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La forma che dà valore sostanziale al prodotto

Sintesi della relazione tenuta al convegno "Forma Design Prodotti", Università di Parma, 24 ottobre 2008
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La ricerca di una forma adeguata di un prodotto, largamente intesa fino a ricomprendervi il packaging, costituisce interesse primario dell’azienda moderna. Adeguata, ma in che senso? La piena comprensione della domanda risulta essenziale per accertare i limiti entro cui l’ordinamento giuridico riconosce quell’interesse come meritevole di tutela e per l’individuazione delle diverse opzioni giuridiche che vengono offerte all’azienda stessa.

L’impresa persegue nella sua azione, è ovvio, l’intento, meramente economico, di realizzare profitti ed acquisire quote di mercato. Si deve dunque dotare degli strumenti più idonei allo scopo. Tra questi, in primo luogo, delle esclusive di diritto industriale che, a diverso titolo, consentono di acquisire appropriato ritorno degli investimenti nell’innovazione, attraverso l’attribuzione di un potere esclusivo di sfruttamento. Una nuova forma deve quindi esprimersi in un plus addizionale rispetto ai prodotti concorrenti e permettere di conseguire un vantaggio competitivo, sempre che questo sia difendibile. Questo sarà possibile se l’azienda, attraverso i suoi prodotti, si presenterà sul mercato al suo pubblico di riferimento, ai suoi consumatori di specie, in termini attraenti, suggestivi, suadenti, tali comunque da ingenerare in essi una reazione positiva, di gradimento, di consenso. Senza del quale non possono porsi le condizioni per cui quei soggetti, ai quali l’impresa si rivolge, come interlocutori privilegiati sul mercato, possono ripetere le loro scelte preferenziali d’acquisto.

Come si comprende, la ricerca di una forma adeguata per provocare il consenso da parte dei suoi destinatari non può essere vista unilateralmente dal lato dell’azienda, ma va strettamente correlato a come tale forma verrà percepita dal consumatore con il quale l’azienda interagisce in continuum. Sotto questo aspetto, la forma, qualsiasi forma, è un modo di rappresentazione esterna che, come tale, è mezzo di comunicazione che si pone – nel nostro caso- come momento di mediazione tra due soggetti, due termini, l’azienda, da un lato, e il consumatore, dall’altro, portatori di interessi diversi, a volte concorrenti, a volte contrastanti. Da qui, il limite della tutela legale, necessariamente rivolta alla loro equilibrata considerazione e critica composizione.

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La triangolazione forma, design, prodotto, proposta da questo convegno, esprime in effetti la stretta interrelazione che intercorre tra la forma in generale, quella forma particolare rappresentata dal design, ed il prodotto al quale ineriscono. Semmai fa parte di questo scenario anche il consumatore, il cui ruolo, come visto, è fondamentale.

Diversi sono i modelli normativi che le imprese hanno a disposizione per realizzare i loro obiettivi, il che si riflette dal versante dell’ordinamento in una pluralità di tutele, ciascuna delle quali informate a principi propri (diritto d’autore, brevetti, design, marchi, concorrenza sleale, tutele sui generis), al punto che ne è configurabile il loro cumolo, sempre che ne ricorrano le condizioni costitutive legalmente previste.

In questo intervento vorrei soffermarmi sulle forme che danno vita ai marchi, ai marchi appunto di forma dei prodotti, la cui percezione è sempre possibile, anche se non è abituale per il consumatore apprezzare questo segno nella piena autonomia ed indipendenza della loro funzione distintiva, stante la loro inerenza al prodotto. Questi marchi, è noto, sono sottoposti per la loro registrazione ad alcuni impedimenti, disciplinati nell’identico modo nella Direttiva di armonizzazione, il Regolamento istitutivo del marchio comunitario ed il CPI (Codice della proprietà Industriale). In particolare, non possono essere registrati i segni costituiti esclusivamente dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto.

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Come dobbiamo intendere questa limitazione?

Preliminarmente si nota che la formulazione dei tre sottosistemi previsti dalla norma (art.9, CPI) ( forma imposta dal prodotto, forma funzionalmente necessitata e forma attributiva di valore sostanziale) rinvia al prodotto, e non al segno come in altri casi (limitazione da descrittività o genericità, ad esempio). Mi pare pertanto che ci troviamo davanti all’inequivoca volontà del legislatore di considerare il marchio non solo nella sua natura ontologica di segno di comunicazione, ma proprio perché tale, nella sua struttura di mediazione di messaggi tra l’impresa, da un lato, ed il suo naturale interlocutore, il consumatore, dall’altro. Il consumatore è quindi palesemente il recettore del segno/marchio e quindi occorre fare riferimento a come questi lo percepisca, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria sul marchio la quale, per sua parte, non manca di rilevare come altrettanto essenziale sia la valutazione della natura del prodotto. Nella percezione del marchio c’è dunque un rapporto di stretto complementarietà del segno al prodotto che questi contraddistingue.

Il consumatore, dunque, quando si incontra con il marchio, rappresentato in questo caso dalla forma di un prodotto, non si confronta con un’entità volatile, astratta o immateriale, ma con un segno, una unità linguistica, una modalità di comunicazione che si coniuga irrefutabilmente insieme al prodotto ed al contesto in cui si colloca, elemento costitutivo essenziale di quella connotazione, propria dell’istituto del marchio che, con espressione di sintesi, ho più volte qualificato con il termine contestualizzazione.

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Sapere con chiarezza se il segno, la forma, attribuisca valore sostanziale al prodotto è quindi di fondamentale importanza per la strategia aziendale. Se infatti la risposta fosse positiva, dovrebbe trarne la conseguenza che la via d’investire nel marchio non è percorribile perché questo non sarebbe registrabile. L’azienda dovrebbe quindi prendere in considerazione altre forma di protezione, quale quella del design, ad esempio, che peraltro risponde a finalità ed ha limiti di proteggibilità diversi rispetto al marchio.

Viceversa, il problema interpretativo ( il che cosa vuol dire) di quella espressione, dopo l’avvento della riforma ed il superamento nel nostro diritto delle discussioni sullo speciale ornamento, presente nella precedente legislazione, non ha ancora maturato, nonostante apprezzabili approfondimenti (SARTI, SENA), indicazioni chiarificatori conclusive per un management aziendale ed ha generato, paradossalmente, scarsissimi precedenti giurisprudenziali. Vorrei quindi tentare di dare qualche indicazione utile in tale direzione, tanto più che il tema si inserisce di pieno diritto nella discussione che questo convegno propone.

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Il CPI ha conformato il nostro diritto interno alla Direttiva ed al Regolamento comunitario (RMC), per cui può essere interessante esplorare come la giurisprudenza comunitaria ha affrontato in anticipo sui nostri tempi il problema dell’interpretazione della norma in esame (art.7(1)(e)(iii) RMC, identicamente riprodotta nel nostro art. 9, CPI. Tuttavia, sorprendentemente, sono rarissime le decisioni a livello comunitario, il che risulta comprensibile solo se si prede atto che le Commissioni di ricorso dell’UAMI hanno esclusivamente concentrato la loro attenzione sulla registrabilità dei marchi di forma sotto il diverso profilo dell’accertamento dell’impedimento della mancanza di distintività (art.7(1)(b) RMC). Ad eccezione del sottoscritto, che nel caso GANCINO QUADRATO, che riguardava la fibbia per calzature della Ferragamo, ha esaminato a fondo l’impedimento delle forme necessarie (art.7(1)(e) RMC), identificando il valore sostanziale in quelle forme che risultano “determinanti nelle scelte d’acquisto” [1]. Notavo in particolare (la decisione è del 2000) che ”non è sufficiente che la forma sia gradevole o attrattiva per escluderne la registrabilità. Se così fosse, non sarebbe praticamente configurabile alcun marchio di forma, dato che nell’economia moderna non vi è alcun prodotto di interesse industriale che non sia oggetto di studio, ricerca e disegno industriale prima della sua immissione in commercio. Nel caso di specie, la forma della fibbia è un elemento aggiuntivo del prodotto, non fa parte della sua struttura, non ne costituisce in via esclusiva l’ornamento. Il suo apporto ornamentale, per quanto importante, non sembra accreditare il prodotto di un valore esclusivo, determinante. Si intuisce, piuttosto - ed è un dato di comune esperienza che non richiede prova- che i consumatori degli articoli per i quali è rivendicato il marchio, effettuano le proprie scelte d’acquisto a ciò indotti da un insieme di fattori, diversamente concorrenti a seconda delle circostanze, come ad esempio dalla notorietà dei marchi (denominativi, figurativi o di forma che siano), dai nomi commerciali del produttore, dalla insegna del punto vendita, dall’andamento della moda e delle sue tendenze, alle quali quei prodotti sono particolarmente sensibili. “. Di conseguenza, superato il test dell’impedimento specifico, ritenevo il segno idoneo alla funzione distintiva del marchio, dal momento che il fatto che una fibbia per valigeria e pelletteria possedesse delle qualità ornamentali, non determinanti, non ne escludeva la tutelabilità come marchio [2]

In quella stessa decisione rilevavo la irrilevanza degli aspetti soggettivi dell’impresa (restyling del design e politiche di commercializzazione), anticipando la giurisprudenza del Tribunale di Prima Istanza che in numerose occasioni confermava questa posizione, mentre restava silente sul significato da dare alla forma che dava valore sostanziale al prodotto, pur avendo l’UAMI espressamente sollevata la questione [3].

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A livello nazionale, si rintraccia una decisione del 2002 del Tribunale di Milano, che sembrerebbe inserirsi nell’unico precedente dell’UAMI ricordato, negando la registrabilità del marchio quando la forma appaia idonea ad incidere in materia determinante sull’apprezzamento del consumatore tanto da costituire la motivazione determinante dell’acquisto del prodotto[4] , decisione resa tuttavia in relazione al sistema ancora basato sullo speciale ornamento.

In questa situazione, è più che benvenuta la recente sentenza del Tribunale di Venezia [5] che esamina finalmente la questione con attenzione e dovizia di argomenti. Nella fattispecie, il marchio, che era contestato in riconvenzionale per nullità dalla concorrente convenuta per contraffazione, era costituito dal segno figurativo ICE impresso sulla stanghetta di una linea di occhiali.

Secondo controparte, il marchio sarebbe utilizzato con modalità tali da attribuire al prodotto un valore sostanziale e per le modalità con cui è reso (con strass o lettere metalliche di peculiare grafismo), attribuirebbe al prodotto cui è applicato un valore estetico autonomo, tanto da far scendere in secondo piano la funzione distintiva del marchio ed addirittura da risultare difficilmente leggibile la parola ICE.

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La sentenza si apprezza perché sia nell’affrontare il problema della validità del marchio attoreo (ICE) ed ancor più della confondibilità con quello concorrente (X-ICE), privilegia l’approccio obbiettivo del problema, dando spazio – seppure non esclusivo – all’esame delle modalità percettive dal lato consumatore. La decisione supera il condizionamento dello speciale ornamento e del cumulo delle tutela, che portava il nostro diritto prima dell’avvento del CPI alla supervalutazione dell’aspetto estetico della forma, e si pone decisamente nell’ottica comunitaria focalizzando la propria attenzione sul comportamento del pubblico rilevante, arrivando così spontaneamente alla definizione del concetto del valore sostanziale attribuibile al prodotto. Secondo la sentenza, “l’impedimento alla registrazione in esame si configura solo (se si tratta di un) valore estetico autonomo, di per sé decisivo nell’esercitare un’autonoma forza attrattiva sul consumatore (…) la forma registrata, pur presentando una sua individualità non è stata reputata dal Tribunale connotata da un gradiente di originalità, dal punto di vista estetico, tale da costituire autonoma ragione di acquisto del prodotto, e quindi tale da attribuire valore sostanziale al prodotto medesimo.” La sentenza – nonostante alcune concessione all’estetica e al concetto di originalità, qui non pertinenti - supera la dicotomia tra forma-distintiva e forma-non-distintiva (RICOLFI, 2007), consapevole della sostituzione del criterio dello speciale ornamento con il c.d. carattere individuale della disciplina del design che si è operata nel nostro diritto ora riformato. Si affronta così il problema del marchio di forma per quello che è: la verifica dell’integrità o meno della funzione distintiva del marchio avuto riguardo a come quella forma viene percepita dal consumatore di specie. Attenta, sotto questo aspetto, l’analisi nella sentenza rivolta alla corretta identificazione della tipologia di questo soggetto e dei suoi comportamenti ragionevolmente ipotizzabili, utilizzando anche nozioni di conoscenza comune, in tal modo contestualizzando la valutazione meramente giuridica. “Il consumatore, quindi, – conclude la sentenza nella verifica dell’impedimento in esame – non acquisterà più il prodotto in considerazione della provenienza indicata (in generale) dal marchio, ma per la forza attrattiva del suo aspetto estetico, ottenuto attraverso una peculiare realizzazione del segno. Proprio in questa ipotesi, infatti, il marchio perde la sua funzione distintiva ed assume una estranea funzione estetica.” Viene pertanto posto l’accento sull’aspetto della induzione all’atto d’acquisto e la sua ripetizione, dal momento che l’attrattiva della forma, colta una prima volta l’attenzione del consumatore, verrà da questi memorizzata e riattivata nelle successive occasioni, in tal modo giustificando l’investimento dell’azienda nella ricerca e presentazione sul mercato di nuove forme dei propri prodotti. Occorre in proposito notare che il consumatore è sempre meno interessato a conoscere le fonte di provenienza dei prodotti, per cui o la funzione distintiva del marchio dovrà essere giuridicamente ridesignata in termini di congruenza con la domanda di mercato, ovvero per le imprese potrà rivelarsi sempre più attraente ricorrere a quelle forme di protezione legale più direttamente attinenti ed inerenti all’aspetto dei prodotti stessi, a cominciare dal design.

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Se il valore sostanziale della forma del prodotto va dunque identificato nell’attivazione della propensione all’atto d’acquisto, come possiamo riconoscere l’emersione di quel momento, in termini giuridicamente rilevanti, visto che una gradevolezza, un appealing è oggi attribuibile ad ogni forma presente sul mercato? Si è appena visto che secondo questa interpretazione la funzione di indicatore di provenienza in questo caso viene oscurata, emarginata, da cui la limitazione per funzionare (registrare) come marchio.

Vorrei proporre due vie per definire questo spartiacque nel gradiente del livello di attrattività, tra la forma che può e quella che non può ricadere nella funzione tradizionale del marchio, distinguere i prodotti che provengono da una impresa piuttosto che da un’altra. Una dedicata ai giuristi, ed una alle aziende.

In termini legali, vorrei ricordare che la norma richiede l’esclusività [6] della presenza degli elementi costitutivi dell’impedimento, senza peraltro caricarlo – a mio avviso - dell’obbligo di una interpretazione restrittiva conseguente alla sua configurazione di una eccezione rispetto alla regola (registrabilità di marchi di forma), eccezione negata dalla giurisprudenza comunitaria.

La qualificazione dell’esclusività mi induce, piuttosto, a ricorrere all’analogia della distinzione civilistica tra causa e motivi. Questo discrimen, del resto, è del tutto coerente con l’irrilevanza giuridica degli stati soggettivi nel diritto di marchio, ripetutamente affermata sia nella giurisprudenza nazionale con quella comunitaria.

Occorre, in altre parole, verificare sul campo se la determinazione all’atto d’acquisto sia conclusiva, al netto cioè di quelle motivazioni che di norma accompagnano il consumatore in quel contesto: se il marchio di forma ha per oggetto un auto, esso deve permettere al fabbricante di farla distinguere, nello stesso segmento o gamma, da quelle dei concorrenti e farlo percepire come tale dal pubblico di riferimento. Se viceversa l’acquisto dovesse privilegiare la forma dell’autoveicolo – nell’impressione d’insieme risultante da tutte le sue componenti – non basterebbe che l’acquirente la preferisca per il motivo di compiacere la moglie che la desidera per un tono particolare e trendy del colore del nuovo modello. Con pieno rispetto dei desideri delle signore, non mi sembra si potrebbe parlare in tal caso di valore sostanziale. Quanto alle aziende, esse dispongono di strumenti di analisi socio-comportamentali sempre più sofisticati che permettono loro di prevedere in anticipo, con ragionevole approssimazione, la reattività del loro target di fronte alla forma nuova (e non necessariamente originale) dei loro prodotti. Ricerche ed indagini potranno pertanto essere modulate specificamente a tal fine. La importanza degli investimenti nell’innovazione della forma del prodotto ne costituirebbe, del resto, una ulteriore controprova.

P.S. Mentre stavo inviando il testo di questo intervento, apprendo che la Prima Commissione di Ricorso, nel dar corso all’attuazione della sentenza Bang & Olufsen A/S/UAMI citata alla nota 3, ha colmato la reticenza del Tribunale di Prima Istanza, esaminando (finalmente) – con amplissima motivazione - il problema della tutelabilità della forma dell’autoparlante.

Per la cronaca, la CR è pervenuta alle stesse conclusioni dello scrivente, sia per quanto riguarda l’incidenza del comportamento del consumatore, sia l’irrilevanza di motivazioni concorrenti, ma non esclusivamente determinanti dell’atto d’acquisto, quali la qualità delle performances, il prezzo o la qualità del prodotto. Difformemente dalla sentenza del TPI, la Commissione ha ritenuto la forma in esame non registrabile come marchio in quanto attributiva di un valore sostanziale al prodotto e quindi ostativa della registrazione.



[1]CR R 395/1999-3, par.25, 3 maggio 2000, in www.marchiocomunitario.it, 24/2000, e anche in GADI, 2000/4198, il cui commento, peraltro, non sembra cogliere l’essenza del problema.

[2] CR R 164/1998-1, 12 aprile 1999, VALIGERIA RONCATO, par.12. Confermava poi TPI, T‑173/00, 9 ottobre 2002, KWS Saat/UAMI (Tonalità arancio), punto 30; T‑128/01, 6 marzo 2003, DaimlerChrysler/UAMI, (Calandra), punto 43, e T‑129/04, 15 marzo 2006, Develey/UAMI (Forma di una bottiglia di plastica), punto 56.

[3] TPI T‑460/05,10 ottobre 2007, Bang & Olufsen A/S/UAMI, (3D Autoparlante), in www.marchiocomunitario.it, 02/2008, con nota S.SANDRI, Nuova attenzione per il pubblico rilevante?. Anche secondo l’UAMI, “tali forme rivestono un ruolo determinante nella decisione di acquisto del consumatore.”

[4] Trib Milano, 7 ottobre 2002, in GADI , 2003/4523, p.497.

[5] Trib. Venezia, 1 giugno 2007, GILMAR S.P.A., /IMMAGINE EYEWEAR Srl., marchio ICE contro X-ICE, in www.IP-Italjuris.it, 10/2008.

[6] Così, C-408/01, 23 ottobre 2003 - Adidas-Salomon AG, già Adidas AG e Fitnessworld Trading Ltd., (ADIDAS).

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La ricerca di una forma adeguata di un prodotto, largamente intesa fino a ricomprendervi il packaging, costituisce interesse primario dell’azienda moderna. Adeguata, ma in che senso? La piena comprensione della domanda risulta essenziale per accertare i limiti entro cui l’ordinamento giuridico riconosce quell’interesse come meritevole di tutela e per l’individuazione delle diverse opzioni giuridiche che vengono offerte all’azienda stessa.

L’impresa persegue nella sua azione, è ovvio, l’intento, meramente economico, di realizzare profitti ed acquisire quote di mercato. Si deve dunque dotare degli strumenti più idonei allo scopo. Tra questi, in primo luogo, delle esclusive di diritto industriale che, a diverso titolo, consentono di acquisire appropriato ritorno degli investimenti nell’innovazione, attraverso l’attribuzione di un potere esclusivo di sfruttamento. Una nuova forma deve quindi esprimersi in un plus addizionale rispetto ai prodotti concorrenti e permettere di conseguire un vantaggio competitivo, sempre che questo sia difendibile. Questo sarà possibile se l’azienda, attraverso i suoi prodotti, si presenterà sul mercato al suo pubblico di riferimento, ai suoi consumatori di specie, in termini attraenti, suggestivi, suadenti, tali comunque da ingenerare in essi una reazione positiva, di gradimento, di consenso. Senza del quale non possono porsi le condizioni per cui quei soggetti, ai quali l’impresa si rivolge, come interlocutori privilegiati sul mercato, possono ripetere le loro scelte preferenziali d’acquisto.

Come si comprende, la ricerca di una forma adeguata per provocare il consenso da parte dei suoi destinatari non può essere vista unilateralmente dal lato dell’azienda, ma va strettamente correlato a come tale forma verrà percepita dal consumatore con il quale l’azienda interagisce in continuum. Sotto questo aspetto, la forma, qualsiasi forma, è un modo di rappresentazione esterna che, come tale, è mezzo di comunicazione che si pone – nel nostro caso- come momento di mediazione tra due soggetti, due termini, l’azienda, da un lato, e il consumatore, dall’altro, portatori di interessi diversi, a volte concorrenti, a volte contrastanti. Da qui, il limite della tutela legale, necessariamente rivolta alla loro equilibrata considerazione e critica composizione.

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La triangolazione forma, design, prodotto, proposta da questo convegno, esprime in effetti la stretta interrelazione che intercorre tra la forma in generale, quella forma particolare rappresentata dal design, ed il prodotto al quale ineriscono. Semmai fa parte di questo scenario anche il consumatore, il cui ruolo, come visto, è fondamentale.

Diversi sono i modelli normativi che le imprese hanno a disposizione per realizzare i loro obiettivi, il che si riflette dal versante dell’ordinamento in una pluralità di tutele, ciascuna delle quali informate a principi propri (diritto d’autore, brevetti, design, marchi, concorrenza sleale, tutele sui generis), al punto che ne è configurabile il loro cumolo, sempre che ne ricorrano le condizioni costitutive legalmente previste.

In questo intervento vorrei soffermarmi sulle forme che danno vita ai marchi, ai marchi appunto di forma dei prodotti, la cui percezione è sempre possibile, anche se non è abituale per il consumatore apprezzare questo segno nella piena autonomia ed indipendenza della loro funzione distintiva, stante la loro inerenza al prodotto. Questi marchi, è noto, sono sottoposti per la loro registrazione ad alcuni impedimenti, disciplinati nell’identico modo nella Direttiva di armonizzazione, il Regolamento istitutivo del marchio comunitario ed il CPI (Codice della proprietà Industriale). In particolare, non possono essere registrati i segni costituiti esclusivamente dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto.

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Come dobbiamo intendere questa limitazione?

Preliminarmente si nota che la formulazione dei tre sottosistemi previsti dalla norma (art.9, CPI) ( forma imposta dal prodotto, forma funzionalmente necessitata e forma attributiva di valore sostanziale) rinvia al prodotto, e non al segno come in altri casi (limitazione da descrittività o genericità, ad esempio). Mi pare pertanto che ci troviamo davanti all’inequivoca volontà del legislatore di considerare il marchio non solo nella sua natura ontologica di segno di comunicazione, ma proprio perché tale, nella sua struttura di mediazione di messaggi tra l’impresa, da un lato, ed il suo naturale interlocutore, il consumatore, dall’altro. Il consumatore è quindi palesemente il recettore del segno/marchio e quindi occorre fare riferimento a come questi lo percepisca, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria sul marchio la quale, per sua parte, non manca di rilevare come altrettanto essenziale sia la valutazione della natura del prodotto. Nella percezione del marchio c’è dunque un rapporto di stretto complementarietà del segno al prodotto che questi contraddistingue.

Il consumatore, dunque, quando si incontra con il marchio, rappresentato in questo caso dalla forma di un prodotto, non si confronta con un’entità volatile, astratta o immateriale, ma con un segno, una unità linguistica, una modalità di comunicazione che si coniuga irrefutabilmente insieme al prodotto ed al contesto in cui si colloca, elemento costitutivo essenziale di quella connotazione, propria dell’istituto del marchio che, con espressione di sintesi, ho più volte qualificato con il termine contestualizzazione.

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Sapere con chiarezza se il segno, la forma, attribuisca valore sostanziale al prodotto è quindi di fondamentale importanza per la strategia aziendale. Se infatti la risposta fosse positiva, dovrebbe trarne la conseguenza che la via d’investire nel marchio non è percorribile perché questo non sarebbe registrabile. L’azienda dovrebbe quindi prendere in considerazione altre forma di protezione, quale quella del design, ad esempio, che peraltro risponde a finalità ed ha limiti di proteggibilità diversi rispetto al marchio.

Viceversa, il problema interpretativo ( il che cosa vuol dire) di quella espressione, dopo l’avvento della riforma ed il superamento nel nostro diritto delle discussioni sullo speciale ornamento, presente nella precedente legislazione, non ha ancora maturato, nonostante apprezzabili approfondimenti (SARTI, SENA), indicazioni chiarificatori conclusive per un management aziendale ed ha generato, paradossalmente, scarsissimi precedenti giurisprudenziali. Vorrei quindi tentare di dare qualche indicazione utile in tale direzione, tanto più che il tema si inserisce di pieno diritto nella discussione che questo convegno propone.

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Il CPI ha conformato il nostro diritto interno alla Direttiva ed al Regolamento comunitario (RMC), per cui può essere interessante esplorare come la giurisprudenza comunitaria ha affrontato in anticipo sui nostri tempi il problema dell’interpretazione della norma in esame (art.7(1)(e)(iii) RMC, identicamente riprodotta nel nostro art. 9, CPI. Tuttavia, sorprendentemente, sono rarissime le decisioni a livello comunitario, il che risulta comprensibile solo se si prede atto che le Commissioni di ricorso dell’UAMI hanno esclusivamente concentrato la loro attenzione sulla registrabilità dei marchi di forma sotto il diverso profilo dell’accertamento dell’impedimento della mancanza di distintività (art.7(1)(b) RMC). Ad eccezione del sottoscritto, che nel caso GANCINO QUADRATO, che riguardava la fibbia per calzature della Ferragamo, ha esaminato a fondo l’impedimento delle forme necessarie (art.7(1)(e) RMC), identificando il valore sostanziale in quelle forme che risultano “determinanti nelle scelte d’acquisto” [1]. Notavo in particolare (la decisione è del 2000) che ”non è sufficiente che la forma sia gradevole o attrattiva per escluderne la registrabilità. Se così fosse, non sarebbe praticamente configurabile alcun marchio di forma, dato che nell’economia moderna non vi è alcun prodotto di interesse industriale che non sia oggetto di studio, ricerca e disegno industriale prima della sua immissione in commercio. Nel caso di specie, la forma della fibbia è un elemento aggiuntivo del prodotto, non fa parte della sua struttura, non ne costituisce in via esclusiva l’ornamento. Il suo apporto ornamentale, per quanto importante, non sembra accreditare il prodotto di un valore esclusivo, determinante. Si intuisce, piuttosto - ed è un dato di comune esperienza che non richiede prova- che i consumatori degli articoli per i quali è rivendicato il marchio, effettuano le proprie scelte d’acquisto a ciò indotti da un insieme di fattori, diversamente concorrenti a seconda delle circostanze, come ad esempio dalla notorietà dei marchi (denominativi, figurativi o di forma che siano), dai nomi commerciali del produttore, dalla insegna del punto vendita, dall’andamento della moda e delle sue tendenze, alle quali quei prodotti sono particolarmente sensibili. “. Di conseguenza, superato il test dell’impedimento specifico, ritenevo il segno idoneo alla funzione distintiva del marchio, dal momento che il fatto che una fibbia per valigeria e pelletteria possedesse delle qualità ornamentali, non determinanti, non ne escludeva la tutelabilità come marchio [2]

In quella stessa decisione rilevavo la irrilevanza degli aspetti soggettivi dell’impresa (restyling del design e politiche di commercializzazione), anticipando la giurisprudenza del Tribunale di Prima Istanza che in numerose occasioni confermava questa posizione, mentre restava silente sul significato da dare alla forma che dava valore sostanziale al prodotto, pur avendo l’UAMI espressamente sollevata la questione [3].

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A livello nazionale, si rintraccia una decisione del 2002 del Tribunale di Milano, che sembrerebbe inserirsi nell’unico precedente dell’UAMI ricordato, negando la registrabilità del marchio quando la forma appaia idonea ad incidere in materia determinante sull’apprezzamento del consumatore tanto da costituire la motivazione determinante dell’acquisto del prodotto[4] , decisione resa tuttavia in relazione al sistema ancora basato sullo speciale ornamento.

In questa situazione, è più che benvenuta la recente sentenza del Tribunale di Venezia [5] che esamina finalmente la questione con attenzione e dovizia di argomenti. Nella fattispecie, il marchio, che era contestato in riconvenzionale per nullità dalla concorrente convenuta per contraffazione, era costituito dal segno figurativo ICE impresso sulla stanghetta di una linea di occhiali.

Secondo controparte, il marchio sarebbe utilizzato con modalità tali da attribuire al prodotto un valore sostanziale e per le modalità con cui è reso (con strass o lettere metalliche di peculiare grafismo), attribuirebbe al prodotto cui è applicato un valore estetico autonomo, tanto da far scendere in secondo piano la funzione distintiva del marchio ed addirittura da risultare difficilmente leggibile la parola ICE.

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La sentenza si apprezza perché sia nell’affrontare il problema della validità del marchio attoreo (ICE) ed ancor più della confondibilità con quello concorrente (X-ICE), privilegia l’approccio obbiettivo del problema, dando spazio – seppure non esclusivo – all’esame delle modalità percettive dal lato consumatore. La decisione supera il condizionamento dello speciale ornamento e del cumulo delle tutela, che portava il nostro diritto prima dell’avvento del CPI alla supervalutazione dell’aspetto estetico della forma, e si pone decisamente nell’ottica comunitaria focalizzando la propria attenzione sul comportamento del pubblico rilevante, arrivando così spontaneamente alla definizione del concetto del valore sostanziale attribuibile al prodotto. Secondo la sentenza, “l’impedimento alla registrazione in esame si configura solo (se si tratta di un) valore estetico autonomo, di per sé decisivo nell’esercitare un’autonoma forza attrattiva sul consumatore (…) la forma registrata, pur presentando una sua individualità non è stata reputata dal Tribunale connotata da un gradiente di originalità, dal punto di vista estetico, tale da costituire autonoma ragione di acquisto del prodotto, e quindi tale da attribuire valore sostanziale al prodotto medesimo.” La sentenza – nonostante alcune concessione all’estetica e al concetto di originalità, qui non pertinenti - supera la dicotomia tra forma-distintiva e forma-non-distintiva (RICOLFI, 2007), consapevole della sostituzione del criterio dello speciale ornamento con il c.d. carattere individuale della disciplina del design che si è operata nel nostro diritto ora riformato. Si affronta così il problema del marchio di forma per quello che è: la verifica dell’integrità o meno della funzione distintiva del marchio avuto riguardo a come quella forma viene percepita dal consumatore di specie. Attenta, sotto questo aspetto, l’analisi nella sentenza rivolta alla corretta identificazione della tipologia di questo soggetto e dei suoi comportamenti ragionevolmente ipotizzabili, utilizzando anche nozioni di conoscenza comune, in tal modo contestualizzando la valutazione meramente giuridica. “Il consumatore, quindi, – conclude la sentenza nella verifica dell’impedimento in esame – non acquisterà più il prodotto in considerazione della provenienza indicata (in generale) dal marchio, ma per la forza attrattiva del suo aspetto estetico, ottenuto attraverso una peculiare realizzazione del segno. Proprio in questa ipotesi, infatti, il marchio perde la sua funzione distintiva ed assume una estranea funzione estetica.” Viene pertanto posto l’accento sull’aspetto della induzione all’atto d’acquisto e la sua ripetizione, dal momento che l’attrattiva della forma, colta una prima volta l’attenzione del consumatore, verrà da questi memorizzata e riattivata nelle successive occasioni, in tal modo giustificando l’investimento dell’azienda nella ricerca e presentazione sul mercato di nuove forme dei propri prodotti. Occorre in proposito notare che il consumatore è sempre meno interessato a conoscere le fonte di provenienza dei prodotti, per cui o la funzione distintiva del marchio dovrà essere giuridicamente ridesignata in termini di congruenza con la domanda di mercato, ovvero per le imprese potrà rivelarsi sempre più attraente ricorrere a quelle forme di protezione legale più direttamente attinenti ed inerenti all’aspetto dei prodotti stessi, a cominciare dal design.

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Se il valore sostanziale della forma del prodotto va dunque identificato nell’attivazione della propensione all’atto d’acquisto, come possiamo riconoscere l’emersione di quel momento, in termini giuridicamente rilevanti, visto che una gradevolezza, un appealing è oggi attribuibile ad ogni forma presente sul mercato? Si è appena visto che secondo questa interpretazione la funzione di indicatore di provenienza in questo caso viene oscurata, emarginata, da cui la limitazione per funzionare (registrare) come marchio.

Vorrei proporre due vie per definire questo spartiacque nel gradiente del livello di attrattività, tra la forma che può e quella che non può ricadere nella funzione tradizionale del marchio, distinguere i prodotti che provengono da una impresa piuttosto che da un’altra. Una dedicata ai giuristi, ed una alle aziende.

In termini legali, vorrei ricordare che la norma richiede l’esclusività [6] della presenza degli elementi costitutivi dell’impedimento, senza peraltro caricarlo – a mio avviso - dell’obbligo di una interpretazione restrittiva conseguente alla sua configurazione di una eccezione rispetto alla regola (registrabilità di marchi di forma), eccezione negata dalla giurisprudenza comunitaria.

La qualificazione dell’esclusività mi induce, piuttosto, a ricorrere all’analogia della distinzione civilistica tra causa e motivi. Questo discrimen, del resto, è del tutto coerente con l’irrilevanza giuridica degli stati soggettivi nel diritto di marchio, ripetutamente affermata sia nella giurisprudenza nazionale con quella comunitaria.

Occorre, in altre parole, verificare sul campo se la determinazione all’atto d’acquisto sia conclusiva, al netto cioè di quelle motivazioni che di norma accompagnano il consumatore in quel contesto: se il marchio di forma ha per oggetto un auto, esso deve permettere al fabbricante di farla distinguere, nello stesso segmento o gamma, da quelle dei concorrenti e farlo percepire come tale dal pubblico di riferimento. Se viceversa l’acquisto dovesse privilegiare la forma dell’autoveicolo – nell’impressione d’insieme risultante da tutte le sue componenti – non basterebbe che l’acquirente la preferisca per il motivo di compiacere la moglie che la desidera per un tono particolare e trendy del colore del nuovo modello. Con pieno rispetto dei desideri delle signore, non mi sembra si potrebbe parlare in tal caso di valore sostanziale. Quanto alle aziende, esse dispongono di strumenti di analisi socio-comportamentali sempre più sofisticati che permettono loro di prevedere in anticipo, con ragionevole approssimazione, la reattività del loro target di fronte alla forma nuova (e non necessariamente originale) dei loro prodotti. Ricerche ed indagini potranno pertanto essere modulate specificamente a tal fine. La importanza degli investimenti nell’innovazione della forma del prodotto ne costituirebbe, del resto, una ulteriore controprova.

P.S. Mentre stavo inviando il testo di questo intervento, apprendo che la Prima Commissione di Ricorso, nel dar corso all’attuazione della sentenza Bang & Olufsen A/S/UAMI citata alla nota 3, ha colmato la reticenza del Tribunale di Prima Istanza, esaminando (finalmente) – con amplissima motivazione - il problema della tutelabilità della forma dell’autoparlante.

Per la cronaca, la CR è pervenuta alle stesse conclusioni dello scrivente, sia per quanto riguarda l’incidenza del comportamento del consumatore, sia l’irrilevanza di motivazioni concorrenti, ma non esclusivamente determinanti dell’atto d’acquisto, quali la qualità delle performances, il prezzo o la qualità del prodotto. Difformemente dalla sentenza del TPI, la Commissione ha ritenuto la forma in esame non registrabile come marchio in quanto attributiva di un valore sostanziale al prodotto e quindi ostativa della registrazione.



[1]CR R 395/1999-3, par.25, 3 maggio 2000, in www.marchiocomunitario.it, 24/2000, e anche in GADI, 2000/4198, il cui commento, peraltro, non sembra cogliere l’essenza del problema.

[2] CR R 164/1998-1, 12 aprile 1999, VALIGERIA RONCATO, par.12. Confermava poi TPI, T‑173/00, 9 ottobre 2002, KWS Saat/UAMI (Tonalità arancio), punto 30; T‑128/01, 6 marzo 2003, DaimlerChrysler/UAMI, (Calandra), punto 43, e T‑129/04, 15 marzo 2006, Develey/UAMI (Forma di una bottiglia di plastica), punto 56.

[3] TPI T‑460/05,10 ottobre 2007, Bang & Olufsen A/S/UAMI, (3D Autoparlante), in www.marchiocomunitario.it, 02/2008, con nota S.SANDRI, Nuova attenzione per il pubblico rilevante?. Anche secondo l’UAMI, “tali forme rivestono un ruolo determinante nella decisione di acquisto del consumatore.”

[4] Trib Milano, 7 ottobre 2002, in GADI , 2003/4523, p.497.

[5] Trib. Venezia, 1 giugno 2007, GILMAR S.P.A., /IMMAGINE EYEWEAR Srl., marchio ICE contro X-ICE, in www.IP-Italjuris.it, 10/2008.

[6] Così, C-408/01, 23 ottobre 2003 - Adidas-Salomon AG, già Adidas AG e Fitnessworld Trading Ltd., (ADIDAS).