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Gli atti di destinazione: brevi note sull’utilizzo nei rapporti familiari

Gli atti di destinazione: brevi note sull’utilizzo nei rapporti familiari
Gli atti di destinazione: brevi note sull’utilizzo nei rapporti familiari

1. Il vincolo di destinazione ex articolo 2645-ter del Codice civile. In generale, aspetti controversi

L’articolo 2645-ter del Codice civile, impropriamente denominato “trust all’italiana”, prevede l’inopponibilità ai terzi del vincolo di destinazione riguardante beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri destinati, per un periodo stabilito, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322 del Codice civile, secondo comma.

Il vincolo non può durare oltre novant’anni o la vita del beneficiario. Deve risultare da atto pubblico (dubbio se possa essere contenuto in un testamento) e va trascritto ai fini della opponibilità verso i terzi.

Come nel trust, l’effetto del vincolo è quello della segregazione dei beni su cui insiste, che rimangono separati dal restante patrimonio dell’autore della destinazione, venendo così sottratti alla disciplina generale di cui all’articolo 2740 del Codice civile. Soltanto creditori qualificati possono infatti  aggredire i beni destinati (ed i loro frutti), quando il credito è sorto in relazione allo scopo da perseguire.

All’effetto segregativo corrisponde dunque un sacrificio delle ragioni dei creditori che, a causa della creazione del vincolo di destinazione, vedono diminuire la garanzia patrimoniale rappresentata dai beni del debitore. I creditori stessi potranno comunque tutelarsi tramite gli ordinari mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, primariamente con lo strumento dell’azione revocatoria.

I beni conferiti devono essere impiegati per il fine stabilito. Il disponente, o qualsiasi altro interessato, possono agire per la realizzazione dello scopo.

Il requisito della meritevolezza del fine perseguito giustifica la deroga alla regola generale sulla garanzia patrimoniale. In difetto dello stesso, secondo la dottrina prevalente, l’atto di destinazione è nullo per mancanza o insufficienza della causa.

Va tuttavia rilevato che non esiste un’univoca interpretazione del concetto di meritevolezza (confronta Rispoli, Riflessioni in tema di meritevolezza degli atti di destinazione, in www.giur.uniroma3.it).

Una parte minoritaria della dottrina, in un’ottica restrittiva, preoccupata anche da un possibile uso fraudolento dell’istituto, ritiene che lo stesso debba rinvenirsi in un interesse di pubblica utilità o di natura etico -solidale (in tal senso anche Tribunale di Vicenza, 31 marzo 2011).

La dottrina prevalente ritiene invece che la meritevolezza si identifichi semplicemente nella liceità dell’atto, vale a dire della sua non contrarietà alle norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume, così come viene comunemente interpretato l’articolo 1322 del Codice civile in tema di autonomia negoziale per il riconoscimento giuridico dei contratti atipici.

Si è poi di recente affermato nella giurisprudenza di merito (Corte di Appello Trieste, 19 dicembre 2013, Tribunale Reggio Emilia 12 maggio 2014) che il giudizio di meritevolezza non vada soltanto correlato alla liceità, ma debba essere ulteriormente verificata la condizione che l’interesse perseguito sia preminente rispetto quello dei creditori e degli aventi causa, che dall’atto possono subire pregiudizio.

Altro punto controverso, non senza ricadute pratiche, è la qualificazione giuridica del vincolo.

Da un lato si tende a considerare il vincolo di destinazione privo natura autonoma, necessitando quindi di un collegamento ad un’altra fattispecie negoziale, tipica o atipica (in tal senso anche Tribunale di Reggio Emilia 27 gennaio 2014).  Il vincolo di destinazione, collocato non a caso nel sesto libro del codice civile tra le norme sulla pubblicità, andrebbe considerato norma non “sugli atti”, ma “sugli effetti”, che devono necessariamente rientrare nel contenuto (eventuale) di un negozio dotato di autonoma causa. La sua peculiarità consisterebbe proprio nella dipendenza della sua efficacia da un atto avente effetti traslativi.

C’è chi ritiene invece che l’articolo 2645 ter abbia introdotto nell’ordinamento un nuovo istituto giuridico, la figura generale del negozio di destinazione,  che ad onta della sua collocazione nel codice civile, non sarebbe semplicemente norma sulla pubblicità, prevedendo invece elementi di disciplina sostanziale quali la durata, l’oggetto, la forma, gli interessi perseguiti e la loro tutela. La norma in questione verrebbe a costituire un vincolo di destinazione  “atipico”, per il quale le finalità non sono prefissate dal legislatore ma rimesse all’autonomia privata, nel rispetto della meritevolezza degli interessi perseguiti.

La genericità del dettato legislativo lascia spazio ad un vasto campo di utilizzo degli atti di destinazione  che possono applicarsi alle situazioni più varie, beneficiario dell’atto può essere in definitiva chiunque. Un limite è semmai da rivenire nei beni oggetto del vincolo, che possono essere soltanto immobili e mobili registrati, diversamente da quanto avviene per il trust che può includere qualsiasi bene di natura economica, quindi anche titoli, denaro o altri beni mobili.

L’atto di destinazione può assumere una struttura unilaterale, bilaterale (es. convenzione matrimoniale, patto di convivenza) od eventualmente plurilaterale.

Vi è infine da osservare la mancanza nell’articolo 2645-ter di qualsiasi disciplina riguardante l’amministrazione dei beni destinati, che rimarrebbe sostanzialmente rimessa all’autonomia privata.

2. Il vincolo di destinazione finalizzato alle esigenze della famiglia di fatto

Il vincolo di destinazione, come peraltro il trust, può trovare una concreta attuazione nell’ambito dei rapporti familiari (confronta Giacomo Oberto, Vincoli di destinazione nelle comunioni di vita, 2014, in www.giacomooberto.com).

Il vincolo potrebbe essere utilizzato dai conviventi more uxorio per rendere inespropriabili determinati beni, destinando gli stessi ed i loro frutti al soddisfacimento dei bisogni familiari (analogamente il Tribunale di Trieste, con Decreto del 19 settembre2007, ha ritenuto legittima la costituzione di un trust da parte del convivente more uxorio a tutela della prole).

Beneficiari dell’atto di destinazione possono essere gli stessi conviventi, nonché i figli, sia quelli nati dalla loro unione, sia quelli avuti da rapporti precedenti.

 In tal modo l’istituto diventa un surrogato del fondo patrimoniale, riservato dal codice alla famiglia fondata sul matrimonio, precluso quindi alle coppie non sposate.

L’utilizzo del negozio di destinazione potrebbe riguardare anche le coppie omosessuali.

La famiglia di fatto gode di un riconoscimento costituzionale, dovendosi annoverare fra le formazioni sociali citate dall’articolo 2 della Costituzione (vedi, fra le altre, Cassazione Civile 3 aprile 2015, n. 6855). Diventa quindi indubitabile la meritevolezza degli interessi tutelati dagli atti di destinazione che la riguardano.

La dottrina tende comunque ad escludere gli atti di destinazione fra persone coniugate in tutti quei casi sia possibile l’utilizzo del fondo patrimoniale, perché, diversamente, si correrebbe il rischio di eludere quelle norme imperative del  fondo patrimoniale che garantiscono il giusto equilibrio fra le parti coinvolte.

3. Il vincolo di destinazione nella separazione e nel divorzio.  Riferimenti giurisprudenziali

L’atto di destinazione può anche servire a vincolare determinati beni per soddisfare gli  obblighi di natura patrimoniali conseguenti alla crisi coniugale.

Lo stesso, come la dottrina e la giurisprudenza di merito hanno avuto modo di affermare, trova spazio nell’ambito nell’ ambito degli accordi patrimoniali fra coniugi in occasione della separazione e del divorzio per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela, quali il mantenimento dei figli e del coniuge economicamente più debole.

Viene riconosciuta l’ammissibilità della costituzione del vincolo in sede di udienza di separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta, dato che il relativo verbale va considerato atto pubblico ex articolo 2699 del Codice civile e, una volta omologato l’accordo, diventa titolo idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari.

Il Tribunale di Reggio Emilia, con Decreto del 23 marzo 2007, in sede di revisione degli accordi di separazione, ha ritenuto rispondente all’interesse della prole l’imposizione di un vincolo di destinazione sui beni immobili trasferiti dal genitore, obbligato a contribuire al mantenimento dei figli, al genitore affidatario, realizzando in tal modo una piena ed efficace garanzia sui beni vincolati.

Il genitore affidatario si impegnava poi, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2645-ter, ad impiegare i frutti degli immobili destinati al pagamento del mutuo ipotecario iscritto sugli stessi ed, una volta estinto il mutuo, ad usarli per il mantenimento della prole.

Veniva disposto un ulteriore vincolo di destinazione che si concretizzava in un divieto di alienazione, in quanto la madre si obbligava a non cedere gli immobili fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica del figlio più giovane.

Nel caso di specie si è riconosciuta l’attitudine del vincolo di destinazione a limitare sia la facoltà di godimento, sia quella di disposizione dei beni che ne sono oggetto.

In un diverso contesto,  lo stesso Tribunale di Reggio Emilia, con pronuncia del 12 maggio 2014,  ha invece censurato l’atto di destinazione col quale veniva vincolata un’abitazione (della quale il disponente rimaneva proprietario) “per esigenze abitative familiari” fino al compimento del quarantesimo anno  della figlia.

Il Tribunale, reputando legittima soltanto l’ipotesi di destinazione traslativa, ha ritenuto  inammissibile che “un soggetto possa dar luogo in via unilaterale alla segregazione o separazione del proprio patrimonio, scindendo la (tendenzialmente) unitaria massa che lo compone in masse distinte aventi carattere autonomo” .

Pertanto il negozio di  destinazione è stato considerato inidoneo a produrre gli effetti di separazione patrimoniale opponibile ai creditori. 

Ancora il Tribunale di Reggio Emilia, con decreto del 7 giugno 2012, ha negato ai nonni che si separano consensualmente la possibilità di destinare una immobile ed i suoi frutti al mantenimento dei propri nipoti fino a quando gli stessi non avranno terminato gli studi e raggiunto l’autosufficienza economica. Pur non mettendo in dubbio la meritevolezza dell’interesse tutelato, per il Tribunale manca, nel caso di specie, un atto traslativo dell’ immobile a favore dei beneficiari, condizione per la sua legittimità, non reputando configurabile un semplice vincolo di destinazione autoimposto sulle quote di comproprietà del bene.

Nello stesso senso restrittivo si era espresso il Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, con Sentenza del 28 novembre 2013, disconoscendo la possibilità dell’auto-destinazione unilaterale di un bene già di proprietà della parte. Il conferente aveva costituito un vincolo su determinati immobili di sua proprietà, conservando la piena titolarità degli stessi, con lo scopo di assicurare la cura e l’assistenza alla madre disabile beneficiaria della destinazione.

4. Osservazioni conclusive

La fumosità del dettato normativo, il deficit di regole sostanziali, l’incertezza del trattamento fiscale (confronta, di recente, Cassazione 24 febbraio 2015 n. 3735), hanno inibito l’utilizzo pratico dell’istituto, in vigore nel nostro ordinamento dall’1 marzo 2006 (ne è la riprova la scarsa giurisprudenza sul tema).

 Gli atti di destinazione costituiscono comunque uno strumento versatile, espressione dell’autonomia negoziale, che può adattarsi alle situazioni più varie, mirando soprattutto a salvaguardare i soggetti che si trovino in una obiettiva condizione di debolezza, in vista della protezione dei loro interessi e della realizzazione delle loro aspirazioni.

Il loro utilizzo nell’ambito delle relazioni familiari si inquadra nel processo in atto di “privatizzazione del diritto di famiglia”, per il quale, come è stato evidenziato in dottrina e giurisprudenza, l’accordo fra coniugi diventa un mezzo ordinario per la regolazione dei rapporti familiari, ritenendo applicabile agli stessi l’articolo 1322 del Codice civile.

La rilevanza dell’autonomia privata nel contesto di cui si discute risponde alla logica del superamento della visione gerarchica della famiglia, ora imperniata sui principi di solidarietà ed uguaglianza fra i coniugi.

1. Il vincolo di destinazione ex articolo 2645-ter del Codice civile. In generale, aspetti controversi

L’articolo 2645-ter del Codice civile, impropriamente denominato “trust all’italiana”, prevede l’inopponibilità ai terzi del vincolo di destinazione riguardante beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri destinati, per un periodo stabilito, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322 del Codice civile, secondo comma.

Il vincolo non può durare oltre novant’anni o la vita del beneficiario. Deve risultare da atto pubblico (dubbio se possa essere contenuto in un testamento) e va trascritto ai fini della opponibilità verso i terzi.

Come nel trust, l’effetto del vincolo è quello della segregazione dei beni su cui insiste, che rimangono separati dal restante patrimonio dell’autore della destinazione, venendo così sottratti alla disciplina generale di cui all’articolo 2740 del Codice civile. Soltanto creditori qualificati possono infatti  aggredire i beni destinati (ed i loro frutti), quando il credito è sorto in relazione allo scopo da perseguire.

All’effetto segregativo corrisponde dunque un sacrificio delle ragioni dei creditori che, a causa della creazione del vincolo di destinazione, vedono diminuire la garanzia patrimoniale rappresentata dai beni del debitore. I creditori stessi potranno comunque tutelarsi tramite gli ordinari mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, primariamente con lo strumento dell’azione revocatoria.

I beni conferiti devono essere impiegati per il fine stabilito. Il disponente, o qualsiasi altro interessato, possono agire per la realizzazione dello scopo.

Il requisito della meritevolezza del fine perseguito giustifica la deroga alla regola generale sulla garanzia patrimoniale. In difetto dello stesso, secondo la dottrina prevalente, l’atto di destinazione è nullo per mancanza o insufficienza della causa.

Va tuttavia rilevato che non esiste un’univoca interpretazione del concetto di meritevolezza (confronta Rispoli, Riflessioni in tema di meritevolezza degli atti di destinazione, in www.giur.uniroma3.it).

Una parte minoritaria della dottrina, in un’ottica restrittiva, preoccupata anche da un possibile uso fraudolento dell’istituto, ritiene che lo stesso debba rinvenirsi in un interesse di pubblica utilità o di natura etico -solidale (in tal senso anche Tribunale di Vicenza, 31 marzo 2011).

La dottrina prevalente ritiene invece che la meritevolezza si identifichi semplicemente nella liceità dell’atto, vale a dire della sua non contrarietà alle norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume, così come viene comunemente interpretato l’articolo 1322 del Codice civile in tema di autonomia negoziale per il riconoscimento giuridico dei contratti atipici.

Si è poi di recente affermato nella giurisprudenza di merito (Corte di Appello Trieste, 19 dicembre 2013, Tribunale Reggio Emilia 12 maggio 2014) che il giudizio di meritevolezza non vada soltanto correlato alla liceità, ma debba essere ulteriormente verificata la condizione che l’interesse perseguito sia preminente rispetto quello dei creditori e degli aventi causa, che dall’atto possono subire pregiudizio.

Altro punto controverso, non senza ricadute pratiche, è la qualificazione giuridica del vincolo.

Da un lato si tende a considerare il vincolo di destinazione privo natura autonoma, necessitando quindi di un collegamento ad un’altra fattispecie negoziale, tipica o atipica (in tal senso anche Tribunale di Reggio Emilia 27 gennaio 2014).  Il vincolo di destinazione, collocato non a caso nel sesto libro del codice civile tra le norme sulla pubblicità, andrebbe considerato norma non “sugli atti”, ma “sugli effetti”, che devono necessariamente rientrare nel contenuto (eventuale) di un negozio dotato di autonoma causa. La sua peculiarità consisterebbe proprio nella dipendenza della sua efficacia da un atto avente effetti traslativi.

C’è chi ritiene invece che l’articolo 2645 ter abbia introdotto nell’ordinamento un nuovo istituto giuridico, la figura generale del negozio di destinazione,  che ad onta della sua collocazione nel codice civile, non sarebbe semplicemente norma sulla pubblicità, prevedendo invece elementi di disciplina sostanziale quali la durata, l’oggetto, la forma, gli interessi perseguiti e la loro tutela. La norma in questione verrebbe a costituire un vincolo di destinazione  “atipico”, per il quale le finalità non sono prefissate dal legislatore ma rimesse all’autonomia privata, nel rispetto della meritevolezza degli interessi perseguiti.

La genericità del dettato legislativo lascia spazio ad un vasto campo di utilizzo degli atti di destinazione  che possono applicarsi alle situazioni più varie, beneficiario dell’atto può essere in definitiva chiunque. Un limite è semmai da rivenire nei beni oggetto del vincolo, che possono essere soltanto immobili e mobili registrati, diversamente da quanto avviene per il trust che può includere qualsiasi bene di natura economica, quindi anche titoli, denaro o altri beni mobili.

L’atto di destinazione può assumere una struttura unilaterale, bilaterale (es. convenzione matrimoniale, patto di convivenza) od eventualmente plurilaterale.

Vi è infine da osservare la mancanza nell’articolo 2645-ter di qualsiasi disciplina riguardante l’amministrazione dei beni destinati, che rimarrebbe sostanzialmente rimessa all’autonomia privata.

2. Il vincolo di destinazione finalizzato alle esigenze della famiglia di fatto

Il vincolo di destinazione, come peraltro il trust, può trovare una concreta attuazione nell’ambito dei rapporti familiari (confronta Giacomo Oberto, Vincoli di destinazione nelle comunioni di vita, 2014, in www.giacomooberto.com).

Il vincolo potrebbe essere utilizzato dai conviventi more uxorio per rendere inespropriabili determinati beni, destinando gli stessi ed i loro frutti al soddisfacimento dei bisogni familiari (analogamente il Tribunale di Trieste, con Decreto del 19 settembre2007, ha ritenuto legittima la costituzione di un trust da parte del convivente more uxorio a tutela della prole).

Beneficiari dell’atto di destinazione possono essere gli stessi conviventi, nonché i figli, sia quelli nati dalla loro unione, sia quelli avuti da rapporti precedenti.

 In tal modo l’istituto diventa un surrogato del fondo patrimoniale, riservato dal codice alla famiglia fondata sul matrimonio, precluso quindi alle coppie non sposate.

L’utilizzo del negozio di destinazione potrebbe riguardare anche le coppie omosessuali.

La famiglia di fatto gode di un riconoscimento costituzionale, dovendosi annoverare fra le formazioni sociali citate dall’articolo 2 della Costituzione (vedi, fra le altre, Cassazione Civile 3 aprile 2015, n. 6855). Diventa quindi indubitabile la meritevolezza degli interessi tutelati dagli atti di destinazione che la riguardano.

La dottrina tende comunque ad escludere gli atti di destinazione fra persone coniugate in tutti quei casi sia possibile l’utilizzo del fondo patrimoniale, perché, diversamente, si correrebbe il rischio di eludere quelle norme imperative del  fondo patrimoniale che garantiscono il giusto equilibrio fra le parti coinvolte.

3. Il vincolo di destinazione nella separazione e nel divorzio.  Riferimenti giurisprudenziali

L’atto di destinazione può anche servire a vincolare determinati beni per soddisfare gli  obblighi di natura patrimoniali conseguenti alla crisi coniugale.

Lo stesso, come la dottrina e la giurisprudenza di merito hanno avuto modo di affermare, trova spazio nell’ambito nell’ ambito degli accordi patrimoniali fra coniugi in occasione della separazione e del divorzio per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela, quali il mantenimento dei figli e del coniuge economicamente più debole.

Viene riconosciuta l’ammissibilità della costituzione del vincolo in sede di udienza di separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta, dato che il relativo verbale va considerato atto pubblico ex articolo 2699 del Codice civile e, una volta omologato l’accordo, diventa titolo idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari.

Il Tribunale di Reggio Emilia, con Decreto del 23 marzo 2007, in sede di revisione degli accordi di separazione, ha ritenuto rispondente all’interesse della prole l’imposizione di un vincolo di destinazione sui beni immobili trasferiti dal genitore, obbligato a contribuire al mantenimento dei figli, al genitore affidatario, realizzando in tal modo una piena ed efficace garanzia sui beni vincolati.

Il genitore affidatario si impegnava poi, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2645-ter, ad impiegare i frutti degli immobili destinati al pagamento del mutuo ipotecario iscritto sugli stessi ed, una volta estinto il mutuo, ad usarli per il mantenimento della prole.

Veniva disposto un ulteriore vincolo di destinazione che si concretizzava in un divieto di alienazione, in quanto la madre si obbligava a non cedere gli immobili fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica del figlio più giovane.

Nel caso di specie si è riconosciuta l’attitudine del vincolo di destinazione a limitare sia la facoltà di godimento, sia quella di disposizione dei beni che ne sono oggetto.

In un diverso contesto,  lo stesso Tribunale di Reggio Emilia, con pronuncia del 12 maggio 2014,  ha invece censurato l’atto di destinazione col quale veniva vincolata un’abitazione (della quale il disponente rimaneva proprietario) “per esigenze abitative familiari” fino al compimento del quarantesimo anno  della figlia.

Il Tribunale, reputando legittima soltanto l’ipotesi di destinazione traslativa, ha ritenuto  inammissibile che “un soggetto possa dar luogo in via unilaterale alla segregazione o separazione del proprio patrimonio, scindendo la (tendenzialmente) unitaria massa che lo compone in masse distinte aventi carattere autonomo” .

Pertanto il negozio di  destinazione è stato considerato inidoneo a produrre gli effetti di separazione patrimoniale opponibile ai creditori. 

Ancora il Tribunale di Reggio Emilia, con decreto del 7 giugno 2012, ha negato ai nonni che si separano consensualmente la possibilità di destinare una immobile ed i suoi frutti al mantenimento dei propri nipoti fino a quando gli stessi non avranno terminato gli studi e raggiunto l’autosufficienza economica. Pur non mettendo in dubbio la meritevolezza dell’interesse tutelato, per il Tribunale manca, nel caso di specie, un atto traslativo dell’ immobile a favore dei beneficiari, condizione per la sua legittimità, non reputando configurabile un semplice vincolo di destinazione autoimposto sulle quote di comproprietà del bene.

Nello stesso senso restrittivo si era espresso il Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, con Sentenza del 28 novembre 2013, disconoscendo la possibilità dell’auto-destinazione unilaterale di un bene già di proprietà della parte. Il conferente aveva costituito un vincolo su determinati immobili di sua proprietà, conservando la piena titolarità degli stessi, con lo scopo di assicurare la cura e l’assistenza alla madre disabile beneficiaria della destinazione.

4. Osservazioni conclusive

La fumosità del dettato normativo, il deficit di regole sostanziali, l’incertezza del trattamento fiscale (confronta, di recente, Cassazione 24 febbraio 2015 n. 3735), hanno inibito l’utilizzo pratico dell’istituto, in vigore nel nostro ordinamento dall’1 marzo 2006 (ne è la riprova la scarsa giurisprudenza sul tema).

 Gli atti di destinazione costituiscono comunque uno strumento versatile, espressione dell’autonomia negoziale, che può adattarsi alle situazioni più varie, mirando soprattutto a salvaguardare i soggetti che si trovino in una obiettiva condizione di debolezza, in vista della protezione dei loro interessi e della realizzazione delle loro aspirazioni.

Il loro utilizzo nell’ambito delle relazioni familiari si inquadra nel processo in atto di “privatizzazione del diritto di famiglia”, per il quale, come è stato evidenziato in dottrina e giurisprudenza, l’accordo fra coniugi diventa un mezzo ordinario per la regolazione dei rapporti familiari, ritenendo applicabile agli stessi l’articolo 1322 del Codice civile.

La rilevanza dell’autonomia privata nel contesto di cui si discute risponde alla logica del superamento della visione gerarchica della famiglia, ora imperniata sui principi di solidarietà ed uguaglianza fra i coniugi.