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Parole, soltanto parole: le esternazioni sull’assassinio di Meredith Kercher

Parole, soltanto parole: le esternazioni sull’assassinio di Meredith Kercher
Parole, soltanto parole: le esternazioni sull’assassinio di Meredith Kercher

Perché questo scritto e questa vicenda

Cos’è la giurisdizione? Quali i suoi luoghi, le sue regole, i suoi fini?

Che ruolo hanno le parti e il giudice, quali interessi servono, quali i loro limiti?

Quanto conta l’opinione pubblica, come deve essere informata, chi deve informarla?

Che peso ha chi sta fuori del processo?

Può essere che una decisione sia presa anche in base a quanto accade fuori delle aule di giustizia?

Tante domande, forse incomplete, probabilmente senza risposta.

Ma se anche così fosse, non sarebbe un fallimento. Le domande sono segno di curiosità e interesse, consentono il confronto: non è sbagliato dire che si giustificano da se stesse.

Non serve quindi alcuna speciale legittimazione o competenza per chiedersi come funzioni oggi la giustizia, se vi sia una tendenza alla sua spettacolarizzazione, se coloro che l’amministrano indulgano talvolta a voglie di protagonismo, se i suoi riti e il suo contenuto siano divenuti campo di interesse voyeuristico, se le attività e le decisioni che vi si prendono risentano talvolta di influenze e interessi diversi da quelli canonici.

Giustificato così questo scritto, si può subito presentarne l’oggetto, vale a dire la travagliata storia delle indagini e del processo per l’uccisione di Meredith Kercher.

La realtà offre numerose occasioni più che adeguate per l’analisi che si vuole compiere.

Eppure questa vicenda ha una forza attrattiva speciale che porta a preferirla tra le altre.

Il fatto in sé, anzitutto: il contesto universitario, l’interazione di individui di diverse nazionalità, etnie e culture, lo sfondo scabroso, l’efferatezza del gesto criminale, l’uso massivo di tecniche investigative di tipo scientifico e quindi l’intervento di vari esperti specializzati.

E poi l’intensa personalizzazione impressa alle indagini e al giudizio da parti processuali fortemente assertive e convinte della propria verità.

Il seguito mediatico: grande interesse di stampa e televisione, sia in Italia che all’estero, alimentato da interventi e dichiarazioni delle parti, esaltato da dibattiti e ricostruzioni di ogni genere, accompagnato dalla pubblicazione di pamphlet, instant book e quant’altro.

Gli interessi esterni: non solo l’opinione pubblica ma anche autorità pubbliche e vari Stati stranieri pronti a proteggere i loro cittadini coinvolti nel processo e a sollecitare esiti giudiziari conformi alle loro aspettative.

Un evento simbolico, spettacolare, a forte partecipazione pubblica, la cui parte strettamente giudiziaria è stata in più di un caso sopravanzata o addirittura sopraffatta dal circuito mediatico che se ne è servito in modo cannibalesco per alimentare se stesso.

Ognuno dei profili elencati meriterebbe un’autonoma considerazione perché tutti sono capaci di incidere profondamente sull’amministrazione della giustizia e sul modo in cui questa viene percepita.

Qui però ci si accontenta di far parlare le parole, quelle pronunciate dai protagonisti del processo.

Si aggiungerà poi qualche fatto di cronaca collaterale, così che i lettori abbiano gli strumenti per decidere se quelle parole fossero davvero ciò che apparivano oppure strumenti al servizio di ego ipertrofici.

Ancora due cose prima di concludere l’introduzione.

Il resoconto che segue potrebbe dare l’impressione che le uniche voci mancanti siano quella della vittima, Meredith Kercher, e di coloro che nel processo hanno chiesto giustizia in suo nome.

Sì, è così. Ma non è una dimenticanza. È una scelta voluta e, in certo qual modo, imposta. Perché, a torto o ragione, è sembrato che le dinamiche comunicative scelte almeno da alcuni dei protagonisti del processo, pur abbondando di riferimenti alla “povera vittima”, fossero in realtà autoreferenziali e servissero a esaltare visibilità individuali piuttosto che ansia di giustizia. E allora, paradossalmente, l’assenza della Kercher e della sua cerchia in questo scritto vuole essere il modo per richiamare l’attenzione su di lei.

Infine: come correttezza vuole, quasi tutte le persone menzionate sono state indicate con le iniziali del loro nome e cognome. Sarebbe stato giusto fare lo stesso anche per gli imputati ma la clamorosa risonanza del caso giudiziario renderebbe inutile qualunque precauzione protettiva. Dispiace, ma non era davvero possibile fare altrimenti. Purtroppo per loro, il tempo dell’oblio non è ancora arrivato.

I fatti e il processo

A Perugia, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 2007, fu assassinata Meredith Kercher, studentessa britannica di 21 anni. La vittima frequentava il programma Erasmus e abitava da poco in un appartamento condiviso con due ragazze italiane e la statunitense Amanda Knox, all’epoca dei fatti legata sentimentalmente allo studente Raffaele Sollecito.

Le investigazioni accertarono che la Kercher era stata strozzata e accoltellata nella stanza da letto della sua abitazione. La salma, trovata dalla coppia Sollecito – Knox, era stata avvolta in un piumone e risultavano sottratti telefoni cellulari, carte di credito e contanti della vittima.

Le primissime indagini condotte dalla Procura perugina portarono al ritrovamento di un coltello in casa del Sollecito, sulla cui lama venne identificato materiale genetico attribuito alla Kercher e sul cui manico altro materiale attribuito alla Knox. Sul gancetto del reggiseno della vittima furono trovate tracce genetiche attribuite al Sollecito. Sul cuscino trovato sotto il cadavere fu infine trovata un’impronta palmare che risultò appartenere a Rudy Guede, un cittadino della Costa d’Avorio anch’egli residente a Perugia.

Questa acquisizioni e le dichiarazioni, ritenute contraddittorie e reticenti del Sollecito e della Knox, portarono all’arresto dei due, di Rudi Guede e del cittadino congolese Patrick Lumumba, residente da tempo in città e titolare del pub ove lavorava la studentessa americana, accusato proprio da quest’ultima di essere l’omicida della Kercher.

Il Guede fu catturato il 20 novembre mentre si trovava in territorio tedesco. Lo stesso giorno venne invece scarcerato, per sopravvenuta mancanza di indizi, Patrick Lumumba la cui posizione sarebbe stata definitivamente archiviata l’anno successivo.

A conclusione della fase istruttoria, la Procura perugina chiese e ottenne il rinvio a giudizio del Sollecito, della Knox e del Guede con l’accusa di concorso nell’omicidio della Kercher, di violenza sessuale in suo danno e di furto. Alla sola Knox venne anche contestata l’accusa di calunnia in danno del Lumumba.

La contestazione di violenza sessuale fu motivata in particolare da una ricostruzione secondo la quale l’omicidio era stato occasionato dal rifiuto della vittima di sottostare a una sorta di violento gioco sessuale voluto dagli indagati.

Rudy Guede chiese di essere giudicato con rito abbreviato e la sua colpevolezza, decretata in tutti i gradi di giudizio, gli costò la condanna definitiva a 16 anni di reclusione.

La Knox e il Sollecito vollero invece essere giudicati nelle forme ordinarie.

Il dibattimento di primo grado, celebrato dalla Corte di Assise di Perugia, si concluse il 4 dicembre 2009 con il sostanziale riconoscimento della tesi accusatoria. I due imputati vennero giudicati colpevoli e condannati l’uno a 25 anni di reclusione, l’altra a 26 anni in quanto responsabile anche del delitto di calunnia.

Entrambi gli accusati appellarono la sentenza di primo grado. Lo stesso fece il PM perugino allo scopo di ottenere la condanna degli accusati alla pena dell’ergastolo.

Il secondo giudizio, svoltosi dinanzi la Corte di Assise di Appello di Perugia, si concluse il 3 ottobre 2011 con una sentenza che, ribaltando la prima decisione, assolse entrambi gli appellanti dalle accuse di omicidio e violenza sessuale per non avere commesso il fatto. Fu invece confermata la condanna della Knox per il reato di calunnia la cui pena fu fissata in tre anni di reclusione.

Vale la pena ricordare che i giudici di appello accolsero varie richieste istruttorie difensive ed in particolare ammisero nuovi accertamenti peritali sulle tracce rinvenute sul coltello trovato in casa del Sollecito e sul gancetto del reggiseno della Kercher. Accertamenti che sollevarono forti dubbi sull’attendibilità delle rilevazioni fatte a suo tempo dalla Polizia scientifica.

La Procura generale di Perugia fece ricorso per cassazione contro la sentenza assolutoria.

La terza fase del giudizio si concluse il 26 marzo 2013 allorchè la prima sezione penale della Suprema Corte, accogliendo il ricorso dell’organo di accusa, decise l’annullamento della sentenza impugnata e la trasmissione degli atti alla Corte di Assise di Appello di Firenze per un nuovo giudizio.

I giudici fiorentini conclusero il loro lavoro il 30 gennaio 2014, operando un nuovo ed inverso ribaltamento rispetto ai loro omologhi perugini. Dichiararono infatti la colpevolezza del Sollecito e della Knox e condannarono il primo a 25 anni di reclusione, la seconda a 28 anni e 6 mesi.

I due imputati ricorsero per cassazione. Il 27 marzo 2015 la quinta sezione della Suprema Corte mise la parola fine al processo, annullando senza rinvio la condanna inflitta per omicidio e violenza sessuale ai due ricorrenti e confermando soltanto la responsabilità della Knox per la calunnia in danno del Lumumba.

E questo è quanto.

Non si aggiungerà nessun commento tecnico a questo resoconto. L’accusa e la difesa hanno svolto il loro ruolo, i giudici hanno deciso, le sentenze che sembravano sbagliate sono state impugnate e quindi devolute ai giudici dei gradi superiori i quali, a loro volta, hanno deciso secondo ciò che ritenevano conforme a giustizia.

Sarebbe perciò improprio e inutile qualsiasi commento sul merito della vicenda giudiziaria di per se sola considerata.

Non si darà conto perciò delle molteplici questioni processuali sollevate sull’attendibilità delle cosiddette prove scientifiche utilizzate nel processo, l’ortodossia dei metodi investigativi utilizzati dai responsabili delle indagini, i canoni di valutazione della prova seguiti nei vari giudizi. Tutto questo – lo si ribadisce – è ormai superato da una verità processuale intangibile e non c’è nient’altro da aggiungere.

Si citeranno invece nella parte conclusiva alcune delle considerazioni contenute nella sentenza finale della Corte di Cassazione. Non per le loro implicazioni tecniche, ovviamente, ma per offrire un importante argomento di comparazione tra le parole della giustizia e quelle dei tanti che hanno detto la loro sul processo.

La parola ai protagonisti del processo

- Le regole deontologiche

Come già anticipato, una delle singolarità del processo per l’omicidio Kercher è il modo in cui alcuni di coloro che vi hanno partecipato professionalmente hanno inteso il loro ruolo e la comunicazione ad esso connessa.

Nell’intento di rendere quanto più possibile oggettivo questo resoconto, si lascerà che siano gli stessi interessati a illustrare le proprie posizioni.

Per non lasciarli troppo soli, tuttavia, si premetteranno le regole deontologiche cui ciascuno di costoro è sottoposto nell’esercizio delle sue funzioni.

Si può cominciare dai magistrati, cui spetta di diritto il primo posto in quanto titolari di una funzione pubblica e componenti di uno dei tre poteri fondamentali dello Stato.

Da molti anni l’Associazione nazionale magistrati si è dotata di un codice etico per i suoi iscritti, il cui ultimo aggiornamento risale al 2010.

In virtù delle sue regole, tutti i magistrati, a prescindere dalla loro specifica funzione, sono tenuti a garantire la piena effettività dei diritti delle persone, ad essere disponibili verso gli utenti della giustizia e rispettarne la personalità e la dignità, ad utilizzare i mezzi, le dotazioni e le risorse dell’ufficio in modo da evitare sprechi, a non sollecitare la pubblicità di notizie attinenti la propria attività d’ufficio, ad ispirarsi a criteri di equilibrio e misura allorchè rilascino dichiarazioni ai mass media, ad agire con imparzialità e lealtà, a svolgere il proprio ruolo processuale con equilibrio e rispetto verso le altre parti, a perseguire esiti di giustizia col massimo scrupolo, soprattutto quando siano in questione la libertà e la reputazione delle persone.

I magistrati con funzioni giudicanti sono tenuti a comportarsi con riserbo e ascoltare attentamente le opinioni altrui in modo da sottoporre a continua verifica le proprie convinzioni e trarre dalla dialettica occasione di arricchimento.

I pubblici ministeri devono comportarsi con imparzialità, indirizzare le indagini alla ricerca della verità e acquisire anche gli elementi di prova a favore dell’indagato. Evitano di esprimere valutazioni sulle parti e sui terzi che siano inconferenti rispetto alle decisioni del giudice.

Anche le forze di polizia hanno un loro codice etico, per di più di rango sovranazionale essendo stato adottato dal Consiglio d’Europa nel settembre del 2001.

Tra gli obiettivi loro assegnati hanno un’importanza prioritaria la protezione e il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo e le libertà riconosciute dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In tema di indagini, la polizia deve attenersi rigorosamente al principio di presunzione di innocenza degli accusati, assicurare obiettività ed equità, garantire interrogatori corretti.

Le regole deontologiche proprie degli avvocati non sono meno severe. Sono infatti soggetti ad obblighi generali di indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, devono essere equilibrati e misurati nei rapporti con gli organi di informazione e leali e corretti nei rapporti con le altre parti processuali e i giudici.

- Il caso è chiuso, signori: l’attività della polizia giudiziaria

«Notizia giornalistica: Grave incidente d'auto: perde il braccio destro. La polizia indaga sul sinistro». 

Chiarite le coordinate deontologiche cui devono attenersi i protagonisti del processo penale, le si può adesso incrociare con ciò che hanno concretamente fatto e detto gli specifici protagonisti del processo Kercher.

Si comincia dalla polizia giudiziaria, giacchè il primo e più importante lavoro di ogni indagine è il suo ed è spesso dai suoi primi passi che dipende l’esito finale dei giudizi.

Su Il Sole 24 ore, edizione web del 6 novembre 2007, così esternava A. D. F., allora questore di Perugia: «Sono stati quattro giorni e quattro notti di indagini ininterrotte che hanno visto gli uomini della Squadra Mobile di Perugia, dello SCO, dell’ERT e della Polizia postale lavorare sinergicamente con uno spiegamento di forze e di mezzi … indagine sostanzialmente chiusa … particolare e attento riscontro degli elementi emersi, ora dopo ora, minuto dopo minuto … C’è amarezza per la morte di una giovane ragazza … C’è però anche soddisfazione per il lavoro svolto … Abbiamo sentito il peso della responsabilità nei confronti dei cittadini, che volevano una risposta certa e la volevano subito … tutti e tre hanno partecipato al fatto (il Questore si riferisce non solo alla Knox ed al Sollecito ma anche a Patrick Lumumba, che sarebbe stato scarcerato di lì a due settimane per assoluta mancanza di indizi)».

Nello stesso articolo si citava poi una dichiarazione di G.A., Ministro dell’Interno pro tempore, il quale affermava, riferendosi alla vittima, che «Delle persone amiche hanno tentato di forzarla a rapporti che non ha ritenuto di avere ed è stata uccisa».

Risultati di questo tipo non potevano ovviamente sfuggire all’attenzione delle alte sfere.

Ed è così che, come documentato dall’edizione web del 21 novembre 2011 de La Nazione - sezione Umbria, numerosi componenti della Squadra Mobile perugina ricevettero encomi e lodi perché «evidenziando elevate capacità professionali, acume investigativo e non comune determinazione operativa, conducevano una complessa indagine di polizia giudiziaria che si concludeva con l'arresto degli autori dell'omicidio di una studentessa inglese consumato nel centro storico di Perugia».

Il che dà ragione a Ennio Flaiano, convinto che da noi tutti amino correre in aiuto al vincitore.

C’è da pensare però che sia vero anche il contrario, che cioè piaccia ugualmente dare addosso al perdente.

Infatti, passata solo una settimana della sentenza assolutoria di secondo grado, il deputato M.T. presentò un’interrogazione (identificata dal numero 4.13544 e rintracciabile all’indirizzo web dati.camera.it) rivolta al Ministro dell’Interno per sapere se ritenesse opportuno annullare la «concessione delle ricompense già assegnate al personale dipendente dalla squadra mobile di Perugia, dalla polizia scientifica e dallo Sco per evidente negligenza nello svolgimento di indagini relative al caso di cui in premessa che si sono rilevate essere dichiaratamente fallaci». Non risulta che il Ministro abbia accolto la richiesta dell’interrogante.

Quando le analisi si fanno sofisticate: le intuizioni del Pubblico Ministero

«Il PM all’esperto: “Si ricorda a che ora ha cominciato l'autopsia? Esperto: Verso le 8: 30 del mattino. PM: E il signor Smith era già morto in quel momento? Esperto: No, stava seduto sul tavolo e si chiedeva come mai io gli stessi facendo un'autopsia».

È giusto adesso dare la parola alla pubblica accusa perché, come si vedrà, ha parecchie cose da dire.

È giusto iniziare dalle dichiarazioni canoniche, cioè quelle che qualsiasi Pubblico Ministero ha il diritto/dovere di fare perché comprese nelle sue funzioni.

G.M., rappresentante dell’accusa in entrambi i primi due gradi di giudizio, così punteggiò la sua requisitoria in appello: «[per Amanda Knox] era venuto il momento di vendicarsi di quella smorfiosac’è stata una discussione per soldi o forse perché Meredith era contrariata dalla presenza di Rudy.  A quel punto c’è stato il tentativo di coinvolgere Meredith in un pesante gioco sessuale … Amanda aveva il modo di vendicarsi di quella ragazza che stava solo con le amiche inglesi e la rimproverava per la mancanza di pulizia[Si tratta di] una vicenda unica nel suo genere nel panorama giudiziario italiano e mondiale e che ha interessato tre continenti … Non si possono però passare sotto silenzio gli attacchi che hanno accompagnato questo processo … fatti da soggetti italiani e di oltreoceano … Ma il processo si celebra solo in questa aula».

Già. Ma, pur lasciando ai lettori ogni giudizio sulla pregnanza di queste osservazioni, si ricorda che a distanza di minuti dalla sentenza assolutoria di secondo grado, G.M. accettò di parlare ai microfoni di SKY TG24 e affermò che si trattava di una decisione annunciata e fondata su errori clamorosi. Il video è disponibile all’indirizzo video.sky.it.

Basta? Macché. Il 28 maggio 2015, a processo ormai concluso, G.M., unitamente a due poliziotte della Squadra Mobile della Questura di Perugia, presentò una denuncia – querela alla Procura della Repubblica di Firenze (il testo dell’atto è facilmente rintracciabile sul web).

Il bersaglio di questa iniziativa era l’avvocato L.M., difensore del Sollecito, per via delle dichiarazioni che questi aveva rilasciato a un organo di stampa, gravemente critiche nei confronti dell’operato del Pubblico Ministero e della Polizia giudiziaria.

Interessano, come di consueto, non le considerazioni sui fatti di reato attribuiti al denunciato ma la concezione che i denuncianti mostrano di avere della giurisdizione e il grado di rispetto che esprimono verso le decisioni con cui questa si manifesta.

Ecco le parole chiave: «In sede di appello, la Corte di Assise d’Appello di Perugia, inspiegabilmente composta dal Presidente della Sezione Previdenziale e da un consigliere addetto alla Sezione civile … ha assolto i due [Sollecito e Knox] … Nel corso del processo sono stati nominati due periti che, tra l’altro, avevano redatto la perizia ignorando i documenti comprovanti l’esito negativo dei controlli sulla pretesa contaminazione del coltello e del gancetto, prodotti invece dalla Procura. Ciò avrebbe dovuto travolgere la perizia stessa ma la Corte … ha ignorato il grave errore commesso dai peritiLa Quinta Sezione della Suprema Corte, chiamata a decidere in merito ai ricorsi presentati dagli imputati contro la sentenza del giudice di rinvio, avrebbe dovuto considerare inammissibili i ricorsi … Non si può negare … che la decisione della Quinta Sezione sia una decisione non solo assolutamente imprevedibile e anomala ma che costituisce addirittura un unicum della giurisprudenza della Corte di legittimità».

Sicchè, nell’opinione di G.M. e delle altre denuncianti, dovevano essere considerate corrette le sentenze che avevano assecondato la tesi accusatoria mentre, per contro, erano clamorosamente sbagliate le decisioni di segno inverso, compresa quella definitiva del 2015.

Va da sé che i denuncianti non hanno mancato di attestare ripetutamente la linearità e la costante correttezza del loro operato professionale.

Si prende atto, come è giusto, della posizione di G.M.

Si osserva tuttavia, per completezza informativa, che la Procura di Firenze ha chiesto l’archiviazione della denuncia alla quale gli esponenti si sono opposti.

Si ricorda inoltre che il 4 dicembre 2015 il Consiglio Superiore della Magistratura ha inflitto a G.M. la sanzione della censura per avere negato al Sollecito, mentre si trovava in stato di fermo, di avere colloqui col suo difensore. La sanzione non riguardò il diniego in sé ma il fatto che questo fu espresso oralmente, in palese violazione delle norme che prescrivono invece un decreto motivato e la sua consegna agli aventi diritto (fonte: Ansa.it sezione Puglia, 4 dicembre 2015).

C’è di più. Nel corso della loro requisitoria nel processo di primo grado G.M. e la sua collega M.C. fecero proiettare in aula un filmato tridimensionale che riproduceva le modalità dell’assassinio della Kercher secondo la ricostruzione accusatoria.

Al di là del fatto che si trattava di un’iniziativa che le difese appresero in aula, risultò che la produzione del filmato, commissionata a privati, era costata circa 183.000 €.

Per questa ragione, M.C., che aveva disposto il pagamento di tale importo, fu sottoposta a procedimento disciplinare che tuttavia, nonostante la richiesta di irrogazione di una sanzione da parte dell’accusa, si concluse con l’esclusione di ogni addebito (fonte: Umbria24, edizione web del 6 dicembre 2013).

Anche la Corte dei Conti, più precisamente la Procura regionale dell’Umbria, iniziò una procedura di incolpazione per danno erariale nei confronti di G.M. sulla base del medesimo presupposto. Non risulta che all’iniziativa sia seguita alcuna condanna.

Deve essere adesso menzionato un dato di notevole rilievo.

Amanda Knox, ritenendo di avere subito gravi violazioni dei suoi diritti umani durante il procedimento in suo danno, ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo, custode e interprete delle libertà e dei diritti tutelati dalla Convenzione europea per i diritti umani. In particolare la Knox ha lamentato di essere stata maltrattata durante gli interrogatori e di avere subito un processo iniquo.

A maggio di quest’anno si è avuta notizia che la Corte di Strasburgo ha dichiarato ammissibile il ricorso (dato estremamente significativo se si considera che solo una percentuale minima dei ricorsi presentati supera il rigoroso filtro preliminare) e ha invitato il Governo italiano a presentare le sue controdeduzioni e difese. Si vedrà ma certo non è un segnale rassicurante per il nostro Stato (fonte: Il fatto quotidiano, sezione Giustizia e impunità, edizione web del 17 maggio 2016).

Pochi mesi prima, precisamente a metà gennaio del 2016, il Tribunale di Firenze, chiamato a giudicare la Knox in quanto accusata di calunnia nei confronti di alcuni investigatori cui aveva attribuito di essere stata forzata ad accusare Patrick Lumumba di essere il responsabile dell’omicidio, ha assolto la statunitense.

Nella motivazione, pubblicata a distanza di qualche mese, il giudice ha usato queste argomentazioni: «[Nella notte tra il 5 e il 6 novembre 2007] la condizione psicologica della ragazza era divenuta per lei un peso davvero insopportabile … In questo contesto è comprensibile che Amanda, cedendo alla pressione e alla stanchezza, abbia sperato di mettere fine a quella situazione, dando agli investigatori ciò che in fondo volevano sentirsi dire: un nome, un assassino». Il giudice ha poi parlato di «verbali inaffidabili» della Questura, «scelte inopportune degli interpreti, appartenenti alla stessa questura di Perugia» e «metodo apparentemente edulcorato  adottato dagli investigatori e dai loro ausiliari». Ha quindi osservato che «In un contesto professionale del genere probabilmente non ci si è resi conto che l’unico attento approccio richiesto verso la Knox, anzi, imposto, doveva essere quello di informare l’indagata dei suoi diritti di difesa, dichiarati inviolabili, non a caso, dalla nostra Costituzione. Ciò per l’evidente e scolastico motivo che si trattava di soggetto che doveva essere posto nelle condizioni di difendere la propria libertà personale a fronte del potere autoritativo dello Stato … Era richiesto solo il rispetto delle regole che governano le indagini ma tali limiti sono stati travalicati determinando contaminazioni delle procedure che hanno portato  alla loro invalidità ». E invece, scrive ancora l’estensore, «Oltre al mancato rispetto della procedura relativa all’assunzione di informazioni da soggetto già indiziato manca in tutti i verbali l’orario di chiusura … E’ stata omessa anche la circostanza relativa al telefono di Amanda, esaminato senza un formale provvedimento di sequestro. Tutti i verbali e le dichiarazioni spontanee rese al pm sono molto brevi a fronte di attività durate ore in alcuni casi; tale approssimazione ha finito inevitabilmente per non rappresentare fedelmente l’attività svolta nei suoi dettagli» (fonte: Umbria24, cronaca, edizione del 9 aprile 2016).

Resta infine da ricordare un ultimo profilo, più umano che professionale per la verità.

Si tratta di una vicenda a margine del giudizio ma qui non si vuole compiere l’errore piuttosto abituale di ignorare i cosiddetti danni collaterali, perchè anch’essi servono per una maggiore consapevolezza.

C. P. H. era il presidente della Corte di Assise di Appello di Perugia che assolse il Sollecito e la Knox. Pochi mesi dopo la sentenza si dimise dalla magistratura. Spiegò così (a Repubblica.it cronaca, edizione del 30 marzo 2015) le ragioni del suo gesto: «Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un'ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l'inchiesta, avevano avallato l'accusa. In più ero in predicato per la presidenza del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne».

Una testimonianza interessante che è giusto mettere agli atti.

- Un’ora in più di vita: la parola ai difensori

«Domattina alle sei sarò giustiziato per un crimine che non ho commesso. Dovevo essere giustiziato alle cinque ma ho un avvocato in gamba» (Woody Allen).

A cosa si sono affidati quei difensori che hanno spuntato ben più di un’ora di vita per Amanda Knox e Raffaele Sollecito? Hanno evitato la bagarre o ci si sono tuffati anch’essi?

Da questa parte della barricata – è giusto riconoscerlo – c’è stato un atteggiamento di maggiore ossequio alle regole del fair play che deve governare le relazioni tra le parti processuali, tra queste e i giudici, tra queste e la giurisdizione nel suo complesso.

Così, ad esempio, con aplomb britannico, si è espressa G.B., difensore del Sollecito, dopo l’emissione della sentenza della Corte di Assise di Appello di Firenze: «Io non parlo e non parlerò mai di accanimento quando c’è una sentenza perché rispetto la giustizia e le sentenze».

Ben più polemica la posizione assunta da L.M., anch’egli difensore del Sollecito, nel corso di un’intervista in cui ha spaziato sul senso generale del procedimento e le modalità con cui è stato condotto. Le sue dichiarazioni, come si è visto, hanno indignato il Pubblico Ministero G. M. inducendolo a presentare una denuncia – querela.

È interessante la posizione assunta dalla Camera penale (cioè l’organismo che riunisce gli avvocati penalisti di un determinato foro) di Perugia la quale, pur riconoscendo l’elevata vis polemica delle dichiarazioni del suo iscritto, ha ritenuto che «L’attività del difensore si è dovuta dispiegare necessariamente e doverosamente anche in ambito mediatico. L’intervista rientra certamente nell’ambito delle prerogative difensive».

Il che è come dire che, se un processo ha un forte rilievo mediatico e se le controparti processuali si muovono in modo apodittico o comunque censurabile, la difesa ha il diritto di alzare anch’essa il tiro e di adottare ogni strategia adeguata per difendersi dagli abusi subiti.

Non si commenta, come d’abitudine, ma si prende comunque atto che la Camera penale perugina ha attribuito al ruolo e ai doveri difensivi una latitudine ben più ampia di quanto si è propensi a considerare normale.

- In piedi, entra la Corte: la parola al giudice

«Cercavi giustizia ma trovasti la legge» (Francesco De Gregori, Il bandito e il campione).

Una rassegna come quella in corso non sarebbe completa se non prendesse in considerazione anche i giudici. Sì, proprio loro, i funzionari pubblici che lo Stato retribuisce per decidere le controversie giudiziarie loro assegnate.

Come debba comportarsi un giudice, lo si è visto prima quando è stato citato il codice deontologico della magistratura associata. Si diceva una volta che i giudici potevano comunicare con l’esterno solo attraverso sentenze, ordinanze e decreti, cioè unicamente attraverso gli atti tipici della loro funzione giurisdizionale.

Vediamo. È l’1 febbraio 2014, cioè il giorno dopo l’emissione della sentenza della Corte di Assise di Appello di Firenze che ha condannato Knox e Sollecito.

A. N., presidente di quella Corte, rilascia un’intervista (fonte: Corriere.it, edizione web dell’1.2.2014), sul processo. Questi i passaggi più significativi: «Mi sento liberato perché il momento della decisione è il più difficile. Ho anche io dei figli e infliggere condanne da 25 e 28 anni a due ragazzi è una cosa emotivamente molto forte». Il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze … è consapevole che «la sentenza aprirà un nuovo dibattito, soprattutto mediatico», ma proprio per questo accetta di spiegare come si è arrivati al verdetto. Perché avete deciso di non interrogare Guede? «A che pro? Lui non ha mai confessato e anche se l’avessimo convocato aveva la facoltà di non dire nulla. Non l’abbiamo ritenuto necessario. Invece ci sembrava importante approfondire altri aspetti e infatti abbiamo disposto una perizia e ascoltato i testimoni sui quali c’erano dubbi. È il ruolo dei giudici di appello. In quattro mesi siamo riusciti ad arrivare alla definizione».I legali di Sollecito vi avevano chiesto di separare le posizioni.«Motiveremo in maniera approfondita sul punto spiegando perché non abbiamo ritenuto di accogliere questa impostazione. In ogni caso Sollecito ha deciso di non farsi mai interrogare nel processo».E questo ha influito sulla scelta di condannarlo? «È un diritto dell’imputato, ma certamente priva il processo di una voce. Lui si è limitato a dichiarazioni spontanee, ha detto soltanto quello che voleva senza sottoporsi al contradditorio». Negli anni sono stati ipotizzati moventi diversi. Voi che idea vi siete fatti? «Abbiamo una convinzione e la espliciteremo nella sentenza. Al momento posso dire che fino alle 20,15 di quella sera i ragazzi avevano programmi diversi, poi gli impegni sono saltati e si è creata l’occasione. Se Amanda fosse andata al lavoro probabilmente non saremmo qui».  Vuol dire che l’omicidio è stata solo una casualità? «Voglio dire che è stata una cosa tra ragazzi, ci sono state coincidenze e su questo abbiamo sviluppato un ragionamento. Sono consapevole che sarà la parte più discutibile». Avete condannato Amanda Knox ma non avete emesso alcuna misura cautelare nei suoi confronti. Perché? «È legittimo che lei sia negli Stati Uniti. Al momento del delitto era in Italia per motivi di studio ed è tornata a casa sua dopo essere stata assolta. Lei è una cittadina americana. Il problema si porrà qualora dovesse esserci la necessità di esecuzione della pena. Adesso non credo fosse necessario un provvedimento». E allora perché avete ritirato il passaporto di Raffaele Sollecito? «Era il minimo sindacale. In questi casi l’ordinanza serve a prevenire qualcosa e noi dovevamo evitare che si rendesse irreperibile in attesa del giudizio definitivo». E crede basti il divieto di espatrio? «Sì, ci è sembrato più che sufficiente. Se poi dovessero esserci sviluppi li valuteremo».

Queste le dichiarazioni del presidente A.N., a distanza di un solo giorno dalla sentenza e quando ancora la motivazione della decisione era ben al di là da venire.

L’intervista ha sconcertato e indignato i difensori del Sollecito al punto da indurli a presentare un esposto al Consiglio superiore della magistratura. Queste le loro motivazioni: «E' gravissimo, anzi inaccettabile che il presidente N. abbia commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva. Ci chiediamo innanzitutto se parla a nome di tutti i giurati e se la frase sul mancato interrogatorio di Raffaele Sollecito significa che, se avesse accusato Amanda Knox, sarebbe stato assolto. In ogni caso, ricordiamo a tutti che ai magistrati compete il potere di giudicare, non quello di intromettersi nelle scelte della difesa e di commentarle pubblicamente».

È stato di seguito aperto un procedimento disciplinare nei confronti di A.N. che si è concluso con l’archiviazione. Nondimeno, l’organo di autogoverno della magistratura ha rilevato l’inopportunità delle dichiarazioni in quanto rilasciate prima della pubblicazione della motivazione. Gli atti del procedimento sono stati inoltre trasmessi alla Commissione per gli incarichi direttivi del CSM, evidentemente allo scopo di tenerne conto per l’ipotesi che A.N. si candidasse a dirigere un ufficio giudiziario.

E si può dire che è tutto.

La sentenza finale: le parole della Cassazione

«Se sei capace di tremare d’indignazione ogni qualvolta si commette un’ingiustizia, allora siamo compagni» (Ernesto “Che” Guevara).

A distanza di sette anni e mezzo dal fatto, la Suprema Corte ha emesso la sentenza definitiva, affermando quella che chiunque e per sempre dovrà considerare la verità processuale.

Nella sua interezza il documento è composto da 52 pagine. Tolte le 18 iniziali, servite per l’intestazione e il riepilogo dei motivi di ricorso, ne restano 34.

Fa un po’ impressione. Processi su processi, centinaia di faldoni di carte, sono stati alla fine condensati in uno spazio così ridotto. Ognuno può farsi l’opinione che vuole, naturalmente. Qui però piace immaginare che questa sobrietà espressiva abbia avuto la sua importanza nella motivazione complessiva. Come se la Cassazione abbia voluto dire che la verità non sta nelle sovrastrutture ma nei fatti nudi e scarni, purchè verificati nel più rigoroso rispetto delle regole processuali e valutati secondo razionalità.

Certo, la sobrietà esponeva al rischio della povertà argomentativa. Ma non è stato così poiché in quelle 34 pagine c’è tutto ciò che andava detto.

E adesso, la parola ai giudici supremi: «Non può, intanto sfuggire … che la storia di questo processo è caratterizzata da un percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio … Un iter oggettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillances o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività d’indagine che, ove poste in essere, avrebbero, con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza, vuoi dell’estraneità degli odierni ricorrenti … un inusitato clamore mediatico della vicenda, dovuto non solo alle drammatiche modalità della morte di una ventiduenne, tanto assurda e incomprensibile nella sua genesi, ma anche alla nazionalità delle persone coinvolte … e dunque ai riflessi “internazionali” della stessa vicenda, ha fatto sì che le indagini subissero un’improvvisa accelerazione che, nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità[da qui in avanti la motivazione si sofferma sui profili del merito] nessuna delle possibili causali del ventaglio di soluzioni indicate dalla stessa sentenza rescindente si è potuta accertare nel presente giudizio … l’ipotesi di gioco erotico di gruppo non ha trovato riscontri di sorta … Altro errore di giudizio risiede nella ritenuta irrilevanza dell’accertamento dell’ora esatta della morte della Kercher … Orbene, anche sul punto è dato registrare un deprecabile pressapochismo della fase delle indagini preliminari. Basti considerare, al riguardo, che i rilievi della polizia giudiziaria avevano proposto una banale media aritmetica tra un possibile termine iniziale ed un possibile termine finale … Si tratta … di accertare quale valenza processuale possano assumere gli esiti dell’indagine genetica svolta in un contesto di accertamenti e rilievi assai poco rispettosi delle regole consacrati da protocolli internazionali … Nel caso di specie, è certo che quelle regole metodologiche non sono state assolutamente osservate … Basti considerare, al riguardo, le modalità di reperimento, repertazione e conservazione dei due oggetti di maggiore interesse investigativo: il coltello da cucina e il gancetto di chiusura del reggiseno della vittima in ordine ai quali non si è esitato in sentenza a qualificare l’operato degli inquirenti in termini di caduta di professionalità. Il coltellaccio o coltello da cucina … è stato repertato e custodito in una comune scatola di cartone … Più singolare – ed inquietante – è la sorte del gancetto del reggiseno. Notato nel corso del primo sopralluogo dalla polizia scientifica, l’oggetto è stato trascurato e lasciato lì, sul pavimento, per diverso tempo (46 giorni), sino a quando, nel corso di nuovo accesso, è stato finalmente raccolto e repertato. È certo che, nell’arco temporale intercorrente tra il sopralluogo in cui venne notato e quello in cui fu repertato, vi furono altri accessi degli inquirenti, che rovistarono ovunque … Il gancetto fu forse calpestato o, comunque, spostato, (tanto da essere rivenuto sul pavimento in posto diverso da quello in cui era stato inizialmente notato).  Non solo, ma la documentazione fotografica prodotta dalla difesa di Sollecito dimostra che, all’atto della repertazione, il gancetto veniva passato di mano in mano degli operanti che, peraltro, indossavano guanti di lattice sporchi … Un dato processuale di incontrovertibile valenza è rappresentato dall’assoluta mancanza, nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima di tracce biologiche con certezza riferibili ai due imputati laddove, invece, sono state rinvenute copiose tracce sicuramente riferibili al Guede … Con riferimento alle asserite tracce ematiche negli altri ambienti, segnatamente nel corridoio, vi è poi un evidente travisamento di prova. Ed invero, i s.a.l. (stati avanzamento lavori) della polizia scientifica avevano escluso … che, negli ambienti considerati, le tracce … avessero natura ematica … È poi palesemente illogico – oltre che poco rispettoso della realtà processuale – ricostruire il movente dell’omicidio sulla base di pretesi dissapori tra la Kercher e la Knox … ».

La sentenza qui commentata offre molti altri spunti ma dovrebbero già bastare quelli elencati.

La Corte di Cassazione registra un vero e proprio disastro investigativo e valutativo. Segnala investigazioni volte a cercare un colpevole quale che fosse per dare segnali rassicuranti all’opinione pubblica, l’acquisizione di elementi di prova fatta in totale spregio delle regole processuali e scientifiche, l’uso di canoni valutativi assai poco meditati e ancora prima il travisamento del significato di prove decisive. Denuncia omissioni e cadute di professionalità.

Che dire? Desta non poco timore che in un qualunque processo possano verificarsi, tutte insieme, nefandezze di questa portata. Non è ciò che ci si aspetta dalla giurisdizione, non è quello che prescrive l’articolo 111 della Costituzione.

Consola un poco che i nostri giudici di ultima istanza abbiano saputo liberarsi del rumore assordante creato attorno alla morte di Meredith Kercher e abbiano guardato in faccia la realtà per ciò che era. Ma, subito dopo, si pensa ai tanti casi in cui, per difficoltà di certo oggettive, la Cassazione potrebbe non essere in grado di svolgere il suo altissimo compito di ultimo difensore della verità, non avere il tempo e il modo di prestare la dovuta attenzione, essere sopraffatta dalle tante parole che si depositano le une sulle altre fino a comporre un’incomprensibile Babele.

Luci e ombre, come quasi sempre accade nell’esperienza umana. Ma almeno, per una volta, c’è chi ha saputo accendere le prime e dissipare le altre.

Perché questo scritto e questa vicenda

Cos’è la giurisdizione? Quali i suoi luoghi, le sue regole, i suoi fini?

Che ruolo hanno le parti e il giudice, quali interessi servono, quali i loro limiti?

Quanto conta l’opinione pubblica, come deve essere informata, chi deve informarla?

Che peso ha chi sta fuori del processo?

Può essere che una decisione sia presa anche in base a quanto accade fuori delle aule di giustizia?

Tante domande, forse incomplete, probabilmente senza risposta.

Ma se anche così fosse, non sarebbe un fallimento. Le domande sono segno di curiosità e interesse, consentono il confronto: non è sbagliato dire che si giustificano da se stesse.

Non serve quindi alcuna speciale legittimazione o competenza per chiedersi come funzioni oggi la giustizia, se vi sia una tendenza alla sua spettacolarizzazione, se coloro che l’amministrano indulgano talvolta a voglie di protagonismo, se i suoi riti e il suo contenuto siano divenuti campo di interesse voyeuristico, se le attività e le decisioni che vi si prendono risentano talvolta di influenze e interessi diversi da quelli canonici.

Giustificato così questo scritto, si può subito presentarne l’oggetto, vale a dire la travagliata storia delle indagini e del processo per l’uccisione di Meredith Kercher.

La realtà offre numerose occasioni più che adeguate per l’analisi che si vuole compiere.

Eppure questa vicenda ha una forza attrattiva speciale che porta a preferirla tra le altre.

Il fatto in sé, anzitutto: il contesto universitario, l’interazione di individui di diverse nazionalità, etnie e culture, lo sfondo scabroso, l’efferatezza del gesto criminale, l’uso massivo di tecniche investigative di tipo scientifico e quindi l’intervento di vari esperti specializzati.

E poi l’intensa personalizzazione impressa alle indagini e al giudizio da parti processuali fortemente assertive e convinte della propria verità.

Il seguito mediatico: grande interesse di stampa e televisione, sia in Italia che all’estero, alimentato da interventi e dichiarazioni delle parti, esaltato da dibattiti e ricostruzioni di ogni genere, accompagnato dalla pubblicazione di pamphlet, instant book e quant’altro.

Gli interessi esterni: non solo l’opinione pubblica ma anche autorità pubbliche e vari Stati stranieri pronti a proteggere i loro cittadini coinvolti nel processo e a sollecitare esiti giudiziari conformi alle loro aspettative.

Un evento simbolico, spettacolare, a forte partecipazione pubblica, la cui parte strettamente giudiziaria è stata in più di un caso sopravanzata o addirittura sopraffatta dal circuito mediatico che se ne è servito in modo cannibalesco per alimentare se stesso.

Ognuno dei profili elencati meriterebbe un’autonoma considerazione perché tutti sono capaci di incidere profondamente sull’amministrazione della giustizia e sul modo in cui questa viene percepita.

Qui però ci si accontenta di far parlare le parole, quelle pronunciate dai protagonisti del processo.

Si aggiungerà poi qualche fatto di cronaca collaterale, così che i lettori abbiano gli strumenti per decidere se quelle parole fossero davvero ciò che apparivano oppure strumenti al servizio di ego ipertrofici.

Ancora due cose prima di concludere l’introduzione.

Il resoconto che segue potrebbe dare l’impressione che le uniche voci mancanti siano quella della vittima, Meredith Kercher, e di coloro che nel processo hanno chiesto giustizia in suo nome.

Sì, è così. Ma non è una dimenticanza. È una scelta voluta e, in certo qual modo, imposta. Perché, a torto o ragione, è sembrato che le dinamiche comunicative scelte almeno da alcuni dei protagonisti del processo, pur abbondando di riferimenti alla “povera vittima”, fossero in realtà autoreferenziali e servissero a esaltare visibilità individuali piuttosto che ansia di giustizia. E allora, paradossalmente, l’assenza della Kercher e della sua cerchia in questo scritto vuole essere il modo per richiamare l’attenzione su di lei.

Infine: come correttezza vuole, quasi tutte le persone menzionate sono state indicate con le iniziali del loro nome e cognome. Sarebbe stato giusto fare lo stesso anche per gli imputati ma la clamorosa risonanza del caso giudiziario renderebbe inutile qualunque precauzione protettiva. Dispiace, ma non era davvero possibile fare altrimenti. Purtroppo per loro, il tempo dell’oblio non è ancora arrivato.

I fatti e il processo

A Perugia, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 2007, fu assassinata Meredith Kercher, studentessa britannica di 21 anni. La vittima frequentava il programma Erasmus e abitava da poco in un appartamento condiviso con due ragazze italiane e la statunitense Amanda Knox, all’epoca dei fatti legata sentimentalmente allo studente Raffaele Sollecito.

Le investigazioni accertarono che la Kercher era stata strozzata e accoltellata nella stanza da letto della sua abitazione. La salma, trovata dalla coppia Sollecito – Knox, era stata avvolta in un piumone e risultavano sottratti telefoni cellulari, carte di credito e contanti della vittima.

Le primissime indagini condotte dalla Procura perugina portarono al ritrovamento di un coltello in casa del Sollecito, sulla cui lama venne identificato materiale genetico attribuito alla Kercher e sul cui manico altro materiale attribuito alla Knox. Sul gancetto del reggiseno della vittima furono trovate tracce genetiche attribuite al Sollecito. Sul cuscino trovato sotto il cadavere fu infine trovata un’impronta palmare che risultò appartenere a Rudy Guede, un cittadino della Costa d’Avorio anch’egli residente a Perugia.

Questa acquisizioni e le dichiarazioni, ritenute contraddittorie e reticenti del Sollecito e della Knox, portarono all’arresto dei due, di Rudi Guede e del cittadino congolese Patrick Lumumba, residente da tempo in città e titolare del pub ove lavorava la studentessa americana, accusato proprio da quest’ultima di essere l’omicida della Kercher.

Il Guede fu catturato il 20 novembre mentre si trovava in territorio tedesco. Lo stesso giorno venne invece scarcerato, per sopravvenuta mancanza di indizi, Patrick Lumumba la cui posizione sarebbe stata definitivamente archiviata l’anno successivo.

A conclusione della fase istruttoria, la Procura perugina chiese e ottenne il rinvio a giudizio del Sollecito, della Knox e del Guede con l’accusa di concorso nell’omicidio della Kercher, di violenza sessuale in suo danno e di furto. Alla sola Knox venne anche contestata l’accusa di calunnia in danno del Lumumba.

La contestazione di violenza sessuale fu motivata in particolare da una ricostruzione secondo la quale l’omicidio era stato occasionato dal rifiuto della vittima di sottostare a una sorta di violento gioco sessuale voluto dagli indagati.

Rudy Guede chiese di essere giudicato con rito abbreviato e la sua colpevolezza, decretata in tutti i gradi di giudizio, gli costò la condanna definitiva a 16 anni di reclusione.

La Knox e il Sollecito vollero invece essere giudicati nelle forme ordinarie.

Il dibattimento di primo grado, celebrato dalla Corte di Assise di Perugia, si concluse il 4 dicembre 2009 con il sostanziale riconoscimento della tesi accusatoria. I due imputati vennero giudicati colpevoli e condannati l’uno a 25 anni di reclusione, l’altra a 26 anni in quanto responsabile anche del delitto di calunnia.

Entrambi gli accusati appellarono la sentenza di primo grado. Lo stesso fece il PM perugino allo scopo di ottenere la condanna degli accusati alla pena dell’ergastolo.

Il secondo giudizio, svoltosi dinanzi la Corte di Assise di Appello di Perugia, si concluse il 3 ottobre 2011 con una sentenza che, ribaltando la prima decisione, assolse entrambi gli appellanti dalle accuse di omicidio e violenza sessuale per non avere commesso il fatto. Fu invece confermata la condanna della Knox per il reato di calunnia la cui pena fu fissata in tre anni di reclusione.

Vale la pena ricordare che i giudici di appello accolsero varie richieste istruttorie difensive ed in particolare ammisero nuovi accertamenti peritali sulle tracce rinvenute sul coltello trovato in casa del Sollecito e sul gancetto del reggiseno della Kercher. Accertamenti che sollevarono forti dubbi sull’attendibilità delle rilevazioni fatte a suo tempo dalla Polizia scientifica.

La Procura generale di Perugia fece ricorso per cassazione contro la sentenza assolutoria.

La terza fase del giudizio si concluse il 26 marzo 2013 allorchè la prima sezione penale della Suprema Corte, accogliendo il ricorso dell’organo di accusa, decise l’annullamento della sentenza impugnata e la trasmissione degli atti alla Corte di Assise di Appello di Firenze per un nuovo giudizio.

I giudici fiorentini conclusero il loro lavoro il 30 gennaio 2014, operando un nuovo ed inverso ribaltamento rispetto ai loro omologhi perugini. Dichiararono infatti la colpevolezza del Sollecito e della Knox e condannarono il primo a 25 anni di reclusione, la seconda a 28 anni e 6 mesi.

I due imputati ricorsero per cassazione. Il 27 marzo 2015 la quinta sezione della Suprema Corte mise la parola fine al processo, annullando senza rinvio la condanna inflitta per omicidio e violenza sessuale ai due ricorrenti e confermando soltanto la responsabilità della Knox per la calunnia in danno del Lumumba.

E questo è quanto.

Non si aggiungerà nessun commento tecnico a questo resoconto. L’accusa e la difesa hanno svolto il loro ruolo, i giudici hanno deciso, le sentenze che sembravano sbagliate sono state impugnate e quindi devolute ai giudici dei gradi superiori i quali, a loro volta, hanno deciso secondo ciò che ritenevano conforme a giustizia.

Sarebbe perciò improprio e inutile qualsiasi commento sul merito della vicenda giudiziaria di per se sola considerata.

Non si darà conto perciò delle molteplici questioni processuali sollevate sull’attendibilità delle cosiddette prove scientifiche utilizzate nel processo, l’ortodossia dei metodi investigativi utilizzati dai responsabili delle indagini, i canoni di valutazione della prova seguiti nei vari giudizi. Tutto questo – lo si ribadisce – è ormai superato da una verità processuale intangibile e non c’è nient’altro da aggiungere.

Si citeranno invece nella parte conclusiva alcune delle considerazioni contenute nella sentenza finale della Corte di Cassazione. Non per le loro implicazioni tecniche, ovviamente, ma per offrire un importante argomento di comparazione tra le parole della giustizia e quelle dei tanti che hanno detto la loro sul processo.

La parola ai protagonisti del processo

- Le regole deontologiche

Come già anticipato, una delle singolarità del processo per l’omicidio Kercher è il modo in cui alcuni di coloro che vi hanno partecipato professionalmente hanno inteso il loro ruolo e la comunicazione ad esso connessa.

Nell’intento di rendere quanto più possibile oggettivo questo resoconto, si lascerà che siano gli stessi interessati a illustrare le proprie posizioni.

Per non lasciarli troppo soli, tuttavia, si premetteranno le regole deontologiche cui ciascuno di costoro è sottoposto nell’esercizio delle sue funzioni.

Si può cominciare dai magistrati, cui spetta di diritto il primo posto in quanto titolari di una funzione pubblica e componenti di uno dei tre poteri fondamentali dello Stato.

Da molti anni l’Associazione nazionale magistrati si è dotata di un codice etico per i suoi iscritti, il cui ultimo aggiornamento risale al 2010.

In virtù delle sue regole, tutti i magistrati, a prescindere dalla loro specifica funzione, sono tenuti a garantire la piena effettività dei diritti delle persone, ad essere disponibili verso gli utenti della giustizia e rispettarne la personalità e la dignità, ad utilizzare i mezzi, le dotazioni e le risorse dell’ufficio in modo da evitare sprechi, a non sollecitare la pubblicità di notizie attinenti la propria attività d’ufficio, ad ispirarsi a criteri di equilibrio e misura allorchè rilascino dichiarazioni ai mass media, ad agire con imparzialità e lealtà, a svolgere il proprio ruolo processuale con equilibrio e rispetto verso le altre parti, a perseguire esiti di giustizia col massimo scrupolo, soprattutto quando siano in questione la libertà e la reputazione delle persone.

I magistrati con funzioni giudicanti sono tenuti a comportarsi con riserbo e ascoltare attentamente le opinioni altrui in modo da sottoporre a continua verifica le proprie convinzioni e trarre dalla dialettica occasione di arricchimento.

I pubblici ministeri devono comportarsi con imparzialità, indirizzare le indagini alla ricerca della verità e acquisire anche gli elementi di prova a favore dell’indagato. Evitano di esprimere valutazioni sulle parti e sui terzi che siano inconferenti rispetto alle decisioni del giudice.

Anche le forze di polizia hanno un loro codice etico, per di più di rango sovranazionale essendo stato adottato dal Consiglio d’Europa nel settembre del 2001.

Tra gli obiettivi loro assegnati hanno un’importanza prioritaria la protezione e il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo e le libertà riconosciute dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In tema di indagini, la polizia deve attenersi rigorosamente al principio di presunzione di innocenza degli accusati, assicurare obiettività ed equità, garantire interrogatori corretti.

Le regole deontologiche proprie degli avvocati non sono meno severe. Sono infatti soggetti ad obblighi generali di indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, devono essere equilibrati e misurati nei rapporti con gli organi di informazione e leali e corretti nei rapporti con le altre parti processuali e i giudici.

- Il caso è chiuso, signori: l’attività della polizia giudiziaria

«Notizia giornalistica: Grave incidente d'auto: perde il braccio destro. La polizia indaga sul sinistro». 

Chiarite le coordinate deontologiche cui devono attenersi i protagonisti del processo penale, le si può adesso incrociare con ciò che hanno concretamente fatto e detto gli specifici protagonisti del processo Kercher.

Si comincia dalla polizia giudiziaria, giacchè il primo e più importante lavoro di ogni indagine è il suo ed è spesso dai suoi primi passi che dipende l’esito finale dei giudizi.

Su Il Sole 24 ore, edizione web del 6 novembre 2007, così esternava A. D. F., allora questore di Perugia: «Sono stati quattro giorni e quattro notti di indagini ininterrotte che hanno visto gli uomini della Squadra Mobile di Perugia, dello SCO, dell’ERT e della Polizia postale lavorare sinergicamente con uno spiegamento di forze e di mezzi … indagine sostanzialmente chiusa … particolare e attento riscontro degli elementi emersi, ora dopo ora, minuto dopo minuto … C’è amarezza per la morte di una giovane ragazza … C’è però anche soddisfazione per il lavoro svolto … Abbiamo sentito il peso della responsabilità nei confronti dei cittadini, che volevano una risposta certa e la volevano subito … tutti e tre hanno partecipato al fatto (il Questore si riferisce non solo alla Knox ed al Sollecito ma anche a Patrick Lumumba, che sarebbe stato scarcerato di lì a due settimane per assoluta mancanza di indizi)».

Nello stesso articolo si citava poi una dichiarazione di G.A., Ministro dell’Interno pro tempore, il quale affermava, riferendosi alla vittima, che «Delle persone amiche hanno tentato di forzarla a rapporti che non ha ritenuto di avere ed è stata uccisa».

Risultati di questo tipo non potevano ovviamente sfuggire all’attenzione delle alte sfere.

Ed è così che, come documentato dall’edizione web del 21 novembre 2011 de La Nazione - sezione Umbria, numerosi componenti della Squadra Mobile perugina ricevettero encomi e lodi perché «evidenziando elevate capacità professionali, acume investigativo e non comune determinazione operativa, conducevano una complessa indagine di polizia giudiziaria che si concludeva con l'arresto degli autori dell'omicidio di una studentessa inglese consumato nel centro storico di Perugia».

Il che dà ragione a Ennio Flaiano, convinto che da noi tutti amino correre in aiuto al vincitore.

C’è da pensare però che sia vero anche il contrario, che cioè piaccia ugualmente dare addosso al perdente.

Infatti, passata solo una settimana della sentenza assolutoria di secondo grado, il deputato M.T. presentò un’interrogazione (identificata dal numero 4.13544 e rintracciabile all’indirizzo web dati.camera.it) rivolta al Ministro dell’Interno per sapere se ritenesse opportuno annullare la «concessione delle ricompense già assegnate al personale dipendente dalla squadra mobile di Perugia, dalla polizia scientifica e dallo Sco per evidente negligenza nello svolgimento di indagini relative al caso di cui in premessa che si sono rilevate essere dichiaratamente fallaci». Non risulta che il Ministro abbia accolto la richiesta dell’interrogante.

Quando le analisi si fanno sofisticate: le intuizioni del Pubblico Ministero

«Il PM all’esperto: “Si ricorda a che ora ha cominciato l'autopsia? Esperto: Verso le 8: 30 del mattino. PM: E il signor Smith era già morto in quel momento? Esperto: No, stava seduto sul tavolo e si chiedeva come mai io gli stessi facendo un'autopsia».

È giusto adesso dare la parola alla pubblica accusa perché, come si vedrà, ha parecchie cose da dire.

È giusto iniziare dalle dichiarazioni canoniche, cioè quelle che qualsiasi Pubblico Ministero ha il diritto/dovere di fare perché comprese nelle sue funzioni.

G.M., rappresentante dell’accusa in entrambi i primi due gradi di giudizio, così punteggiò la sua requisitoria in appello: «[per Amanda Knox] era venuto il momento di vendicarsi di quella smorfiosac’è stata una discussione per soldi o forse perché Meredith era contrariata dalla presenza di Rudy.  A quel punto c’è stato il tentativo di coinvolgere Meredith in un pesante gioco sessuale … Amanda aveva il modo di vendicarsi di quella ragazza che stava solo con le amiche inglesi e la rimproverava per la mancanza di pulizia[Si tratta di] una vicenda unica nel suo genere nel panorama giudiziario italiano e mondiale e che ha interessato tre continenti … Non si possono però passare sotto silenzio gli attacchi che hanno accompagnato questo processo … fatti da soggetti italiani e di oltreoceano … Ma il processo si celebra solo in questa aula».

Già. Ma, pur lasciando ai lettori ogni giudizio sulla pregnanza di queste osservazioni, si ricorda che a distanza di minuti dalla sentenza assolutoria di secondo grado, G.M. accettò di parlare ai microfoni di SKY TG24 e affermò che si trattava di una decisione annunciata e fondata su errori clamorosi. Il video è disponibile all’indirizzo video.sky.it.

Basta? Macché. Il 28 maggio 2015, a processo ormai concluso, G.M., unitamente a due poliziotte della Squadra Mobile della Questura di Perugia, presentò una denuncia – querela alla Procura della Repubblica di Firenze (il testo dell’atto è facilmente rintracciabile sul web).

Il bersaglio di questa iniziativa era l’avvocato L.M., difensore del Sollecito, per via delle dichiarazioni che questi aveva rilasciato a un organo di stampa, gravemente critiche nei confronti dell’operato del Pubblico Ministero e della Polizia giudiziaria.

Interessano, come di consueto, non le considerazioni sui fatti di reato attribuiti al denunciato ma la concezione che i denuncianti mostrano di avere della giurisdizione e il grado di rispetto che esprimono verso le decisioni con cui questa si manifesta.

Ecco le parole chiave: «In sede di appello, la Corte di Assise d’Appello di Perugia, inspiegabilmente composta dal Presidente della Sezione Previdenziale e da un consigliere addetto alla Sezione civile … ha assolto i due [Sollecito e Knox] … Nel corso del processo sono stati nominati due periti che, tra l’altro, avevano redatto la perizia ignorando i documenti comprovanti l’esito negativo dei controlli sulla pretesa contaminazione del coltello e del gancetto, prodotti invece dalla Procura. Ciò avrebbe dovuto travolgere la perizia stessa ma la Corte … ha ignorato il grave errore commesso dai peritiLa Quinta Sezione della Suprema Corte, chiamata a decidere in merito ai ricorsi presentati dagli imputati contro la sentenza del giudice di rinvio, avrebbe dovuto considerare inammissibili i ricorsi … Non si può negare … che la decisione della Quinta Sezione sia una decisione non solo assolutamente imprevedibile e anomala ma che costituisce addirittura un unicum della giurisprudenza della Corte di legittimità».

Sicchè, nell’opinione di G.M. e delle altre denuncianti, dovevano essere considerate corrette le sentenze che avevano assecondato la tesi accusatoria mentre, per contro, erano clamorosamente sbagliate le decisioni di segno inverso, compresa quella definitiva del 2015.

Va da sé che i denuncianti non hanno mancato di attestare ripetutamente la linearità e la costante correttezza del loro operato professionale.

Si prende atto, come è giusto, della posizione di G.M.

Si osserva tuttavia, per completezza informativa, che la Procura di Firenze ha chiesto l’archiviazione della denuncia alla quale gli esponenti si sono opposti.

Si ricorda inoltre che il 4 dicembre 2015 il Consiglio Superiore della Magistratura ha inflitto a G.M. la sanzione della censura per avere negato al Sollecito, mentre si trovava in stato di fermo, di avere colloqui col suo difensore. La sanzione non riguardò il diniego in sé ma il fatto che questo fu espresso oralmente, in palese violazione delle norme che prescrivono invece un decreto motivato e la sua consegna agli aventi diritto (fonte: Ansa.it sezione Puglia, 4 dicembre 2015).

C’è di più. Nel corso della loro requisitoria nel processo di primo grado G.M. e la sua collega M.C. fecero proiettare in aula un filmato tridimensionale che riproduceva le modalità dell’assassinio della Kercher secondo la ricostruzione accusatoria.

Al di là del fatto che si trattava di un’iniziativa che le difese appresero in aula, risultò che la produzione del filmato, commissionata a privati, era costata circa 183.000 €.

Per questa ragione, M.C., che aveva disposto il pagamento di tale importo, fu sottoposta a procedimento disciplinare che tuttavia, nonostante la richiesta di irrogazione di una sanzione da parte dell’accusa, si concluse con l’esclusione di ogni addebito (fonte: Umbria24, edizione web del 6 dicembre 2013).

Anche la Corte dei Conti, più precisamente la Procura regionale dell’Umbria, iniziò una procedura di incolpazione per danno erariale nei confronti di G.M. sulla base del medesimo presupposto. Non risulta che all’iniziativa sia seguita alcuna condanna.

Deve essere adesso menzionato un dato di notevole rilievo.

Amanda Knox, ritenendo di avere subito gravi violazioni dei suoi diritti umani durante il procedimento in suo danno, ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo, custode e interprete delle libertà e dei diritti tutelati dalla Convenzione europea per i diritti umani. In particolare la Knox ha lamentato di essere stata maltrattata durante gli interrogatori e di avere subito un processo iniquo.

A maggio di quest’anno si è avuta notizia che la Corte di Strasburgo ha dichiarato ammissibile il ricorso (dato estremamente significativo se si considera che solo una percentuale minima dei ricorsi presentati supera il rigoroso filtro preliminare) e ha invitato il Governo italiano a presentare le sue controdeduzioni e difese. Si vedrà ma certo non è un segnale rassicurante per il nostro Stato (fonte: Il fatto quotidiano, sezione Giustizia e impunità, edizione web del 17 maggio 2016).

Pochi mesi prima, precisamente a metà gennaio del 2016, il Tribunale di Firenze, chiamato a giudicare la Knox in quanto accusata di calunnia nei confronti di alcuni investigatori cui aveva attribuito di essere stata forzata ad accusare Patrick Lumumba di essere il responsabile dell’omicidio, ha assolto la statunitense.

Nella motivazione, pubblicata a distanza di qualche mese, il giudice ha usato queste argomentazioni: «[Nella notte tra il 5 e il 6 novembre 2007] la condizione psicologica della ragazza era divenuta per lei un peso davvero insopportabile … In questo contesto è comprensibile che Amanda, cedendo alla pressione e alla stanchezza, abbia sperato di mettere fine a quella situazione, dando agli investigatori ciò che in fondo volevano sentirsi dire: un nome, un assassino». Il giudice ha poi parlato di «verbali inaffidabili» della Questura, «scelte inopportune degli interpreti, appartenenti alla stessa questura di Perugia» e «metodo apparentemente edulcorato  adottato dagli investigatori e dai loro ausiliari». Ha quindi osservato che «In un contesto professionale del genere probabilmente non ci si è resi conto che l’unico attento approccio richiesto verso la Knox, anzi, imposto, doveva essere quello di informare l’indagata dei suoi diritti di difesa, dichiarati inviolabili, non a caso, dalla nostra Costituzione. Ciò per l’evidente e scolastico motivo che si trattava di soggetto che doveva essere posto nelle condizioni di difendere la propria libertà personale a fronte del potere autoritativo dello Stato … Era richiesto solo il rispetto delle regole che governano le indagini ma tali limiti sono stati travalicati determinando contaminazioni delle procedure che hanno portato  alla loro invalidità ». E invece, scrive ancora l’estensore, «Oltre al mancato rispetto della procedura relativa all’assunzione di informazioni da soggetto già indiziato manca in tutti i verbali l’orario di chiusura … E’ stata omessa anche la circostanza relativa al telefono di Amanda, esaminato senza un formale provvedimento di sequestro. Tutti i verbali e le dichiarazioni spontanee rese al pm sono molto brevi a fronte di attività durate ore in alcuni casi; tale approssimazione ha finito inevitabilmente per non rappresentare fedelmente l’attività svolta nei suoi dettagli» (fonte: Umbria24, cronaca, edizione del 9 aprile 2016).

Resta infine da ricordare un ultimo profilo, più umano che professionale per la verità.

Si tratta di una vicenda a margine del giudizio ma qui non si vuole compiere l’errore piuttosto abituale di ignorare i cosiddetti danni collaterali, perchè anch’essi servono per una maggiore consapevolezza.

C. P. H. era il presidente della Corte di Assise di Appello di Perugia che assolse il Sollecito e la Knox. Pochi mesi dopo la sentenza si dimise dalla magistratura. Spiegò così (a Repubblica.it cronaca, edizione del 30 marzo 2015) le ragioni del suo gesto: «Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un'ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l'inchiesta, avevano avallato l'accusa. In più ero in predicato per la presidenza del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne».

Una testimonianza interessante che è giusto mettere agli atti.

- Un’ora in più di vita: la parola ai difensori

«Domattina alle sei sarò giustiziato per un crimine che non ho commesso. Dovevo essere giustiziato alle cinque ma ho un avvocato in gamba» (Woody Allen).

A cosa si sono affidati quei difensori che hanno spuntato ben più di un’ora di vita per Amanda Knox e Raffaele Sollecito? Hanno evitato la bagarre o ci si sono tuffati anch’essi?

Da questa parte della barricata – è giusto riconoscerlo – c’è stato un atteggiamento di maggiore ossequio alle regole del fair play che deve governare le relazioni tra le parti processuali, tra queste e i giudici, tra queste e la giurisdizione nel suo complesso.

Così, ad esempio, con aplomb britannico, si è espressa G.B., difensore del Sollecito, dopo l’emissione della sentenza della Corte di Assise di Appello di Firenze: «Io non parlo e non parlerò mai di accanimento quando c’è una sentenza perché rispetto la giustizia e le sentenze».

Ben più polemica la posizione assunta da L.M., anch’egli difensore del Sollecito, nel corso di un’intervista in cui ha spaziato sul senso generale del procedimento e le modalità con cui è stato condotto. Le sue dichiarazioni, come si è visto, hanno indignato il Pubblico Ministero G. M. inducendolo a presentare una denuncia – querela.

È interessante la posizione assunta dalla Camera penale (cioè l’organismo che riunisce gli avvocati penalisti di un determinato foro) di Perugia la quale, pur riconoscendo l’elevata vis polemica delle dichiarazioni del suo iscritto, ha ritenuto che «L’attività del difensore si è dovuta dispiegare necessariamente e doverosamente anche in ambito mediatico. L’intervista rientra certamente nell’ambito delle prerogative difensive».

Il che è come dire che, se un processo ha un forte rilievo mediatico e se le controparti processuali si muovono in modo apodittico o comunque censurabile, la difesa ha il diritto di alzare anch’essa il tiro e di adottare ogni strategia adeguata per difendersi dagli abusi subiti.

Non si commenta, come d’abitudine, ma si prende comunque atto che la Camera penale perugina ha attribuito al ruolo e ai doveri difensivi una latitudine ben più ampia di quanto si è propensi a considerare normale.

- In piedi, entra la Corte: la parola al giudice

«Cercavi giustizia ma trovasti la legge» (Francesco De Gregori, Il bandito e il campione).

Una rassegna come quella in corso non sarebbe completa se non prendesse in considerazione anche i giudici. Sì, proprio loro, i funzionari pubblici che lo Stato retribuisce per decidere le controversie giudiziarie loro assegnate.

Come debba comportarsi un giudice, lo si è visto prima quando è stato citato il codice deontologico della magistratura associata. Si diceva una volta che i giudici potevano comunicare con l’esterno solo attraverso sentenze, ordinanze e decreti, cioè unicamente attraverso gli atti tipici della loro funzione giurisdizionale.

Vediamo. È l’1 febbraio 2014, cioè il giorno dopo l’emissione della sentenza della Corte di Assise di Appello di Firenze che ha condannato Knox e Sollecito.

A. N., presidente di quella Corte, rilascia un’intervista (fonte: Corriere.it, edizione web dell’1.2.2014), sul processo. Questi i passaggi più significativi: «Mi sento liberato perché il momento della decisione è il più difficile. Ho anche io dei figli e infliggere condanne da 25 e 28 anni a due ragazzi è una cosa emotivamente molto forte». Il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze … è consapevole che «la sentenza aprirà un nuovo dibattito, soprattutto mediatico», ma proprio per questo accetta di spiegare come si è arrivati al verdetto. Perché avete deciso di non interrogare Guede? «A che pro? Lui non ha mai confessato e anche se l’avessimo convocato aveva la facoltà di non dire nulla. Non l’abbiamo ritenuto necessario. Invece ci sembrava importante approfondire altri aspetti e infatti abbiamo disposto una perizia e ascoltato i testimoni sui quali c’erano dubbi. È il ruolo dei giudici di appello. In quattro mesi siamo riusciti ad arrivare alla definizione».I legali di Sollecito vi avevano chiesto di separare le posizioni.«Motiveremo in maniera approfondita sul punto spiegando perché non abbiamo ritenuto di accogliere questa impostazione. In ogni caso Sollecito ha deciso di non farsi mai interrogare nel processo».E questo ha influito sulla scelta di condannarlo? «È un diritto dell’imputato, ma certamente priva il processo di una voce. Lui si è limitato a dichiarazioni spontanee, ha detto soltanto quello che voleva senza sottoporsi al contradditorio». Negli anni sono stati ipotizzati moventi diversi. Voi che idea vi siete fatti? «Abbiamo una convinzione e la espliciteremo nella sentenza. Al momento posso dire che fino alle 20,15 di quella sera i ragazzi avevano programmi diversi, poi gli impegni sono saltati e si è creata l’occasione. Se Amanda fosse andata al lavoro probabilmente non saremmo qui».  Vuol dire che l’omicidio è stata solo una casualità? «Voglio dire che è stata una cosa tra ragazzi, ci sono state coincidenze e su questo abbiamo sviluppato un ragionamento. Sono consapevole che sarà la parte più discutibile». Avete condannato Amanda Knox ma non avete emesso alcuna misura cautelare nei suoi confronti. Perché? «È legittimo che lei sia negli Stati Uniti. Al momento del delitto era in Italia per motivi di studio ed è tornata a casa sua dopo essere stata assolta. Lei è una cittadina americana. Il problema si porrà qualora dovesse esserci la necessità di esecuzione della pena. Adesso non credo fosse necessario un provvedimento». E allora perché avete ritirato il passaporto di Raffaele Sollecito? «Era il minimo sindacale. In questi casi l’ordinanza serve a prevenire qualcosa e noi dovevamo evitare che si rendesse irreperibile in attesa del giudizio definitivo». E crede basti il divieto di espatrio? «Sì, ci è sembrato più che sufficiente. Se poi dovessero esserci sviluppi li valuteremo».

Queste le dichiarazioni del presidente A.N., a distanza di un solo giorno dalla sentenza e quando ancora la motivazione della decisione era ben al di là da venire.

L’intervista ha sconcertato e indignato i difensori del Sollecito al punto da indurli a presentare un esposto al Consiglio superiore della magistratura. Queste le loro motivazioni: «E' gravissimo, anzi inaccettabile che il presidente N. abbia commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva. Ci chiediamo innanzitutto se parla a nome di tutti i giurati e se la frase sul mancato interrogatorio di Raffaele Sollecito significa che, se avesse accusato Amanda Knox, sarebbe stato assolto. In ogni caso, ricordiamo a tutti che ai magistrati compete il potere di giudicare, non quello di intromettersi nelle scelte della difesa e di commentarle pubblicamente».

È stato di seguito aperto un procedimento disciplinare nei confronti di A.N. che si è concluso con l’archiviazione. Nondimeno, l’organo di autogoverno della magistratura ha rilevato l’inopportunità delle dichiarazioni in quanto rilasciate prima della pubblicazione della motivazione. Gli atti del procedimento sono stati inoltre trasmessi alla Commissione per gli incarichi direttivi del CSM, evidentemente allo scopo di tenerne conto per l’ipotesi che A.N. si candidasse a dirigere un ufficio giudiziario.

E si può dire che è tutto.

La sentenza finale: le parole della Cassazione

«Se sei capace di tremare d’indignazione ogni qualvolta si commette un’ingiustizia, allora siamo compagni» (Ernesto “Che” Guevara).

A distanza di sette anni e mezzo dal fatto, la Suprema Corte ha emesso la sentenza definitiva, affermando quella che chiunque e per sempre dovrà considerare la verità processuale.

Nella sua interezza il documento è composto da 52 pagine. Tolte le 18 iniziali, servite per l’intestazione e il riepilogo dei motivi di ricorso, ne restano 34.

Fa un po’ impressione. Processi su processi, centinaia di faldoni di carte, sono stati alla fine condensati in uno spazio così ridotto. Ognuno può farsi l’opinione che vuole, naturalmente. Qui però piace immaginare che questa sobrietà espressiva abbia avuto la sua importanza nella motivazione complessiva. Come se la Cassazione abbia voluto dire che la verità non sta nelle sovrastrutture ma nei fatti nudi e scarni, purchè verificati nel più rigoroso rispetto delle regole processuali e valutati secondo razionalità.

Certo, la sobrietà esponeva al rischio della povertà argomentativa. Ma non è stato così poiché in quelle 34 pagine c’è tutto ciò che andava detto.

E adesso, la parola ai giudici supremi: «Non può, intanto sfuggire … che la storia di questo processo è caratterizzata da un percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio … Un iter oggettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillances o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività d’indagine che, ove poste in essere, avrebbero, con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza, vuoi dell’estraneità degli odierni ricorrenti … un inusitato clamore mediatico della vicenda, dovuto non solo alle drammatiche modalità della morte di una ventiduenne, tanto assurda e incomprensibile nella sua genesi, ma anche alla nazionalità delle persone coinvolte … e dunque ai riflessi “internazionali” della stessa vicenda, ha fatto sì che le indagini subissero un’improvvisa accelerazione che, nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità[da qui in avanti la motivazione si sofferma sui profili del merito] nessuna delle possibili causali del ventaglio di soluzioni indicate dalla stessa sentenza rescindente si è potuta accertare nel presente giudizio … l’ipotesi di gioco erotico di gruppo non ha trovato riscontri di sorta … Altro errore di giudizio risiede nella ritenuta irrilevanza dell’accertamento dell’ora esatta della morte della Kercher … Orbene, anche sul punto è dato registrare un deprecabile pressapochismo della fase delle indagini preliminari. Basti considerare, al riguardo, che i rilievi della polizia giudiziaria avevano proposto una banale media aritmetica tra un possibile termine iniziale ed un possibile termine finale … Si tratta … di accertare quale valenza processuale possano assumere gli esiti dell’indagine genetica svolta in un contesto di accertamenti e rilievi assai poco rispettosi delle regole consacrati da protocolli internazionali … Nel caso di specie, è certo che quelle regole metodologiche non sono state assolutamente osservate … Basti considerare, al riguardo, le modalità di reperimento, repertazione e conservazione dei due oggetti di maggiore interesse investigativo: il coltello da cucina e il gancetto di chiusura del reggiseno della vittima in ordine ai quali non si è esitato in sentenza a qualificare l’operato degli inquirenti in termini di caduta di professionalità. Il coltellaccio o coltello da cucina … è stato repertato e custodito in una comune scatola di cartone … Più singolare – ed inquietante – è la sorte del gancetto del reggiseno. Notato nel corso del primo sopralluogo dalla polizia scientifica, l’oggetto è stato trascurato e lasciato lì, sul pavimento, per diverso tempo (46 giorni), sino a quando, nel corso di nuovo accesso, è stato finalmente raccolto e repertato. È certo che, nell’arco temporale intercorrente tra il sopralluogo in cui venne notato e quello in cui fu repertato, vi furono altri accessi degli inquirenti, che rovistarono ovunque … Il gancetto fu forse calpestato o, comunque, spostato, (tanto da essere rivenuto sul pavimento in posto diverso da quello in cui era stato inizialmente notato).  Non solo, ma la documentazione fotografica prodotta dalla difesa di Sollecito dimostra che, all’atto della repertazione, il gancetto veniva passato di mano in mano degli operanti che, peraltro, indossavano guanti di lattice sporchi … Un dato processuale di incontrovertibile valenza è rappresentato dall’assoluta mancanza, nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima di tracce biologiche con certezza riferibili ai due imputati laddove, invece, sono state rinvenute copiose tracce sicuramente riferibili al Guede … Con riferimento alle asserite tracce ematiche negli altri ambienti, segnatamente nel corridoio, vi è poi un evidente travisamento di prova. Ed invero, i s.a.l. (stati avanzamento lavori) della polizia scientifica avevano escluso … che, negli ambienti considerati, le tracce … avessero natura ematica … È poi palesemente illogico – oltre che poco rispettoso della realtà processuale – ricostruire il movente dell’omicidio sulla base di pretesi dissapori tra la Kercher e la Knox … ».

La sentenza qui commentata offre molti altri spunti ma dovrebbero già bastare quelli elencati.

La Corte di Cassazione registra un vero e proprio disastro investigativo e valutativo. Segnala investigazioni volte a cercare un colpevole quale che fosse per dare segnali rassicuranti all’opinione pubblica, l’acquisizione di elementi di prova fatta in totale spregio delle regole processuali e scientifiche, l’uso di canoni valutativi assai poco meditati e ancora prima il travisamento del significato di prove decisive. Denuncia omissioni e cadute di professionalità.

Che dire? Desta non poco timore che in un qualunque processo possano verificarsi, tutte insieme, nefandezze di questa portata. Non è ciò che ci si aspetta dalla giurisdizione, non è quello che prescrive l’articolo 111 della Costituzione.

Consola un poco che i nostri giudici di ultima istanza abbiano saputo liberarsi del rumore assordante creato attorno alla morte di Meredith Kercher e abbiano guardato in faccia la realtà per ciò che era. Ma, subito dopo, si pensa ai tanti casi in cui, per difficoltà di certo oggettive, la Cassazione potrebbe non essere in grado di svolgere il suo altissimo compito di ultimo difensore della verità, non avere il tempo e il modo di prestare la dovuta attenzione, essere sopraffatta dalle tante parole che si depositano le une sulle altre fino a comporre un’incomprensibile Babele.

Luci e ombre, come quasi sempre accade nell’esperienza umana. Ma almeno, per una volta, c’è chi ha saputo accendere le prime e dissipare le altre.