proviene dalla stessa fonte indicata nella nota n. 5.

[8] La notizia proviene dalla stessa fonte indicata nella nota n. 5.

[9] La notizia proviene dalla stessa fonte indicata nella nota n. 5.

[10] La lettera è conservata nell’archivio del Senato della Repubblica ed è consultabile integralmente a questo link.

[11] La notizia è commentata dal quotidiano La Repubblica nell’edizione del 24 luglio 1993, consultabile a questo link. Il redattore dell’articolo, D. Mastrogiacomo, mette tra l’altro in evidenza i dubbi che hanno caratterizzato la vicenda e il sospetto che potesse non trattarsi di un suicidio.

[12] La notizia proviene dalla stessa fonte indicata nella nota n. 5.

[13] La notizia proviene dalla stessa fonte indicata nella nota n. 5.

[14] Per la descrizione della vicenda e i dettagli sulla posizione giudiziaria di GC, si rinvia ad un articolo pubblicato il 16 febbraio 2022 da Il Dubbio, consultabile a questo link.

[15] Per la descrizione della vicenda e i dettagli sulla posizione giudiziaria di RG, si rinvia ad un articolo pubblicato il 24 luglio 1994 da ItaliaOggi, consultabile a questo link.

[16] Per un resoconto della vicenda si veda l’archivio storico dell’Unità del 10 luglio 1994, a questo link.

[17] Si confronti sul punto R. Asquer, Mani Pulite: il ruolo dei media nella fine della prima Repubblica, pubblicato il 15 aprile 2015 su linkiesta.it, consultabile a questo link. L’articolo cita alcuni dati significativi (i neretti sono dell’autore di questo scritto): «La “copertura giornalistica della corruzione” equivale al numero di giorni al mese in cui la rassegna stampa dell’Ansa contiene almeno una parola-chiave relativa alla corruzione (corruzione, concussione, peculato, abuso d’ufficio, tangenti, mazzette, o bustarelle). La rassegna stampa Ansa si riferisce ai titoli e agli argomenti sulle prime pagine dei quattro o cinque principali quotidiani italiani. Per esempio, delle 31 rassegne stampa giornaliere pubblicate nel luglio 1992, 22 contengono parole-chiave relative alla corruzione. Dal confronto fra il primo e il secondo grafico emerge uno scarto notevole fra le indagini della Procura di Milano e l’attenzione della stampa al fenomeno-corruzione. Nell’estate del 1992, quando solo una manciata di parlamentari risultavano indagati, la copertura giornalistica delle inchieste aveva già raggiunto livelli altissimi, incomparabili rispetto al passato e raramente eguagliati negli anni successivi. Ricordiamo che questi dati non si riferiscono ai trafiletti sulle pagine interne dei giornali locali, ma alle prime pagine delle principali testate nazionali. Per fare un esempio, delle 31 prime pagine del Corriere della Sera del mese di luglio 1992 (o de La Repubblica, La Stampa ecc.), risulta che ben 22 – ovvero due su tre – menzionavano vicende di corruzione. L’andamento delle indagini e la copertura giornalistica andarono di pari passo, invece, nell’estate del 1993. Come si può facilmente immaginare, in un periodo in cui decine di parlamentari venivano indagati per corruzione e reati affini, i maggiori quotidiani nazionali dedicarono ampio spazio alla corruzione. In questo caso la stampa sembrò seguire gli eventi, più che anticiparli e amplificarli. Nell’estate del 1992, dunque, la stampa italiana amplificò la portata dell’inchiesta di Mani Pulite, focalizzandosi sul tema della corruzione come non aveva mai fatto nella storia repubblicana. Il fatto che, ben prima che l’inchiesta toccasse l’apice, i giornali avessero già “sbattuto” la corruzione in prima pagina per mesi e mesi, contribuì probabilmente all’ampliamento dell’inchiesta stessa. In primo luogo, questo convinse i magistrati di avere il sostegno dell’opinione pubblica – il che in gran parte era vero – e ne motivò ulteriormente l’azione. In secondo luogo, l’incessante copertura mediatica convinse imprenditori e politici indagati, o in procinto di esserlo, che ormai convenisse confessare piuttosto che essere travolti, così da abbattere il muro di omertà che aveva ostacolato simili indagini in passato». 

[18] Chi ne vuole sapere di più può collegarsi a questo link.

[19] Si rimanda anzitutto all’opinione di G. Fiandaca, Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria ma non esemplare, in Giustizia Insieme, 16 febbraio 2022, consultabile a questo link. Si raccomanda in particolare la lettura del capitolo VI.

Si rinvia ancora al ricordo-testimonianza di G. Buccini, reporter in prima linea su Mani Pulite e autore di Il tempo delle mani pulite, Laterza, Roma-Bari, 2021, recensito dallo stesso Fiandaca. Nel suo articolo Mani Pulite trent’anni fa. Rivoluzione mancata che ha reso gli italiani più faziosi pubblicato sull’edizione web del Corriere della Sera del 13 febbraio 2022 scrive così (i neretti sono dello stesso Buccini; le sottolineature sono invece dell’autore di questo scritto): «Sotto il palazzo di giustizia di Milano cominciano a raccogliersi supporter, cortei, fiaccolate al grido di «Tonino salvaci dal male», si vendono magliette col logo di Tangentopoli, poster con le facce dei pm in versione Intoccabili , un film che spopola. Di Pietro, con la sua callidità da Bertoldo, diventa in breve l’eroe pop che dovrebbe vendicare gli italiani vessati dai partiti: la sua Montenero di Bisaccia sembra Camelot, la sua ostentata rudezza un antidoto marziale alle mollezze da fine regime della Prima repubblica. Una rappresentazione forzata, alla quale molto contribuiamo noi dei media, i primi talk show, la carta stampata. Noi, cronisti assegnati a questa storia, siamo quasi tutti giovanissimi e seconde firme: all’inizio nessuno credeva che Chiesa parlasse, così i big non erano stati mandati in campo; quando quello parla, noi abbiamo in mano tutte le fonti, così l’inchiesta non può togliercela più nessuno. Si tratta però di rischiare molto, raccontando dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno: non ha senso contenderci notizie, ha senso piuttosto controllare che siano tutte vere, che non ci lancino una “polpetta avvelenata” per intossicare l’intera narrazione (attorno al palazzo di giustizia corvi e volpi cominciano a raccogliersi in gran copia). Una sera di primavera, al ristorante Gambarotta di via Moscova, nasce dunque il pool dei cronisti: reggerà bene il primo anno, la prima lunga ondata dell’indagine. Ma, certo, ci toglierà qualcosa; avendo quasi tutti la stessa formazione da sinistra studentesca, quasi tutti abbiamo gli stessi pregiudizi: il nostro Craxi “ideale” assomiglia molto a quello delle caricature di Forattini, gli imprenditori a certi caratteristi della Piovra. Siamo decisi a salvare il mondo per via giornalistica. Poiché l’inchiesta sembra regalarci proprio la verità che abbiamo già in testa, quasi nessuno di noi sente il bisogno di guardarla anche da qualche altra angolazione: il bene di qua e il male di là, è manicheismo giovanile.

Sicché del memorabile discorso del leader socialista alla Camera, il 3 luglio, cogliamo solo la disperata e vana chiamata di correità davanti a colleghi muti e atterriti («se gran parte di questa materia va considerata criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale») e non, anche, la portata visionaria per quanto allucinata (da allora in avanti, la politica sarà sterco del demonio per tanti, troppi italiani). Quando ad agosto, isolato e ormai col fiato dei pm sul collo, Craxi lancia quattro corsivi sull’ Avanti per sostenere che Di Pietro non è forse l’eroe che pensiamo, elencando una lunga serie di suoi rapporti pregressi nello stesso milieu milanese poi oggetto dell’inchiesta, noi derubrichiamo tutto a fango. E, certo, il fine di Craxi è quello, infangare. Ma noi non ci domandiamo se in tanto fango ci sia qualche fiorellino di verità, non rilevante penalmente, s’intende, ma significativo sul piano dell’immagine se non della deontologia. Così, un po’ tradiamo i lettori o, almeno, impediamo alla parte più moderata di essi di avere un punto di vista completo, distante dalle fazioni che già si vanno delineando. Neppure sui suicidi, che iniziano quell’estate, ci soffermiamo a riflettere.

Il calderone

Il deputato socialista Sergio Moroni ammette, nella lettera d’addio al presidente della Camera, Giorgio Napolitano, di avere preso 200 milioni (di lire) per il partito. Ma non è un ladro, per sé non ha intascato un soldo. Sui media dovremmo distinguere meglio, proteggere le dignità: tutto finisce in un calderone da dove la rabbia popolare attinge. Ormai il piano è inclinato, verso l’inevitabile. Craxi prende il primo avviso di garanzia a metà dicembre 1992: molti gli appioppano l’infame soprannome di Cinghialone, l’obiettivo della caccia. Non c’è da stupirsi se, quando la Camera ne nega, ad aprile ‘93, l’autorizzazione a procedere, una folla inferocita lo copra di sputi e monetine davanti all’Hotel Raphaël, sua abituale residenza romana. Il sistema è in ginocchio. E, come spesso in simili frangenti, in Italia si muovono forze oscure. Se il primo anno è stato segnato dagli attentati a Falcone e Borsellino, la seconda estate dell’inchiesta risuona delle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. Nella città di Mani pulite, un’autobomba davanti alla villa comunale fa cinque morti e dodici feriti. Due giorni dopo, ai funerali solenni, i milanesi seguono in un corteo spontaneo Borrelli e gli altri magistrati del pool, inneggiano a Di Pietro, invocano la forca, coprono di fischi e insulti le autorità dello Stato.

L’onda giustizialista

Nemmeno altri due suicidi eccellenti, quello del finanziere Raul Gardini e del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, invertono la grande onda giustizialista che sembra conquistare il Paese. Le vere esequie della Prima repubblica si celebrano pochi mesi dopo, in diretta tv. Al primo processo per la maxitangente Enimont (i 150 miliardi versati da Gardini ai partiti per sciogliersi dalla letale joint venture con la mano pubblica), Di Pietro decide di portare alla sbarra un solo imputato, il finanziere Sergio Cusani, consulente di Gardini, e tutti i segretari di partito come testimoni. In decine di udienze trasmesse al mattino da Un giorno in pretura, gli italiani vedono così i potenti d’un tempo flagellati dal loro amato pm: che li umilia (tutti tranne Craxi), sfoggiando per l’occasione il dipietrese, un mix di proverbi della nonna, imprecazioni, sbuffi e strafalcioni forse anche studiati, che ne accentuano la distanza di campione del Paese reale (che «parla come mangia») dall’élite tanto deprecata. Le forche caudine vengono però risparmiate al Pci-Pds: questo, oltre a generare polemiche che durano tuttora, convincerà gli eredi di Berlinguer e della sua questione morale di avere infine la via spianata (dai giudici) verso la conquista del potere. Achille Occhetto arma la sua «gioiosa macchina da guerra», che diventerà invece simbolo di sconfitta.

L’arrivo dell’imprenditore populista

Perché le elezioni di marzo ‘94 (le prime con un sistema a prevalenza di maggioritario) dimostrano che dalla caduta di un sistema parlamentare nessuno di quel sistema si salva. E consegnano il Paese al primo vero populista della nostra Repubblica, Silvio Berlusconi: imprenditore non certo osteggiato dai vecchi partiti, amico personale di Craxi, e tuttavia capace, con uno straordinario illusionismo politico e televisivo, di convincere milioni di italiani di essere una specie di maverick, un anticonformista, portatore di un ossimoro, la rivoluzione liberale. I lunghi mesi di tensione del suo governo con il pool sfociano nell’invito a comparire che Borrelli e i suoi gli fanno recapitare mentre è a Napoli, presiedendo per l’Italia un vertice mondiale sulla criminalità (sfregio che lui mai perdonerà) e nell’inopinato addio alla toga di Di Pietro, proprio a ridosso dell’interrogatorio cui il pm avrebbe dovuto sottoporre il premier (dopo avere annunciato ai colleghi «quello lo sfascio»). È un’Italia smarrita e avvelenata, quella che esce infine dai due anni più turbolenti della sua storia repubblicana, il 1992-94».

[20] Questo stile comunicativo accattivante e attento a sollecitare le corde più intime del pubblico fu usato anche di seguito. Un caso parecchio significativo fu quello del comunicato del Questore di Perugia nell'immediatezza degli arresti dei sospetti assassini di Meredith Kercher (si rinvia per la fonte e una ricostruzione generale del caso a V. Giglio, Parole, soltanto parole: le esternazioni sull'assassinio di Meredith Kercher, in Filodiritto, 6 settembre 2016, a questo link): «Sono stati quattro giorni e quattro notti di indagini ininterrotte che hanno visto gli uomini della Squadra Mobile di Perugia, dello SCO, dell’ERT e della Polizia postale lavorare sinergicamente con uno spiegamento di forze e di mezzi […] indagine sostanzialmente chiusa […] particolare e attento riscontro degli elementi emersi, ora dopo ora, minuto dopo minuto […] C’è amarezza per la morte di una giovane ragazza […] C’è però anche soddisfazione per il lavoro svolto […] Abbiamo sentito il peso della responsabilità nei confronti dei cittadini, che volevano una risposta certa e la volevano subito … tutti e tre hanno partecipato al fatto. Il Questore si riferiva non solo alla Knox e al Sollecito, ed è noto come è andata a finire, ma anche a Patrick Lumumba, che sarebbe stato scarcerato di lì a due settimane per assoluta mancanza di indizi. A prescindere da questa considerazione (che comunque qualche peso dovrebbe averlo), è agevole cogliere nelle dichiarazioni riportate gli stessi espedienti retorici di cui si servì il Dr. Di Pietro.