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Caso Uber: volevamo braccia e arrivarono… in bici

Uber
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Abstract

L’ennesimo caso di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nel nostro Paese passa, questa volta, per il settore della consegna di cibo a domicilio: è il c.d. caporalato digitale. Lo sfruttamento dei ciclo-fattorini, per lo più migranti richiedenti asilo, oltre a dimostrare che il caporalato è un fenomeno criminale che riguarda anche settori diversi da quelli che tradizionalmente gli vengono attribuiti (agricoltura ed edilizia), impone una più ampia riflessione anche sulla vera natura della c.d. gig economy.

 

Indice:

1. Gig economy, caporalato grigio e caporalato nero

2. Uber e lo sfruttamento dei ciclo-fattorini

3. Lo “stato di bisogno” del lavoratore sfruttato

 

1. Gig economy, caporalato grigio e caporalato nero

«Il forte isolamento sociale in cui vivono questi lavoratori immigrati offre l’opportunità di reperire lavoro a bassissimo costo poiché si tratta di persone disposte a tutto per avere i soldi per sopravvivere, sfruttate e discriminate da datori di lavoro senza scrupoli che avvertono in loro il senso del sentirsi costretti a lavorare per non vedere fallito il proprio sogno migratorio e quindi disposti a fare non solo i lavori meno qualificati e più pesanti ma anche ad essere pagati poco e male»[1].

Leggendo queste parole potrebbero venire alla mente contesti rurali. Si potrebbe pensare alle campagne del sud Italia; a baraccopoli improvvisate e al degrado abitativo; a criminali stranieri (naturalmente stranieri) che sfruttano fin quasi a schiavizzare altri stranieri, magari loro connazionali; a uomini stipati in furgoni che si muovono alle prime luci dell’alba, in direzione dei campi.

Tutto molto lontano da noi e dai nostri centri urbani, luoghi di modernità, diritti e civiltà.

La nota citazione che, parafrasata, dà titolo a questo articolo vuole, invece, essere indizio di una storia diversa. Difatti le parole sopra riportate riguardano una triste storia che si è svolta, non nelle campagne del Meridione, ma nelle principali città italiane (Milano, Roma, Torino, Firenze, etc.), percorse in lungo e in largo su due ruote da ciclo-fattorini stranieri che consegnavano cibo a domicilio.

Si trattava di immigrati reclutati non da loro connazionali senza scrupoli, ma da società italiane, e il cui lavoro era organizzato, non da criminali e trafficanti di uomini, ma da un’applicazione informatica di una nota società con sede in Olanda.

È l’ennesima dimostrazione della radicazione di pratiche diffuse di sfruttamento lavorativo nel nostro Paese, ma è anche qualcosa di più: una narrazione diversa della c.d. gig economy. Difatti la tanto decantata piena autonomia dei lavoratori e l’attività di mero incontro fra domanda e offerta che dovrebbe fornire la piattaforma digitale, lasciano spazio, nel racconto di realtà fatto dai giudici milanesi, a penetranti ingerenze e ad abusi nell’organizzazione e nella gestione dell’attività lavorativa.

Il decreto n. 9/2020 del Tribunale di Milano è il primo provvedimento giudiziario che tratta “frontalmente” il tema del c.d. “caporalato digitale”. È un provvedimento importante anche perché riconosce al reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, di cui all’articolo 603 bis Codice Penale, un ambito di applicazione più ampio rispetto a quello che, anche nell’immaginario collettivo, gli viene normalmente attribuito.

Difatti non esiste solo il c.d. “caporalato nero”, e cioè quelle forme para-schiavistiche di sfruttamento del lavoro che si consumano nella più completa illegalità, nelle quali il lavoratore è quasi totalmente assoggettato al dominio di un intermediario/padrone. Esiste anche e si va sempre più diffondendo (come questa vicenda dimostra) il c.d. “caporalato grigio”, e cioè forme di sfruttamento lavorativo che si celano dietro una parvenza di legalità del rapporto di lavoro e che non implicano il totale assoggettamento del lavoratore.

D’altronde il caporalato è «parte di un modello sociale che può considerarsi vasto, complesso e trasversale, non circoscrivibile dentro categorie sociologiche rigide […] A questo modello “liquido” e resistente di impresa non importa il colore della pelle del lavoratore, i suoi tratti estetici o la sua condizione giuridica, quanto, invece, la sua fragilità sociale, la sua vulnerabilità e ricattabilità…»[2].

 

2. Uber e lo sfruttamento dei ciclo-fattorini

Il Tribunale di Milano ha applicato ad Uber Italy s.r.l. la misura dell’amministrazione giudiziaria ex articolo 34 d.lgs. 159/2011 (c.d. Codice antimafia) per aver agevolato la realizzazione del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex articolo 603-bis Codice Penale.

Come detto la questione riguarda lo sfruttamento dei riders, reclutati dalla multinazionale della consegna cibo a domicilio, in diverse città del nostro Paese, per il tramite di due società italiane. I ciclo-fattorini erano in buona parte migranti richiedenti asilo, dimoranti presso centri di accoglienza.

In sostanza Uber affidava le consegne a due società di logistica che, per così dire, “subappaltavano” le consegne degli ordini fatti sulla piattaforma digitale ai riders (collaboratori occasionali).

Dalla sentenza emerge che queste società di “reclutamento” dei ciclo-fattorini:

  1. pagavano i riders a cottimo con una somma pari a tre euro netti per consegna (a prescindere dai Km percorsi, dalle condizioni meteo, dalle ore di connessione, dall’orario, dai giorni festivi) e che questa somma era inferiore rispetto a quella pagata dal committente Uber;
  2. detraevano dai tre euro per consegna ulteriori importi a titolo di penale per mancate accettazioni di consegne o per cancellazioni di consegne;
  3. non dichiaravano né versavano la quasi totalità delle ritenute operate nei confronti dei riders;
  4. trattenevano indebitamente le somme elargite dai clienti a titolo di mancia;
  5. trattenevano altrettanto indebitamente le somme corrisposte dai riders a titolo di cauzione per il materiale consegnato (80 euro per la borsa di lavoro).

D’altra parte i giudici milanesi attribuiscono a Uber Italy s.r.l. una condotta “colposa” (quindi negligente, imprudente o imperita) che ha contribuito a realizzare i presupposti dello sfruttamento lavorativo.

Difatti, si legge nella sentenza, «in netto contrasto con la vulgata che vede Uber come una informale piattaforma con nessun rapporto con i riders e che si limita a mettere in contatto ristoratori e clienti», la società in questione, attraverso alcuni suoi dipendenti, partecipava a sanzionare i riders e incideva pesantemente sui turni di lavoro: nonostante i ciclo-fattorini fossero formalmente assunti con contratto di lavoro autonomo occasionale «la pianificazione delle fasce orarie su talune città veniva preventivamente ed effettivamente indicata da UBER».

Secondo i giudici milanesi è evidente che l’applicazione di penalità (fra cui l’inibizione temporanea o definitiva dell’accesso alla piattaforma) «obbligava i ciclo-fattorini a turni di lavoro massacranti, in cui sono forzati ad accettare il maggior numero di consegne possibili al fine di […] guadagnare almeno i 3 euro “promessi” per consegna […] Questo aspetto legato alle penalità applicate ai pagamenti […] obbliga i fattorini a percepire che per guadagnare di più devono effettuare più consegne, ergo, devono restare loggati nell’applicazione il maggior tempo possibile al fine di aumentare le possibilità di evadere il maggior numero di ordini. Ne deriva, pertanto, una limitata autonomia nella scelta dei tempi e degli orari di lavoro da parte del lavoratore, costretto a ritmi sempre più intensi e frenetici, con tutte le ricadute di stress e rischi dovute alla necessità di essere celeri nelle consegne, nettamente in contrasto con quanto previsto dalla forma contrattuale scelta […] caratterizzata, appunto, dalla completa autonomia del lavoratore circa i tempi e le modalità di esecuzione del lavoro».

Inoltre, si legge ancora nella sentenza, «Uber forniva all’intermediario […] indicazioni sul numero di fattorini cui era “consentito” lavorare nelle fasce orarie in cui bisognava garantire la presenza di un adeguato numero di riders a garanzia del successo del servizio (ad esempio pranzo e cena) limitando l’accesso alla piattaforma negli slot orari meno performanti come la mattina o il pomeriggio in cui minori sono gli ordini da evadere».

 

3. Lo “stato di bisogno” del lavoratore sfruttato

È interessante notare come il Tribunale di Milano, con questa pronuncia, sia andato oltre la mera verifica della sussistenza degli indici di sfruttamento forniti dal legislatore (la reiterata violazione della normativa in materia di orario di lavoro, delle norme in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, etc.), ponendo l’accento anche sulla vulnerabilità e sull’isolamento sociale dei fattorini stranieri sfruttati.

Infatti in diversi passaggi della sentenza si coglie la particolare attenzione che i giudici milanesi hanno dedicato allo stato di bisogno del lavoratore sfruttato.

Approfittare dello stato di bisogno del lavoratore è elemento caratteristico della condotta delittuosa di cui all’articolo 603-bis Codice Penale, sia nel caso del reclutamento che in quello dell’utilizzo della manodopera sfruttata; tuttavia tale elemento viene spesso a coincidere con la “semplice” accettazione di condizioni sfavorevoli di lavoro per il soddisfacimento delle esigenze di vita.

D’altronde il riferimento alla nozione di “stato di bisogno”, quale elemento che completa la fattispecie delittuosa, sottende una questione che riguarda il capitalismo come sistema di produzione: come tracciare la linea che separa il “fisiologico” (e quindi legittimo) sfruttamento del lavoratore, da quello “patologico” (e quindi illegittimo)?[3] 

La questione rimane aperta, ma i giudici milanesi sembrano aggiungere un elemento di novità soffermandosi più volte sulla particolare fragilità delle vittime

Tengono, infatti, a precisare che buona parte dei riders reclutati «proveniva da zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e altri) la cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare e lontananza dai propri familiari», e che si trattava di un «regime di sopraffazione retributivo e trattamentale attuato nei confronti di molteplici lavoratori reclutati in una situazione di emarginazione sociale e quindi di fragilità sul piano di una possibile tutela dei diritti minimi […] – situazione aggravata dall’emergenza sanitaria a seguito della quale l’utilizzo dei riders è progressivamente aumentato a causa della richiesta determinata dai restringimenti alla libertà di circolazione della popolazione».

Queste puntualizzazioni sono indubbiamente apprezzabili poiché la vulnerabilità personale, l’isolamento e l’emarginazione sociale, si affiancano alla precarietà della condizione giuridica e alla tendenza largamente diffusa a considerare i lavoratori stranieri solo come manodopera, ignorando il loro essere innanzitutto persone[4].

L’insieme di questi fattori contribuisce alla diffusione, purtroppo sempre più capillare e allarmante, di fenomeni di sfruttamento criminale del lavoro straniero nel nostro Paese.

Trib. Milano, Sezione Misure di Prevenzione, decreto 28 maggio 2020, n. 9:

https://drive.google.com/file/d/1c_qTD93PkFb2oPamdAipBLL9gDTpSGWy/view

 

[1] Trib. Milano, Sez. mis. Prev., decreto 28 maggio 2020, n. 9.

[2] Corte d’Assise di Lecce, sent. n. 2/17 del 13.07.2017, dep. 25.10.2017.

[3] Cfr. Monica McBritton, Migrazioni economiche e ordinamento italiano – Una prospettiva giuslavoristica, ed. Cacucci, Bari, pag. 168.

[4] Ivi, pag. 28.