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Trust interno di criptovalute: un approccio critico - II parte

Cryptocurrencies held on trust in the internal system: a critical approach – II part
perso nel bosco
Ph. Marco Rigamonti / perso nel bosco

Trust interno di criptovalute: un approccio critico - II parte

Abstract

La seconda parte di questo contributo, senza alcuna pretesa di fornire una soluzione operativa, prende in considerazione i problemi legali e pratici che i trustee devono affrontare quando il fondo in trust è composto anche da criptovalute.

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Abstract

The second part of this contribution, without any claim to provide an operational solution, considers the legal and practical problems that trustees have to face when the trust fund is also made up of cryptocurrencies.

 

Sommario:

1. Premessa

2. Volatilità

3. Custodia

4. Antiriciclaggio

5. Una considerazione conclusiva

 

Summary:

1. Introduction

2. Volatility

3. Custody

4. Anti-Money laundering

5. A concluding remark

 

 

1. Premessa

L’ingresso delle transazioni in criptovalute, sotto forma di dotazione o incremento del fondo, presenta criticità di notevole entità anche nell’ambito del diritto dei trust. In particolare, la detenzione in trust di criptovalute si traduce per il trustee in una duplice sfida riconducibile, da un lato, alla connaturata volatilità che contraddistingue la maggior parte delle valute virtuali, dall’altro, all’esigenza di custodire in modo sicuro queste "novel technologies" assumendo, di conseguenza, rischi non convenzionali.

Oggettive difficoltà riguardano, inoltre, il c.d.”pseudo-anonimato” intrinseco del possesso di valori digitali che circolano nell’ecosistema cripto nel momento in cui detta caratteristica si confronta con il regime normativo dei controlli antiriciclaggio in ottemperanza del quale il trustee è tenuto ad operare.

 

2. Volatilità

In quanto mero costrutto di tipo informatico, privo di un intrinseco valore, diretto e indiretto, e slegato da una sottostante attività economica reale, la criptovaluta poggia la sua valutazione su di una fonte esclusivamente esterna, condizionata dal volume di scambi con altre valute e rispondente ad una logica di domanda-offerta fortemente instabile, caratterizzata da operazioni (troppo) spesso speculative di tipo "buy and hold" e priva di qualsiasi supporto istituzionale: invero, in una rete decentralizzata di utenti di criptovalute, basata su di un protocollo di tipo blockchain, manca, per definizione, un intermediario od emittente centrale incaricati di stabilizzare, mediante politiche monetarie ad hoc, il valore della valuta virtuale. Ne discende, inevitabilmente, una elevata volatilità di breve periodo della risorsa digitale alla quale si accompagna, di riflesso, un corrispondente potere d’acquisto profondamente mutevole e poco prevedibile nel tempo.

Non stupisce, dunque, se il fenomeno cripto, etichettato ormai comunemente come l’archetipo informatico di una dimensione – "bolla" – altamente speculativa, rappresenti per qualunque trustee una realtà "uncomfortable", scomoda.

Invero, come può il trustee esercitare un’attività gestoria connessa ad un mercato nuovo, altamente speculativo e volatile, come quello virtuale, agendo nel contempo in ossequio al “duty of care” al quale è improntato lo svolgimento del suo ufficio?

Entrando più nello specifico, il trustee che accetti criptovalute, in dotazione o sotto forma di incremento del fondo in trust, o che consideri affidabile "investire" i beni in trust nella sfera cripto, sarebbe in grado di coniugare la gestione di valori, dalla natura giuridica attualmente incerta ed aperta[1] e caratterizzati da un rapporto rischio(volatilità)-rendimento non ponderabile, con il dovere di salvaguardare il fondo in trust preservandone l’integrità (e incrementandone, ove possibile, il valore) in funzione dell’attuazione del programma negoziale imposto dal disponente?

In verità, l’impressione che si ha è quella di trovarsi di fronte ad un ossimoro.

La questione, d’altro canto, non ha un’implicazione puramente teorico-astratta: il mancato rispetto dell’obbligo da parte del trustee di preservare la consistenza dei beni in trust può, come noto, integrare un’ipotesi di violazione della fiducia, breach of trust, con conseguente responsabilità patrimoniale a suo carico e, se del caso, correlativa condanna personale mediante revoca del medesimo trustee e nomina di un nuovo trustee.

 

3. Custodia

La salvaguardia del patrimonio in trust ricomprende, a cascata, uno specifico dovere di custodia: il trustee è tenuto a proteggere i beni in trust conservandone l’integrità, sia materiale che giuridica, e curando che siano assicurati qualora si tratti di beni soggetti ad andare perduti o ad essere danneggiati.

È evidente come la custodia delle risorse virtuali detenute in trust comporti per il trustee un’ulteriore sfida, la cui dinamica si presenta, se possibile, ancor più delicata e complessa, in quanto reclama la sicurezza delle chiavi crittografiche, pubblica e privata, gestite in un portafoglio digitale, necessarie per movimentare le unità di conto virtuali ad esse associate. Ebbene, dal momento che il possesso della chiave privata equivale nella sostanza ad esercitare il controllo sulle transazioni in criptovalute, il trustee è tenuto ad acquisire una solidità infrastrutturale, giuridica e tecnologica, indispensabile per prevenire o (almeno) circoscrivere il rischio di subire ingenti e irreversibili perdite economiche in danno del fondo in trust, cagionabili tanto da eventi intenzionali (basti pensare, ad esempio allo smarrimento della perdita dal parte del trustee della chiave privata o al verificarsi di un guasto nel  funzionamento della stessa[2]), quanto da eventi intenzionali, come l’attuazione di condotte fraudolente e malevoli di terze parti, intermediarie e non (ex multis furti informatici, attacchi hacker, malware).

Sotto un profilo giuridico sarebbe d’aiuto, anche se certamente non risolutivo, predisporre coperture assicurative specifiche e mirate. Al riguardo, il settore assicurativo italiano si è dimostrato estremamente cauto e poco ricettivo, per non dire riluttante; né risposte più soddisfacenti sono giunte dal mercato internazionale: recentemente, gli esperti del team DART (Digital Asset Risk Transfer) di Marsh hanno descritto il mercato assicurativo delle criptovalute “hesitant and uncertain.

Sul piano informatico la conservazione delle chiavi private sembra, invece, aver trovato maggiori garanzie di sicurezza attraverso l’adozione di portafogli digitali che implementano un sistema c.d. multi-firma (multi-sig), ovvero un protocollo che richiede l’utilizzo di più chiavi private, e quindi più firme, per validare le transazioni: devono essere impiegate m-di-n[3] (m-of-n) chiavi private affinché dette transazioni vengano autorizzate.

L’impiego della funzione multi-sig con ridondanze presenta due fondamentali vantaggi: rende il portafoglio digitale meno vulnerabile e permeabile da reati informatici[4] e riduce, allo stesso tempo, la sua dipendenza dal singolo utente[5]. In questo modo, nell’ipotesi in cui si verificasse lo smarrimento o il furto di una delle chiavi private o il decesso di uno dei possessori, il valore digitale associato non andrebbe perduto, ma potrebbe essere "recuperato" mediante le chiavi private rimaste e non corrotte senza, quindi, alcun nocumento patrimoniale per l’utente[6].

Nel caso di gestione in trust di criptovalute, si potrebbe ricorrere ad un protocollo multi-sig 2:3, basato cioè su 3 (tre) chiavi private, affidate a tre soggetti distinti; condizione necessaria e sufficiente per effettuare validamente una transazione è la disponibilità di (solamente) 2 (due) chiavi su 3 (tre), l’una nel possesso del trustee, la seconda del guardiano. Ne scaturisce che se il trustee non è in grado di gestire autonomamente le risorse digitali senza la firma e, quindi, il controllo del guardiano, a sua volta, il guardiano, nella sua qualità, può autorizzare una transazione in criptovalute o rifiutare la sua validazione ove ne riscontrasse la contrarietà ai dettami contenuti nell’atto istitutivo.

Una soluzione progettuale di questo tipo sembra replicare in linea teorica la dinamica del rapporto che si instaura tra il trustee, proprietario e gestore fiduciario dei beni in trust, e il guardiano, soggetto preposto a collaborare e a vigilare sull’attività del primo "affinché l’affidamento trovi il proprio felice compimento"[7].

Ad uno sguardo più attento, tuttavia, la realtà dei fatti è cosa ben diversa. Nell’ambiente bitcoin frequente è l’asserzione secondo la quale il possesso della chiave privata costituisce titolo di proprietà delle valute virtuali ad essa associate[8]; ma se ciò è vero, viene spontaneo chiedersi: il guardiano, che ha la gestione e, quindi, il controllo diretto su una delle chiavi private, potrebbe essere considerato (co)proprietario, del pari e unitamente al trustee, delle criptovalute detenute in trust? Conseguentemente, la sua veste non dovrebbe essere più correttamente riqualificata, in fatto e in diritto, nei termini di co-trustee?!

 

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