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Eppur si muove: prove qualificate di erosione di un monolite illiberale che “… infiniti addusse lutti …” ai principi ed ai valori dello stato di diritto

Interdittive antimafia
Interdittive antimafia

Diceva sempre “la matita di Dio” Madre Teresa di Calcutta: “non maledire il buio, accendi una candela”! Una luce anche se tenue e fioca può illuminare la via del pensiero e dell’anima.

Queste profetiche parole le ho sempre custodite quale tesoro inestimabile nel  mio cuore e nella mia mente, in particolare nell’esercizio della mia attività di ricerca; parole che sono tornate in me, con piacevole prepotenza, qualche giorno fa, allorché ho avuto modo di leggere lo splendido articolo di un amico il quale, nel suo scritto[1], ha icasticamente ricordato che anche quando si pensa che non tutto vada per il meglio o si ha addirittura la percezione che tale stato negativo purtroppo pare dilatarsi, residua, pur sempre, quella che i latini chiamavano “l’ultima Dea”, ossia la speranza

Orbene in forza della luce ancorché fioca di quella candela ideale, io continuo, con costanza e fiducia, a perseguire il fine, per me nobile, di difendere la speranza, e nel contempo di dare il mio personale contributo alla riaffermazione dei principi ed i valori propri dello Stato di diritto.

È questa la terza volta, con i miei scritti[2] nonché nelle ormai plurime occasioni di incontri pubblici in tutta Italia, ai quali sono stato invitato ad esprimere il mio pensiero in materia di interdittive antimafia, che ribadisco di continuare a ritenere, in uno con l’insieme tutto della legislazione “antimafia”, dette norme concettualmente e strutturalmente sbagliate e profondamente illiberali.

Non sto qui a ripetere le considerazioni già rappresentate in altri lavori e che mi hanno portato a dissentire totalmente dalla vulgata del pensiero unico corrente che tanti lutti, per riprendere parte del titolo di questo intervento, ha provocato ai valori della civiltà giuridica nonché tangibili disastri nel tessuto economico ed imprenditoriale italiano e del Sud in particolare.

Continuo a ritenere ancora che la nobile e serissima esigenza di contrastare la criminalità organizzata possa essere affrontata e vinta rispettando il sistema di garanzie proprie dello Stato di diritto identificando il diritto non già con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere. Non è infatti la legge che fonda la verità, ma è la verità che dà fondamento alla legge. Le leggi devono essere il frutto della coscienza di un popolo e non già espressioni impositivamente definite dall’alto. Il popolo, infatti, rispetta le leggi perché le sente come sue, perché ne è partecipe e ne è profondamente e coscientemente orgoglioso.

Una norma per essere rispettata deve essere essa stessa rispettabile nel senso che non deve essere foriera di arrecare pregiudizi di sorta né di ostacolare la convivenza civile all’interno della comunità nella quale va ad incidere, ma soprattutto non deve essere mai percepita dai consociati ingiusta come, invece, si manifesta e si sostanzia quella relativa alle interdittive antimafia, la cui funzione preventiva, allo stato attuale prefigurata, si determina, nella migliore delle ipotesi, quale operazione di astratto valore deduttivo.

La stessa dovrebbe invece apparire dato permeato di elementi univoci, rilevanti ed idonei ad evidenziare, non suppostamente, ma in modo concreto e paradigmatico, le forme (dirette ed indirette) del condizionamento da parte della criminalità organizzata.

L’interdittiva, a mio avviso, al di là della non corretta attuale vulgata giurisprudenziale, non può mai essere considerata atto preventivo di natura cautelare in senso proprio, bensì, momento provvedimentale definitivamente conclusivo del procedimento.

In buona sostanza ed a ben riflettere, così come allo stato concepito, esso si manifesta piuttosto come documento di stampo meramente politico, anzi sociologico, una misura di astratta previsione sociale quasi sempre sorretta dall’insignificante stereotipo rappresentato dalle generiche informazioni riferite come acquisite “dalle Forze di Polizia” che, invece, al contrario anche di quanto erroneamente ritenuto dall’attuale giurisprudenza, riflette unicamente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra impresa e P.A.

In ragione di questa che a me appare evidenza più che lapalissiana va considerato il riferimento fatto all’inizio di questo scritto alla luce della candela che, anche se oggi apparentemente fioca, consente di intravedere la possibilità di una svolta capace finalmente di iniziare ad erodere il tetragono monolite normativo, avallato da una pressoché monocorde interpretazione giustiziale che sin qui, salvo rare eccezioni, ha ipotizzato di delineare concettualmente un’isola che non c’è, i cui paradigmi di riferimento – sui quali poggia siffatta, a mio avviso, impropria costruzione ermeneutica del G.A. – sono rappresentati dalla classificazione dell’istituto quale fattispecie di pericolo che viene considerata vera e propria pietra angolare del sistema normativo c.d. “antimafia” a cui è riconnessa la precipua finalità di liberare il corpo sociale dalla pressione delle organizzazioni criminali attraverso l’ausilio dell’ormai standardizzato evanescente criterio probatorio del più probabile che non” suppostamente fondato su indizi gravi, precisi e concordanti e su dati conoscitivi utilizzabili, sia di natura tipica che atipica.

Spero proprio che detta luce, al contrario del portato del celeberrimo “valzer delle candele” di Robet Burns, non si spenga mai ed anzi pian pianino, contribuisca a smontare tale improprio costrutto e ad espungere dal nostro ordinamento la norma illiberale oggetto dell’odierna analisi, e che questa piccola fiamma, in quanto bagliore di speranza, abbia la forza ideale di innestare, assieme a tante altre luci di eguale, anzi meglio se di maggior tenore ed incisività rispetto alla mia, un sano processo di riaffermazione dei valori e dei principi dello Stato di diritto che rafforzino in termini non soltanto di mera legalità (che non si dimentichi essere soltanto un metodo, che, fra l’altro, va inscindibilmente correlato al principio di libertà), ma anche e soprattutto di giustizia (vero ed unico immortale valore sempre da perseguire), una concreta, e non soltanto di maniera, lotta alla criminalità organizzata.  

Questa luce, peraltro già dogmaticamente individuata ed espressa sia pure da un numero ristretto di giuristi, spero possa trovare finalmente una sua degna collocazione anche in sede giustiziale, con grande soddisfazione e plauso, per quel che vale, da parte mia.

La breccia nel muro del costante e monocorde leitmotiv delle decisioni giustiziali sin qui espresse, ciascuna delle quali pressoché sovrapponibili l’una all’altra, in quanto tutte rigorosamente informate e soggiacenti al mantra del politicamente corretto, è stata aperta, con il coraggio della ragione – che si è  finalmente posto in contrasto con l’ovattato e primordiale istinto di conservazione del pedissequo stare decisis di un non esaltante orientamento sin qui consolidato – dalla III Sezione del T.A.R. della Puglia con l’ordinanza n. 28 del 13 gennaio 2020

È forse questo significativo baleno la risposta all’interrogativo posto da Bertolt Brecht: ci sarà pure un giudice a Berlino? Non lo so, ma di certo comunque impartisce un ben assestato colpo di maglio ad una impalcatura concettuale sin qui estremamente rigida, e per ciò stesso, come ci insegna la scienza antisismica, altrettanto fragile.

Quanto, infatti, evidenziato dall’ordinanza sopra richiamata del TAR della Puglia con la quale, con spirito di presidio giustiziale degno assertore dei principi propri dello Stato di diritto, quel Collegio ha decretato con più che doviziosa motivazione che occorre finalmente dire stop ad interdittive di mafia arbitrarie ed ha, con scienza e correttezza metodologica, chiesto l’intervento della Corte di Giustizia dell’UE perché chiarisca se il codice antimafia, nella parte in cui, con un provvedimento fondato su, supposti, “risalenti rapporti” – viepiù in assenza di sentenze di condanna  e senza che sia emerso nel tempo, alcun condizionamento, nelle decisioni cruciali per la vita della società interdetta, ad opera di esponenti della criminalità – non prevede il contraddittorio in favore del soggetto destinatario di provvedimento c.d. antimafia, sia in linea con il diritto dell’UE.

Il TAR di Bari, adottando l’ordinanza n. 28/2020, ha evidenziato che il provvedimento di interdittiva sottoposto al suo esame è stato assunto dall’autorità prefettizia senza alcun contraddittorio tra la P.A. ed i soci della società, e, quindi, in totale assenza della essenziale fase partecipativa del procedimento amministrativo in ragione (per vero soltanto astrattamente commendevole) della necessità di anticipare l’eventuale pericolo di infiltrazione. 

Gli stessi giudici di Bari – al pari di quanto da me, a più riprese considerato – hanno correttamente sostenuto che il provvedimento di interdittiva non costituisce misura provvisoria e strumentale bensì “atto conclusivo del procedimento avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili ed inemendabili”, dal momento che l’interdittiva ha come effetto “la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore (a tal proposito è agghiacciante la frase contenuta in una sentenza del G.A. nella quale si è sostenuto che l’interdittiva “è come un diamante: eterna).

Infatti la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che da quel momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei rapporti con la P.A. dal quale vengono estromessi, costituisce l’equivalente di una sostanziale condanna a morte.

In ogni caso, ed in ragione di ciò, non appare revocabile in dubbio che il provvedimento di interdittiva giammai possa essere considerato parte dei provvedimenti interinali e cautelari che consentono di escludere la necessità del contraddittorio, viepiù che la doverosa partecipazione al procedimento amministrativo, che deve essere garantita attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario del ricordato provvedimento interdittivo, “non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui riguardi opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al provvedimento conclusivo”. In buona sostanza il contraddittorio tra Prefetto ed impresa “assume importanza essenziale ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove ed argomenti convincenti per ottenere un’interdittiva liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli”.

Inoltre, e questa è cosa di non poco momento, va considerato che l’effetto del provvedimento interdittivo, così come oggi normativamente concepito e giustizialmente interpretato, determina la sostanziale messa al bando dell’impresa, senza che di contro sussistano, il più delle volte, motivi giuridicamente validi che possano escludere a priori la previsione del contraddittorio stesso.    

Né può valere come elemento a contrario quanto, incidenter tantum, e per vero con tono piuttosto piccato, sostenuto dal Consiglio di Stato (Sez.III., 31.1.2020 n. 820) secondo il quale, in subiecta materia, l’assenza della  necessaria interlocuzione procedimentale non può costituire un vulnus al principio di buona amministrazione”, atteso che il diritto al contraddittorio procedimentale ed al rispetto dei diritti della difesa non va considerato come prerogativa assoluta, in quanto lo stesso ben può suppostamente soggiacere a restrizioni quando queste ultime siano mirate a perseguire obiettivi di interesse generale e non si configurino e costituiscano“interventi sproporzionati ed inaccettabili tali da ledere la sostanza stessa dei diritti garantiti dalla Corte UE”.

A supporto di siffatto evidente improprio dire, la Sez. III del Consiglio di Stato, ha richiamato il fatto che l’UE, con riferimento alla normativa antimafia italiana, ha riconosciuto – però per fini altri e diversi (appalti pubblici) rispetto all’istituto dell’interdittiva – “che il contrasto al fenomeno della infiltrazione della criminalità organizzata può costituire (si ribadisce nel settore degli appalti pubblici) un obiettivo legittimo per giustificare una restrizione alle regole fondamentali ed ai principi generali del TFUE.

Probabilmente conscio della improprietà tecnica della sua affermazione l’Organo giudicante in questione ripiega su una considerazione la quale invece che supportare il suo pensiero, dimostra l’esatto contrario di quanto lo stesso presume di affermare sostenendo che il contraddittorio procedimentale non sarebbe del tutto assente neppure nelle procedure antimafia, giacché ai sensi dell’articolo 97, 7° comma, del Decreto Legislativo n. 159/2011 “il Prefetto competente al rilascio dell’informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite può invitare (disporre)in sede di audizione personale, i soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione ritenuta utile”. In verità, come sopra ricordato, siffatto richiamo, lungi dal costituire giustificazione alla non condivisibile affermazione giudiziale sopra riferita, sostanzia, invece, un’evidente aggravante a detto si ribadisce improprio assunto.

Infatti la possibilità che il Prefetto disponga l’audizione del soggetto interessato non costituisce né puo costituire, ictu oculi, la condizione necessaria postulata dalla Corte UE in ordine all’obbligo assoluto del rispetto delle regole fondamentali e dei principi del TFUE, perché, comunque, la stessa appare senza ombra di dubbio un chiaro “intervento sproporzionato ed inaccettabile tale da ledere la sostanza stessa dei diritti garantiti dalla Corte UE”, giacché detta audizione consente un contraddittorio meramente eventuale e non si pone quale “garanzia effettiva di partecipazione al procedimento, atteso che l’eventualità che il contraddittorio si instauri è discrezionalmente e valutata esclusivamente dal Prefetto che procede in base alle proprie esigenze istruttorie”.

Va inoltre considerato, cosa che il Consiglio di Stato non ha purtroppo mai fatto, che la garanzia partecipativa con riferimento alle interdittive antimafia assume speciale ed ineludibile importanza – giusta, peraltro, quanto ineccepibilmente evidenziato dal TAR della Puglia (BA) – “in relazione ad almeno tre circostanze”.              

La prima è rappresentata dal fatto che le valutazioni prefettizie possono fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore ex articolo 84, 4° comma, del Decreto Legislativo n. 159/2011 (c.d. reati spia), mentre altri elementi fattuali (c.d. a condotta libera) sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento dell’Autorità amministrativa che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa (cfr. articolo 91, 6° comma, Decreto Legislativo n. 159/2011) anche da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali alle attività sociali, ovvero da elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare la criminalità organizzata o esserne in qualche modo condizionata (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez.III, 30.1.2019 n°758).

La seconda è che tale sopra espressa ipotesi di condizionamento indiretto comprende un numero di casi davvero molto significativo e, comunque, appare di difficile distinzione rispetto ai casi di imprese che subiscono la criminalità organizzata, risultandone vittime.

La terza è costituita dall’obiettiva evidenza che il G.A., chiamato a soppesare la gravità delle circostanze poste a base della valutazione prefettizia, è abilitato ad esercitare un sindacato giurisdizionale estrinseco sull’esercizio di siffatto potere che comporta un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consentendo al medesimo di sindacare l’esistenza o meno dei fatti stessi (eccesso di potere quale vizio della funzione, mai purtroppo sin qui a sufficienza valutato).

In considerazione delle su espresse ragioni non appare revocabile in dubbio che il contraddittorio tra il Prefetto e l’impresa nella fase procedimentale assume un’importanza davvero rilevante ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa stessa la quale ben potrebbe offrire al Prefetto prove materiali ed argomentazioni convincenti, di rilevanza e pregnanza tali da ottenere un provvedimento di liberatoria dell’interdittiva anche in presenza di elementi ed indizi c.d. sfavorevoli.

Invero posto che l’articolo 41 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE del 7.12.2000 riconosce il diritto del cittadino europeo a godere di una buona amministrazione ed in particolare: “il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che arrechi alla stessa pregiudizio”, individuando, così inequivocabilmente ed indiscutibilmente la necessità della sussistenza del principio di un contraddittorio di carattere endoprocedimentale, da far valere al di fuori del diritto di difesa nel processo giurisdizionale, viepiù in presenza dell’obiettiva evidenza che la norma interna sulle interdittive non consente a quest’ultimo (G.A.) un sindacato che vada oltre l’apprezzamento della ragionevolezza e della proporzionalità della “prognosi inferenziale che la P.A. trae da quei fatti”, anche se per vero, cosa che però non ha obiettivamente ed inspiegabilmente mai fatto, il giudice ben potrebbe sindacare l’atto della P.A. come e perché in ogni caso affetto da vizio della funzione.

Alla luce della su esposte considerazioni discende, dunque, che il contraddittorio tra il Prefetto e l’impresa assume, nella fase procedimentale, assoluta, essenziale rilevanza in ragione della tutela della posizione giuridica dell’impresa; contraddittorio che ben potrebbe offrire al Prefetto, come ho già avuto modo di riferire, prove ed argomenti utili ad ottenere un provvedimento liberatorio, pur in presenza di elementi o indizi c.d. sfavorevoli.

Il principio del contraddittorio endoprocedimentale, infatti, proprio per essere enunciato in maniera assolutamente inequivoca e puntuale dalla disciplina europea si connota quale principio capace di autoaffermasi, senza se e senza ma, nei rapporti tra cittadino e P.A.

Il principio in questione, infine, assume la fisionomia ed il carattere di fondamentale espressione di civiltà giuridica essendo, de jure, iscritto, in forza dell’articolo 6, par. 3 del Trattato sull’UE, nella lista dei principi generali del Diritto dell’Unione a mente del quale “i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali risultanti dalla tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del Diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

In ragione di quanto sin qui sostenuto e dell’esigenza di porre fine ad una norma palesemente ingiusta ed illiberale, il TAR di Bari, ha, molto opportunamente, deciso di richiedere alla Corte di Giustizia dell’U.E. di chiarire pregiudizialmente, se gli articoli 91, 92 e 93 del Decreto Legislativo n. 159/2011, nella parte in cui non prevedono l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale in favore dell’impresa, siano compatibili con il principio del contraddittorio, così come strutturato e riconosciuto quale diritto ineludibile dell’UE.

Va da sé che nell’ipotesi non peregrina di accoglimento da parte della Corte UE dell’ipotesi formulata dal TAR di Bari, l’intera impalcatura costruita sulla scorta di un’azione normativa illiberale e giustizialista, propria dell’attuale intero quadro della legislazione antimafia, si sgretolerà miseramente al pari di un castello di sabbia

Ricordo a me stesso che tanto in sede di amministrazione attiva che soprattutto nel processo va ripudiato il fondamentalismo punitivo che rende indifferente il limite tra illiceità e/o illegittimità e giudizio morale al pari della non fisiologica pretesa di ritenere che il diritto si plasmi soltanto nel processo per trasformare quest’ultimo in uno strumento di vendetta atteso che il processo in quanto tale non può che costituire reale ed autentico momento di garanzia e non supposto, come purtroppo quasi sempre avviene in subiecta materia, meccanismo di castigo (pre)annunciato.

In buona sostanza occorre riportare al centro dell’analisi giustiziale il valore del principio di una giustizia giusta che sappia essere umana nel rispetto del dettato costituzionale che tale dogma esalta, e che, per ciò stesso, rifiuta la nemesi.

A tal proposito ritorna, ammantato dalla dolce nostalgia del ricordo e con la stessa emozionante intensità di allora, quanto, in un’importante assise[3], nella sessione da lui presieduta e nella quale ho avuto l’onore di essere fra i relatori, il Prof. Vincenzo Caianiello, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, grande ed insostituibile “Maestro” di tutti noi, alcuni dei quali come me, allora giovani ed orgogliosi studiosi della scienza amministrativa, dopo avermi gratificato della sua attenzione per l’intervento da me svolto[4] (quale lusinga insperata e quale legittimazione a quel mio severo ed appassionato impegno!), ha avuto de visu – e con la parca semplicità di chi è realmente  padrone assoluto della scienza giuridica – a dirmi con il garbo che gli è sempre stato da tutti riconosciuto: “il diritto amministrativo è diritto mite, privo di rancorose finalità e mira, nella sua applicazione, a garantire il giusto equilibrio tra legge (anche speciale) e tutela dei principi di dignità personale costituzionalmente garantiti”.

Quanta cultura e serena saggezza in quelle parole e quale indimenticabile insegnamento!

In ragione ed alla luce di una così elevato pensiero (di fronte al quale umilmente “nui chiniam la fronte al massimo fattor”), non appare inutile sottolineare che, anche sul piano della mera logica giuridica, comunque, l’istituto dell’interdittiva antimafia non può e non deve mai porsi quale frutto di astratta legalità di maniera, bensì piuttosto quale momento regolatore profondamente rispettoso del sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto.

Pertanto, in buona sostanza occorre opporre alla in verità concettualmente ambigua e sbandierata necessità di assicurare il massimo livello di protezione nei confronti di fenomeni di particolare pericolosità ed aggressività per la vita sociale, una seria e meditata azione di controllo del potere discrezionale attribuito al Prefetto perché la ricordata sia pur in astratto lodevole intenzione di anticipazione della soglia di difesa sociale, non si risolva in un rimedio peggiore del male, viepiù che l’eccesso di potere, il cui paradigma strutturale, così come oggi più che mai, abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare, si estende ben oltre la sfera della “discrezionalità” in senso proprio, atteso che esso si connota, senza se e senza ma, quale elemento fondante, parte integrante della legalità amministrativa visto e considerato che esso istituto costituisce lo strumento indiscutibilmente più forte e significativo per controllare il debordare, purtroppo sempre più frequente, anche in subiecta materia, della funzione amministrativa e porre rimedio all’operato non sempre fisiologico dell’attività del Prefetto in ossequio ed in ragione di una supposta ma non sempre dimostrata osservanza della legalità; termine quest’ultimo che, rammento a me stesso deve essere sempre, intrinsecamente ed imprescindibilmente, correlato con quello di libertà con il quale forma un binomio indissolubile.

È di tutta realtà, invero, che l’irrazionalità di una scelta, a seguito di un criterio spesso irragionevolmente utilizzato dal Prefetto, dimostra, a chiare note, che la decisione da esso organo adottata non può che connotarsi – e questo deve far molto riflettere – come illegittima a monte, atteso che nelle fattispecie considerate non sussistono altre scelte legittime di cui evidentemente si sia potuta valutare l’opportunità di adozione.

Non nascondo che, nell’analizzare la struttura ed il contenuto di non pochi provvedimenti interdittivi mi torna alla mente quanto a chiosa della immortale favola “Lupus et Agnus Fedro ha inteso tramandare ai posteri come lapidario memento: “haec propter illos scripta est homines fabulas qui fictis causis innocentes opprimunt”. 

Infatti, tutto il costrutto logico giuridico sotteso all’istituto dell’interdittiva e, per vero all’intero corpo della legislazione antimafia nel suo complesso, appare essere del tutto sovrapponibile, anzi addirittura l’immagine riflessa, lo specchio diretto del fondamento del ricordato postulato morale.

Invero il non attento legislatore, obiettivamente strabico ma fedele interprete della confusione culturale che regna sovrana negli odierni mala tempora di Ciceroniana memoria, e per di più ossessivamente condizionato dal continuo e sconsiderato agitare dello spettro – il più delle volte mal sbandierato ed ancor peggio male intuito – della corruzione, che per ignoranza percepisce il buio di conoscenza che lo attanaglia come maledizione comunque da esorcizzare, risponde con la più illogica e paralizzante delle ideologie: quella della facilità di vietare, che, fra l’altro, sul piano effettuale conduce spesso ad autentici dinieghi di giustizia. Tutto questo appare ai miei occhi, ed absit iniuria verbis, paragonabile all’infezione del “covid-19 che sta ammorbando e condizionando la vita di tutti noi.

Infatti, al pari del corona virus, il cui contagio può determinare la morte di chi lo ha contratto, l’ormai frequentissimo ricorso all’adozione di non sempre necessari, anzi spesso ingiustificati, provvedimenti di interdittiva antimafia, determina “tafanazzianamente” la morte di tante imprese e la ingiusta e la violenta sottrazione dell’onore e della dignità di non poche persone realmente perbene irresponsabilmente etichettate come mafiose, oltre che il non commendevole risultato di procurare esiziali pregiudizi e concreti vulnera nel tessuto socio-economico sia nazionale che locale.  

I provvedimenti antimafia, nel loro complesso, e segnatamente gli atti interdittivi così come oggi concepiti e materialmente prodotti ad opera di alte autorità dello Stato – e che, di fatto e diritto, possono decretare la scomparsa di tante aziende dal tessuto economico e spesso la morte civile di molte persone perbene lese nella dignità e nell’onore – nella realtà effettuale rappresentano, purtroppo, emblematicamente lo stato ormai ectoplasmatico della nostra legislazione a cui va ulteriormente aggiunto l’insopportabile fardello dell’oppressione burocratica il cui peso si riflette esizialmente nel mondo economico e sociale, atteso che la burocrazia che ci soffoca ed affligge non costituisce altro che la tomba di qualsivoglia opportunità; virus  (burocrazia) che non si trasmette con le goccioline, ma con la deprimente consuetudine, il parassitismo e l’assuefazione e nei cui confronti non c’è immunizzazione che tenga, anzi non esiste proprio vaccino.

Non sfugge a nessun essere minimamente raziocinante che l’ansia irrazionale di fronteggiare la corruzione nella e della P.A., assieme alle altrettanto giuste esigenze di contrastare i rischi di infiltrazione mafiosa sostanziano, nell’attuale assolutamente e concettualmente imperfetto quadro normativo, le prime e principali cause dell’ingessamento del nostro Paese.

A questo va altresì additivamente associata l’obiettiva evidenza che non è soltanto l’attuale infelice normativa a creare complicazioni, quanto, spesso – ed è quello che qui voglio a chiare note evidenziare – anche l’incombente rischio di una interpretazione giurisprudenziale delle stesse, arzigogolata e punitiva, che, attraverso l’uso indiscriminato di cavilli e norme di dubbia qualità ed efficacia, avalla, paralizza e penalizza il corretto facere delle Amministrazioni.

Non è inutile ancora sottolineare, al fine di evidenziare il tumultuoso marasma in cui versa l’intera impalcatura della macchina burocratica, che la stessa fase di amministrazione attiva, attraverso i suoi funzionari, risulta, quasi sempre, avviluppata ed attanagliata dal timore, di essi agenti, di soggiacere alla possibile contestazione dell’ipotesi di danno erariale nonché a quella di abuso d’ufficio.

La descritta obiettiva situazione è, purtroppo, il riflesso del fatto che il legislatore attuale ha abdicato, in nome di immaginifiche, supposte emergenze, a quello che è o, comunque dovrebbe essere il suo peculiare compito, ossia l’obbligo di disciplinare la realtà in coerenza con i valori ed i bisogni della comunità e non già di umiliare l’assetto civile.

In ragione di tale difficilmente contestabile, discratica situazione legislativa e comportamentale, entrambe obiettive conseguenze dell’isteria contagiosa di quel corona virus rappresentato dalla pervicace ossessione di combattere, anche attraverso misure illiberali ed insensate, invece che con le regole proprie dello Stato di diritto, il (detestabile) fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nel corpo del sistema politico ed economico del Paese,  si è irrazionalmente giunti – sulla base di strombazzate, apodittiche, mitizzate e supposte situazioni di pericolo emergenziale – a paralizzare il sistema nel suo complesso attraverso l’imposizione di una rete di oppressione burocratica dalla quale risulta materialmente impossibile divincolarsi.

Le interdittive antimafia; lo scioglimento decretato dei consigli degli enti locali; le strutturali lentezze delle procedure di Consip; il Codice degli appalti, espressione normativa intrisa di obiettivi nonsense e di paralizzanti criticità e la cui plastica inutilità pratica resta dimostrata dal fatto che senza il “gabbio” delle sue norme e dei suoi non felici postulati si è potuto ricostruire, e nel giro di un anno, a Genova, il nuovo ponte progettato dall’arch. Renzo Piano in sostituzione del crollato ponte “Morandi”; la sostanziale sopravvivenza dell’assurdo criterio del massimo ribasso nelle gare che porta con sé l’ignobile fardello di consentire il compimento di opere pubbliche, talvolta neppure portate a compimento, e, fra l’altro, di discutibile sicurezza strutturale, poste in esecuzione attraverso una rete – essa sì da colpire – di indegne connivenze; il mancato controllo da parte della mano pubblica e/o l’assenza di monitoraggio continuo degli standard di sicurezza delle opere nel tempo, al fine di evitare eventi negativi di significative proporzioni (come ad esempio è avvenuto nel caso del viadotto della Valpocevera, ponte “Morandi” o, di recente, dell’accartocciamento  del ponte di Caprignola che collega la provincia di La Spezia a quella di Massa); la creazione dell’ANAC (inteso quest’ultima autorità addirittura non come ente di consulenza e di analisi di dati a vantaggio e supporto delle P.A. bensì quale ennesima, non necessaria ed ulteriore soffocante presenza nel già più che pletorico novero degli organismi di controllo), ne costituiscono palmare riprova.

L’insieme del complesso di questi organismi – in uno con la sovrapposizione nel tempo di norme, regolamenti, procedure ed adempimenti – determinano l’incertezza del diritto, dei diritti e dei doveri nonché una sempre maggiore complicazione dell’attività amministrativa ed economica, e, fra l’altro, fungono, ognuno e tutti, da alibi e da comodo usbergo per amministratori e funzionari pavidi, i quali, invece di esercitare con onore  le proprie funzioni, si accucciano dietro siffatto paravento, aspettando comunque di avere contezza della più o meno illuminata consulenza di detti organismi, prima di assumere qualunque decisione, dalla più insignificante alla più importante, facendo così perdere, nella migliore delle ipotesi, del tempo prezioso nel provvedere.

Tempo che come si sa, oltre che essere un bene fra i più preziosi se non il più prezioso dell’agire umano è anche connotato essenziale di ogni funzionale scelta strategica sia essa di natura giuridica che economica anche delle P.A.

Di fronte a tale evidente disastro, che ha, irragionevolmente e senza scusanti, destabilizzato e violentato i fondamenti propri dello Stato di diritto e gli altrettanto meritevoli di tutela diritti fondamentali dei cittadini  nonché determinato, in nome di un supposto principio di legalità – peraltro assurdamente distinto da quello di libertà (Piero Calamandrei infatti ci ha insegnato: “non può esservi legalità senza libertà”) – mal interpretato ed altrettanto peggio normativamente espresso, la cancellazione dal mondo del lavoro di imprese e lavoratori laboriosi ed indefessi, con il risultato di pressoché azzerare o comunque gravemente compromettere l’economia delle stesse imprese e della Nazione, ritengo sia indispensabile provare, tutti insieme, ad accendere non la sola candela della speranza, bensì tutte le luci possibili dell’intero firmamento della civiltà giuridica, per dare nuova linfa e nuova vigoria alla fonte dei principi costituzionali alla quale ci siamo tutti orgogliosamente abbeverati e formati.

Occorre aver il coraggio, come cittadini, di dire basta, una volta per tutte, alla supina soggiacenza all’attuale reso immunodepresso sistema Italia, gestito da soggetti senza patria, che hanno fatto del giustizialismo, della negazione della conoscenza, dell’oscurantismo e della negazione delle libertà la propria ragion d’essere; di impegnarsi a far rinascere il senso ed il valore liberatorio della giustizia così da consentire di affrontare efficacemente ogni emergenza, compresa l’attuale, peraltro, ictu oculi, impropriamente legittimata dal manto di fragili argomentazioni contingenti, di natura confusamente etica – intrisa di non commendevole giustizialismo abbinato all’idea distorta di una giurisdizione esclusivamente orientata a ravvisare comunque, costi quel che costi, un colpevole da sanzionare, sulla scorta del non fisiologico, anzi aberrante pregiudizio secondo il quale è l’effetto della punizione a giustificare l’esistenza del  precetto normativo – piuttosto che giuridica (Stato di diritto); e di spingere con dignitoso orgoglio per l’avvio immediato di un’articolata e decisiva riforma legislativa che preveda lo snellimento concreto della macchina burocratica nel suo complesso, procedure amministrative più flessibili e meno adempimenti formali nonché l’eliminazione della gran parte di tutte le complicazioni (legislative e burocratiche) che oggi appesantiscono l’efficacia dell’agire delle P.A. e finalmente riuscire a mandare in soffitta il cappio di irragionevole sospetto che opprime e sottrae capziosamente ad ogni cittadino l’esercizio pieno dei propri diritti fondamentali.

Se tale esercizio di orgogliosa libertà non ci sforzeremo a mettere in campo, all’interrogativo posto da John Donne: “per chi suona la campana”, non residuerà che un’unica e sconsolante risposta: “suona sempre e solo per ciascuno di noi”.

Pertanto, tutti insieme, al pari del bambino che dapprima riconosce il suono di una voce per poi, nel prosieguo evolutivo della vita, intendere l’armonioso suono della musica, dobbiamo con forza e coscienza contrastare la pervasiva tendenza - agevolata dal complice assordante ed omertoso, silenzio collettivo, spesso infarcito di incoerente giustizialismo - di questi nostri mala tempora. Propensione (legislativa ed ermeneutica) del tutto irrazionale e tecnicamente non corretta che sta trasformando lo Stato costituzionale di diritto in uno Stato tendenzialmente di polizia. E questo per chi, come me, è autenticamente liberale è veramente troppo!                                                                                                      

 

[1] A. Zama “L’ora dei giudizi irrevocabili: damnatio memoriae in Filodiritto editore, rivista on line www filodiritto.com, aprile 2020.  

[2] L.M. Delfino “L’eccesso di potere nelle interdittiva antimafia” in Filodiritto editore rivista on line www.filodiritto.com, gennaio 2016; L.M. Delfino “Ancora qualche riflessione ermeneutica quantomeno di buon senso sull’abnorme potere discrezionale della P.A. procedente in tema di interdittive in Filodiritto editore rivista on line www.filodiritto.com, ottobre 2016; L.M. Delfino “Lo scioglimento per mafia dei consigli delle amministrazioni locali. Il faut défendre les principe et les valeurs de l’Etat de droit in Filodiritto editore rivista on line www.filodiritto.com, giugno 2019.

[3] Convegno di Studio “in occasione del decennale dell’istituzione in Calabria della Corte dei Conti: un’occasione per riflettere su responsabilità e controllo” organizzato dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, Sezione regionale di controllo per la Calabria, Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale per la Calabria, con il contributo dell’Associazione Magistrati della Corte dei Conti, dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro, tenutosi il 14 e 15 dicembre 2001, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università e l’Aula consiliare, Palazzo dei Nobili in Catanzaro.

[4] L.M. Delfino “Ambiente e strumenti di tutela: la responsabilità per danno erariale” da ultimo in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 3, 2002, Giuffrè editore (MI).