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Il cammino incompiuto della sensibilità moderna: qualche riflessione su sensibilità, resilienza e accettabilità

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Il cammino incompiuto della sensibilità moderna: qualche riflessione su sensibilità, resilienza e accettabilità

 

Non è necessaria particolare profondità di analisi per rendersi conto della profonda conflittualità che caratterizza la nostra contemporaneità: anche solo dando uno sguardo distratto alla situazione attuale del dibattito politico e culturale ci si rende conto di come e quanto conflitti e divisioni informano molti ambiti del dibattito pubblico, polarizzando in molti casi le posizioni e suscitando accesissimi dibattiti intorno ai più disparati temi di discussione.

Se una certa dose di conflittualità è intrinsecamente legata alla pratica stessa della discussione politica democratica, il fenomeno con cui ci si trova oggi a fare i conti è però per molti aspetti diverso e quasi inedito, perché non vede contrapposte soltanto ideologie politiche differenti bensì veri e propri sistemi culturali integrati e complessi, visioni del mondo che si oppongono frontalmente e non lasciano in apparenza spazio al compromesso e al confronto, dando spesso vita a quelle che negli Stati Uniti sono state non a caso chiamate culture wars.

Non è di questo argomento nello specifico che si vuole però discutere in questa sede, né delle molte singole cause di divisione e inconciliabilità delle posizioni nel dibattito attuale: vogliamo piuttosto seguire l’invito della filosofa tedesca Svenja Flaßpöhler e fare un piccolo passo indietro per vedere la situazione da una diversa prospettiva, andando quindi a indagare una delle cause profonde di queste divisioni conflittuali.

Tale causa va ricercata soprattutto in una differente “sensibilità”, termine che capita sovente di sentire impiegato nel dibattito pubblico ma che raramente viene analizzato e scomposto nella sua complessa ricchezza di significati.

Proprio questo si propone di fare invece la studiosa tedesca in un suo recente saggio, intitolato Sensibili. La suscettibilità moderna e i limiti dell’accettabile, coniugando analisi teorica e concettuale e ricostruzione storico-sociale della genesi e dell’evoluzione del fenomeno della sensibilità moderna e dei suoi sviluppi contemporanei. Se infatti tale termine sembra a prima vista semplice e intuitivo, esso porta con sé una stratificazione di significati tanto interessante quanto complessa. Fin dai tempi della filosofia medievale si è infatti divisa la sensibilità in una sua componente passiva, identificata con la capacità di recepire stimoli provenienti dal mondo esterno e reagire in accordo con essi, e una sensibilità attiva, declinata più spesso nella sua accezione morale e consistente nella capacità di commuoversi, provare connessioni empatiche e  agire moralmente a partire da tali sentimenti (non a caso si parla di “senso” morale).

Queste due dimensioni non vanno pensate come separate e irrelate ma come due facce dello stesso fenomeno unitario: la dimensione ricettiva della sensibilità, che implica una certa relazione del soggetto con il mondo che lo circonda e con gli altri esseri viventi (umani e non) si intreccia sempre più spesso a partire dall’epoca moderna con la dimensione etica e morale dell’agire, che viene influenzata proprio dalla nostra relazione sensibile con i fenomeni del mondo, che percepiremo ad esempio come accettabili o intollerabili.  Soprattutto in epoca moderna, il nesso tra sensibilità fisiologico-sensoriale e sensibilità morale si va rinsaldando: a partire dal XVIII secolo sempre più autori riconoscono alla sensibilità pieno diritto di cittadinanza nella sfera morale e in alcuni casi, si pensi ad esempio a Hume, a Rousseau o all’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali, essa arriva a rappresentarne un elemento centralissimo e imprescindibile. Anche Schiller, pur muovendo inizialmente da presupposti kantiani, porterà avanti nella sua opera un lavoro di profonda rivalutazione della dimensione sensibile, emotiva e corporea insieme. Inoltre, come ricorda la storica Lynn Hunt, gli stessi diritti umani a carattere universalistico sorgono proprio nell’epoca in cui la nuova sensibilità dell’epoca permetteva agli uomini di riconoscersi simili e ugualmente dotati di sentimenti.

Non è un caso d’altronde che la saldatura tra dimensione sensoriale e portato etico della sensibilità abbia dato vita alla categoria del “tatto”, che anche etimologicamente  porta in sé la testimonianza di questa doppia accezione del termine, dove il toccare fisicamente e l’avere riguardo si situano in dimensioni attigue e consustanziali.

Ma, ricorda Flaßpöhler, la sensibilità accorpa in sé ancora ulteriori sfumature di senso: essa può essere intesa come sensibilità fisica, legata alla percezione e ai sensi, come sensibilità psichica, comprendente l’empatia e la sensibilità d’animo che ci permette di comprendere le emozioni nostre e altrui, come sensibilità morale, ovvero il senso morale che dirige le nostre azioni, come sensibilità estetica, caratterizzata dalla propensione a lasciarci colpire dalle esperienze del mondo e saper cogliere in esse il bello, il brutto e altre sfumature estetiche.

Ciò che chiameremo d’ora in poi sensibilità indica l’intreccio e l’intersezione di tutte queste dimensioni, diverse tra loro ma intimamente legate.

Per comprendere meglio l’affermazione di questa sensibilità generale e il suo impatto sulla società moderna è opportuno innanzitutto ripercorrerne la storia.

Se è infatti nel secolo dell’Illuminismo che la sensibilità assume un ruolo di primo piano, la genesi di tale processo è lunga e si snoda attraverso i secoli che congiungono il tardo medioevo e la prima età moderna, secoli in cui prende le mosse quello che il sociologo tedesco Norbert Elias ha chiamato il “processo di civilizzazione”. Tale processo di lungo corso, caratterizzato dall’avvento della società delle buone maniere, del decoro, dell’igiene personale e della progressiva riduzione della violenza nei rapporti umani, è tanto un processo di civilizzazione quanto un processo di sensibilizzazione, in cui la nozione di sensibilità e quella di civiltà si intrecciano inestricabilmente tra loro.

Per renderci conto di quanto le due siano legate tra loro e per rendere la portata delle trasformazioni avvenute nel tempo, Flaßpöhler ricorre ad un interessante confronto tra due figure analoghe ma diversissime tra loro: il nobile cavaliere medievale Johann e Jan, professore tedesco appartenente alla classe media e nostro contemporaneo.

Il primo, abituato ad una vita violenta, crudele e dominata dall’esercizio del potere e della forza, appare ai nostri occhi barbarico e incivile: mangia con le mani da vassoi comuni ai diversi commensali, ha bassissimi standard di igiene personale, dà libero sfogo alle pulsioni corporee dove e quando gli capita, tratta la sessualità come un affare pubblico anziché intimo, esercita la violenza sui sottoposti, torturando e mutilando crudelmente chi appartiene agli strati inferiori di una civiltà gerarchica come quella medievale in cui vive. Egli ha una moglie, a lui sottomessa, e non si fa problemi a molestare e violentare altre donne ogniqualvolta ne abbia voglia, conscio del fatto che il suo ruolo di nobile e cavaliere rende leciti tali abusi.

Il guerriero Johann è cresciuto in mezzo alle armi e agli addestramenti militari e conosce solo il linguaggio dell’onore e della violenza e riconosce come istanze legittime solo quelle basate sulla gerarchia dei ceti o sulla prevaricazione violenta.

Non potrebbe essere invece più diverso da Jan, anch’egli uomo e maschio ma residente nella Germania del XXI secolo. Egli è un uomo di convinzioni progressiste, attento ai diritti delle donne e delle minoranze, vegetariano e amante della natura, ispirato da ideali umanitari e inclusivi, che si esplicano sia nella sua attività di volontariato che nella sua attenzione al linguaggio e alle categorie che impiega.

Egli rispetta la volontà della moglie anche quando va a scapito del proprio desiderio sessuale e si pone come figura di riferimento bonaria, aperta al dialogo e non coercitiva nei confronti dei figli. Ha inoltre a cuore la salute propria e degli altri e tiene al benessere psicofisico suo e della sua famiglia, così da investire nel comfort della casa e in una corretta alimentazione unita a una pratica sportiva costante.

Rispetto al suo omologo medievale, Jan è irriducibilmente diverso, caratterizzato da una sensibilità nemmeno immaginabile nell’epoca in cui Johan si trova a vivere e risultato di secoli di evoluzione della morale e del rispetto nei rapporti umani.

Già questo confronto aiuta a capire quanto le cose siano cambiate nel corso del processo di civilizzazione. Tutte le dimensioni della sensibilità sono state coinvolte: a livello morale l’empatia, l’umanitarismo e la tutela dei diritti hanno preso il posto della violenza, della sopraffazione e dell’imposizione coatta, mentre a livello fisico pratiche un tempo accettate ci paiono ora igienicamente aberranti e del tutto improponibili. A livello psicologico si assiste alla trasformazione profonda dell’indole guerriera, sicuramente non improntata alla comprensione dell’altro e alla compassione, che lascia il posto ad una mentalità orientata alla ricerca del dialogo rispettoso e del confronto pacifico, così come anche a livello estetico si passa da una fruizione del mondo caratterizzata da una visione strumentale, oscillante tra la soddisfazione bruta del desiderio e la paura delle insidie di un mondo violento e ostile, ad una apertura alla contemplazione, alla riflessione e all’apprezzamento della bellezza e della complessità del mondo (complice anche una mutata idea di natura).

Tale progressivo incivilimento richiede però un crescente autocontrollo da parte del soggetto, che si trova a dover reprimere le proprie pulsioni, generando crisi, scissioni e in casi estremi anche patologie, come quelle indagate da Freud ed esplicitamente messe in relazione al “disagio della civiltà” da parte dello psicanalista viennese.

Non bisogna inoltre pensare, e ce lo ricorda lo stesso Elias, che tale processo si sia già concluso, né che sia privo di ricadute o battute di arresto, come ci ricorda la storia del Novecento (per una tragica ironia, il sociologo tedesco concludeva la sua opera sul processo di civilizzazione nel 1939, mentre si stava per scatenare una delle più atroci barbarie della storia umana).

Il processo di civilizzazione è quindi una realtà empirica, non un destino metafisico sorretto da qualche filosofia della storia relativa all’inarrestabile progresso morale dell’umanità: se al giorno d’oggi è chiaro che ci si sia liberati di molte di quelle che riteniamo barbarie del passato, occorre ricordare come il processo di civilizzazione/sensibilizzazione sia ancora in corso e sia lungi dall’essersi concluso.

Appare chiaro, dopo aver osservato la cosa da una prospettiva storica, come il lungo processo di sensibilizzazione della società e degli individui che la compongono abbia avuto senz’altro delle conseguenze positive e ridotto i livelli di violenza e crudeltà ritenuti accettabili a livello generale. Per fortuna, molte delle atrocità un tempo tollerate sono ora stigmatizzate, condannate e attivamente ostacolate e prevenute.

Ma anche la sensibilità, soprattutto quella contemporanea, talvolta presta il fianco a delle critiche pungenti: non è che questa sensibilità, si chiedono in molti, alla lunga andrà a detrimento della capacità di essere resilienti di fronte alle avversità e di formare il proprio carattere in modo tale da saper fare fronte agli urti della vita?

In altre parole, non è che a forza di voler adattare il mondo alla propria sensibilità si finisce per essere incapaci di adattarsi al mondo? Questa è senz’altro un’accusa che spesso viene rivolta contro le persone più attente alla sensibilità inclusiva dalle frange più restie ad accettare le nuove trasformazioni sociali, ma la questione, se affrontata senza strumentalizzazioni, rivela una complessità filosofica che è interessante approfondire ed è quanto si propone di fare Flaßpöhler.

Per analizzare più in dettaglio la questione l’autrice sceglie di imbastire un ipotetico dialogo tra due opposte posizioni, quella di un seguace di Nietzsche, fautore come il filosofo tedesco di un’etica del superamento dei propri limiti e del continuo auto-miglioramento, e di un suo interlocutore ispirato dall’afflato altruistico e umanitario di Levinas, sempre pronto dunque a cogliere l’umanità nel volto dell’altro e a porre in primo piano la vulnerabilità che è inestricabilmente connessa alla condizione umana.

A rappresentare le ragioni della sensibilità moderna sarà proprio quest’ultimo, che accusa di insensibilità morale chiunque ostacoli la pretesa di una solerzia generalizzata verso le rivendicazioni che giungono da ogni parte, motivata da una radicale apertura verso l’altro. Di contro, il nietzschiano criticherà tale prospettiva d’azione come eccessivamente ingenua e acritica, incapace di riconoscere come dietro a molte rivendicazioni si celino risentimento e invidia e come un atteggiamento troppo assistenzialista ostacoli la formazione di individui caratterialmente forti e capaci di affrontare da soli le questioni che la vita pone loro innanzi.

Il primo darà grande rilevanza all’esperienza vissuta in prima persona, mostrando di fare attenzione al posizionamento sociale di ciascuno (differenze di genere, classe, appartenenza etnica e religiosa), mentre il secondo sembrerà invece più attento ad una individualità generalizzata, che non tiene conto delle diverse esperienze.

Le due posizioni sono tra loro molto distanti su molti punti e l’autrice calca volutamente le mani sulle differenze che tra esse intercorrono, così da metterne in risalto i rispettivi limiti: la sensibilità ipertrofica, tipica della prima posizione, rischia di essere troppo esigente e al contempo troppo acritica, incapace quindi di discernere tra rivendicazioni legittime e illegittime e di soppesare criticamente le diverse istanze.

Seguendo un’apertura generalizzata all’altro non si chiarisce come procedere in situazioni che richiedono di armonizzare o quantomeno bilanciare istanze contrarie.

Allo stesso modo, anche l’individualismo della posizione nietzschiana sembra ignorare la diversità delle esperienze e delle posizioni sociali e, pur ponendosi come obiettivo un’autonomia desiderabile, non tiene in considerazione il fatto che essa non è ugualmente accessibile a tutti nello stesso modo.

Inaspettatamente, emerge però un punto di contatto tra queste due posizioni apparentemente distantissime, poiché entrambe mostrano di prendere le mosse da una forte esperienza della vulnerabilità.

Nietzsche, la cui vita non si può certo dire scevra di esperienza della sofferenza umana, sceglie il fatalismo e l’opposizione alle crisi attraverso la fortificazione del sé proprio perché conscio della vulnerabilità umana, vista però come una condizione se non proprio da superare quantomeno da limitare, irregimentare e arginare.

La filosofia di Nietzsche non è però una filosofia dell’omeostasi rigida, statica e priva di scossoni e turbamenti del sistema, essa non si propone di evitare a priori tutto ciò che può ferire o turbare, ma di essere resilienti e capaci di far fronte con coraggio a tali esperienze. Essa immagina la vita dell’individuo come un sistema elastico e dinamico, capace di resistere agli urti e di ritornare più forte dall’incontro con le avversità, non come un sistema chiuso e immune da tali urti: ancor più che resiliente essa propone una idea di individuo anti-fragile (per usare il termine coniato dall’economista e filosofo Nassim Taleb), ovvero non ritorna solo allo stato iniziale ma si porta ad uno stato di maggiore resistenza rispetto all’esterno, essendosi rafforzata dopo lo sforzo (si pensi alle fibre muscolari, esempio classico di un sistema naturalmente antifragile). Diversamente da quello del filosofo tedesco, l’approccio di Levinas alla vulnerabilità non prevede invece alcun superamento del trauma, nessun rinforzo del carattere e indurimento della personalità: per il filosofo francese la vulnerabilità va sempre tenuta in considerazione, non va superata o oltrepassata ma deve diventare una consapevolezza posta come base del nostro agire.

A partire dalla comune attenzione per la vulnerabilità umana i due filosofi scelgono di percorrere dunque due strade diverse, esaltando da un lato lo sforzo tenace nell’accettare e sopportare tale vulnerabilità, dall’altro considerando tale vulnerabilità motivo sufficiente per fondarvi sopra un’etica dell’aiuto reciproco e della tutela incondizionata dei più deboli. Questa dicotomia di approcci accompagna la successiva trattazione dell’autrice, rappresentando una coppia di estremi polarizzati capace di creare una proficua tensione, se non la si considera come un’alternativa esaustiva e totalizzante ma come un’opposizione che genera nel mezzo una zona grigia che merita di essere esplorata.

Se Nietzsche e Levinas sono stati eletti da Flaßpöhler come massimi rappresentanti delle due opposte fazioni (fautori della resilienza contro fautori della sensibilità empatica), l’avvicendarsi di queste due posizioni è in realtà molto più antico e accompagna alcuni importanti snodi del pensiero moderno.

L’autrice ricorda ad esempio la parabola seguita dall’empatia nel campo della morale in epoca settecentesca: posta da Hume a fondamento del nostro senso morale, essa sembra a prima vista garantire un buon punto di partenza per edificare una morale umanistica e non metafisica, adatta a una società, quella del XVIII secolo, che richiede un’etica senza richiami alla metafisica. Fondare la morale sull’immediata gratificazione che l’azione buona e generosa suscita in noi e sullo sdegno che viltà e crudeltà ingenerano nel nostro animo sembrerebbe dunque garantire una base empirista e sensibile alla nostra condotta morale.

Pur nella differenza tra le due posizioni, anche la riflessione di Rousseau, che vede nell’amore per sé stessi entro i limiti del rispetto altrui il principio dell’agire etico, si basa su una visione della sensibilità sostanzialmente simile a quella di Hume.

Nel secolo dei romanzi epistolari a tema sentimentale, che rendono popolari e diffuse trame commoventi e capaci di suscitare nei lettori simpatie per i personaggi e forti emozioni, le posizioni di chi assegna all’empatia e alla sensibilità il ruolo di guida morale sembrerebbero trovare importanti conferme.

Ma nello stesso periodo storico si diffonde un altro filone di riflessione sulla sensibilità, anch’esso confluito talvolta in narrazioni letterarie, che dà all’empatia connotazioni ben diverse. Vera e propria riduzione all’assurdo delle teorie che legano empatia e condotta morale, l’opera del marchese de Sade prende le mosse da un’empatia capace sì di cogliere emozioni e stati d’animo altrui, ma con fini tutt’altro che etici e umanitari: qui la percezione della sofferenza altrui non suscita sdegno ma piacere, non implica la condanna bensì la ricerca del godimento.

Pur condividendo le medesime premesse sensiste e materialiste, l’etica dei libertini à la Sade non potrebbe essere più diversa nelle conclusioni da quella di Hume, di cui rappresenta l’antitesi e il complemento, l’integrazione critica: interpretando a posteriori le vicissitudini della sensibilità nel secolo dei lumi e tenendo sempre un occhio fisso sul presente, l’autrice legge tali dibattiti come prova dell’importanza dell’empatia nelle faccende morali ma anche e soprattutto come monito verso un’ingenua sopravvalutazione del potere benefico e salvifico della sensibilità empatica, sopravvalutazione che Flaßpöhler intravede dietro a certi richiami contemporanei ad una sensibilità etica a volte esageratamente acritica.

Se l’empatia ha avuto e ha ancora un ruolo irrinunciabile nelle rivendicazioni morali, l’ambiguità che emerge dalla sua storia ci mostra come essa sia uno strumento da utilizzare con cautela e senza assolutizzazioni iperboliche e parossistiche.

L’idea di una bontà dell’animo umano qualora esso si lasci guidare dalla sensibilità, già messa in discussione dalla riflessione di Sade, viene ulteriormente destabilizzata dalle teorie di Freud, che a fronte della tragedia della prima guerra mondiale mostra quanto si sia rivelata ingenua l’idea di una rimozione definitiva dell’aggressività pulsionale umana dietro al paravento della civiltà, la quale impone norme di condotta repressive, che generano scissioni nel soggetto, diviso tra pulsioni amorali ancor prima che immorali e norme di comportamento che le irregimentano moralmente.

Ciò che lo psicanalista viennese identifica come il primitivo universo pulsionale della psiche riemerge nella guerra poiché durante i conflitti vengono meno le prescrizioni sociali della civiltà ed esse possono fluire più liberamente.

Non è un caso che la riflessione freudiana, unita alla metafisica di Schopenauer, influenzi le meditazioni che durante e dopo la guerra Ernst Jünger dedica al tema dell’innata e inemendabile natura aggressiva dell’uomo.

Secondo lo scrittore tedesco, il dolore e la sopportazione di esso sono componenti ineliminabili dell’esistenza e il tentativo della civiltà moderna di rimuoverli sposta semplicemente il dolore su un piano diverso, ad esempio la noia del moderno uomo o la sofferenza mentale esaminata dalla psicoanalisi. Tale riflessione si situa dunque lungo un’asse di riflessione che, attraverso l’opera di Schopenauer, Nietzsche, Freud e Jünger stesso, tematizza l’esistenza umana come accettazione di una sofferenza ad essa inerente, con cui bisogna costantemente fare i conti.

La civiltà nata dall’Illuminismo bandisce sempre più dolore, sofferenze e atrocità un tempo comuni, imponendo al soggetto un autocontrollo sulle proprie passioni, ma uomini come Jünger si auto-impongono un codice di comportamento diverso, in cui la sensibilità viene inibita per lasciare spazio a una freddezza e a un distacco senza i quali la guerra non sarebbe sopportabile. Proprio questi “codici della freddezza” rappresentano il perfetto contraltare della sensibilità moderna: come la prima disinnesca le pulsioni, questi si propongono di aggirare e inibire la sensibilità.

Sempre da Freud si dipana tuttavia un secondo filo della riflessione, quello che introduce nel lessico contemporaneo la nozione di trauma. Tale termine, che designa condizioni fisiche e psichiche legate a un incidente scatenante e permanenti nel tempo anche molto dopo tale evento, si rivela fondamentale per rendere conto della sofferenza dei reduci di guerra, sopravvissuti al conflitto ma feriti nel fisico e nella mente, che vengono per la prima volta fatti oggetto di particolari attenzioni: sono figure come queste che portano Freud a indagare i meccanismi di resistenza e resilienza al trauma, riflettendo sulle modalità attraverso cui la volontà di vivere può liberarsi dalle inibizioni ed essere mobilitata per superare la sofferenza e gestirla.

Dopo il contributo del padre della psicoanalisi il tema oscilla tra due interpretazioni che si avvicendano storicamente: da un lato si vuole definire in modo oggettivo e univoco il trauma, stabilendone sintomi e cause, dall’altra si dà spazio alla vittima e le si permette di definire traumatiche le esperienze che l’hanno segnata e fatta soffrire. Se quest’ultima procedura ha senz’altro aiutato le vittime a esprimere legittimamente il proprio malessere, ha anche tuttavia generato un’inflazione delle esperienze traumatiche, grazie alla quale oggi il termine è usato talmente spesso e in modo talmente generalizzato che ha perso molto del suo potere rivoluzionario.

Proprio il rapporto tra sensibilità e linguaggio, rapporto attualissimo e assai discusso al giorno d’oggi, è posto al centro di uno dei momenti più interessanti della riflessione della filosofa tedesca. Le parole, per quanto immateriali, sono tutt’altro che innocue e si rivelano capaci di ferire, turbare e irritare molte persone, scatenando violente proteste che infiammano il discorso pubblico e generano divisioni e discussioni tra chi vorrebbe riformare radicalmente il linguaggio e chi ritiene tali politiche del linguaggio una forma di indebita imposizione autoritaria di un’identità.

Anche qui, come a riguardo di altre questioni, l’autrice sceglie di osservare il problema a partire dalle radici filosofiche che ne hanno segnato l’evoluzione, in particolare la scoperta della dimensione pragmatica e performativa della lingua e le interpretazioni post-strutturaliste della linguistica saussuriana.

Se la prima tradizione ha mostrato come la lingua non si limita semplicemente a designare e descrivere bensì è capace di agire e di compiere effettive azioni nel mondo attraverso atti linguistici, la seconda si è concentrata sulla natura arbitraria del linguaggio e delle sue strutture linguistiche, mostrando come le opposizioni terminologiche che informano il nostro parlare siano parte di un sistema che per quanto dato per scontato non ha un legame naturale e univoco con il mondo.

Proprio per questo autrici come Judith Butler hanno sostenuto la necessità politica di giocare con tali opposizioni categoriali al fine di mostrarne il carattere performativo e arbitrario e metterne in crisi la pretesa di esaustività e validità.

Flaßpöhler qui riesce però a evitare le assai frequenti equiparazioni tra le posizioni post-strutturaliste come quella di Butler e la vulgata politically correct riguardante l’emendazione del linguaggio in nome di una sensibilità inclusiva: la prospettiva della teorica femminista post-strutturalista non implica affatto la messa al bando dei termini problematici, né si propone di usare il linguaggio per rinforzare le identità culturali dei gruppi sociali. Tale prospettiva chiede anzi un superamento dell’illusoria convinzione che tali categorie rappresentino il mondo, che opposizioni quali “uomo” e “donna” oppure “bianco” e “nero” siano entità monolitiche da difendere a spada tratta in nome dell’identità, prospettando piuttosto una riappropriazione delle parole da parte dei gruppi marginali e la creazione di nuovi significati attraverso un gioco sovversivo ma senza la pretesa di ingabbiare le persone in categorie fisse e onnicomprensive. Ciò conduce a tutt’altro che alla glorificazione delle categorie sociali attualmente presenti, perché mira a mostrarne l’arbitrarietà, la porosità e il carattere irriducibilmente costruito: anziché modificare il linguaggio in modo da rivendicare i diritti delle donne, dei neri o delle persone con disabilità, sarebbe più opportuno mostrare come ognuna di queste categorie divida le persone in gruppi arbitrari fondati su opposizioni costruite, opposizioni che, se prese troppo sul serio, finiscono per segregare le identità in categorie arbitrarie anziché superare i limiti angusti e asfittici delle etichette linguistiche che le ingabbiano.

Di persone ingabbiate, stavolta all’interno delle proprie esperienze soggettive, l’autrice parla diffusamente anche s proposito del tema del rapporto tra sensibilità, identità e conoscenza, anch’esso oggetto di grande dibattito in tempi recenti.

Se le identità delle persone comportano esperienze di vita radicalmente differenti, come può ad esempio un uomo bianco capire cosa significhi il razzismo per una donna nera? Cosa capirà uno storico delle esperienze vissute da un sopravvissuto ai lager nazisti, se tali esperienze lui non le ha mai attraversate personalmente?

La nostra epoca è senz’altro caratterizzata da una presa di consapevolezza degli effetti del posizionamento sociale sulla conoscenza del mondo, e ciò ha senz’altro anche effetti positivi, rendendo più plurale e sfaccettata la nostra visione delle cose.

Ma quando si postula l’incomunicabilità radicale e si evita il dialogo, si perde anche il portato dialogico di tale consapevolezza e si riduce tutto al monologo della propria esperienza soggettiva e personale. Non si parla ad un amico delle proprie esperienze per sentirci dire che lui  sa come ci sentiamo (sarebbe inutile: lo sappiamo già anche noi), bensì per avere un diverso punto di vista sulla questione discussa.

Allo stesso modo lo storico non saprà cosa si prova ad essere internati in un campo di concentramento, ma saprà ad esempio fornire uno sguardo distaccato su quelle vicende, sguardo non migliore o più pregevole di quello del sopravvissuto, ma complementare e capace di integrarne l’esperienza.

Individui sempre più isolati tra loro si interfacciano quindi gli uni con gli altri in modo sempre più circospetto, reclamando i propri spazi e ricercando esperienze di socialità soddisfacenti ma che non vadano mai oltre le soglie della sensibilità.

In questo contesto il tatto diventa una dote fondamentale nella gestione delle relazioni umane, essendo la facoltà deputata a individuare le variazioni emotive degli altri e saperle interpretare rispettosamente. Ma non tutto viene lasciato alla sensibilità individuale: è soprattutto alla politica che si chiede di intervenire per regolare le relazioni umane in accordo con gli standard della sensibilità, ad esempio chiedendo ad essa di vietare certi contenuti nelle università, di agire sul linguaggio nella pubblica amministrazione, di sanzionare comportamenti ritenuti inaccettabili.

Proprio l’idea di accettabilità è il cuore della mutata sensibilità in ambito politico.

Chi segue la propria sensibilità non ritiene più accettabili molte cose che fino a poco tempo prima non si ritenevano problematiche e questo ha come prima conseguenza un acceso scontro generazionale, in cui i giovani portatori di nuove sensibilità sono etichettati dai più anziani  e conservatori come rammolliti, mentre i giovani dal canto loro disprezzano gli anziani come ottusi, insensibili e incapaci di aggiornarsi  e stare al passo con i tempi. Ma tale mutamento della soglia dell’accettabilità porta anche con sè quello che i sociologi chiamano “effetto Tocqueville”: più le disuguaglianze diminuiscono, più divengono inaccettabili quelle ancora rimaste, così che più l’egualitarismo e la democrazia avanzano più si fa attenzione e si notano le discriminazioni e le ingiustizie nella società odierna. L’uguaglianza genera sensibilità egualitaria, che a sua volta chiede sempre maggiore uguaglianza, e così via.

Ciò è senz’altro positivo qualora segnali un progressivo aumento dell’attenzione ai diritti e alla tutela dell’uguaglianza e della libertà, ma se, spinti da tale fenomeno, si delega alla politica il compito di proteggere gli individui dalle sofferenze, si rischia di ignorare la necessità di autodeterminazione degli individui stessi, che verrebbero esautorati da ogni responsabilità e trattati come perenni bambini da tutelare

.La sensibilità accompagna il progresso morale dell’umanità, ma non va confusa con esso né ritenuta condizione sufficiente per una condotta rispettosa e morale, come insegna il caso di Sade.  Essa porta spesso le persone a chiudersi in sé stesse o a trincerarsi nelle proprie identità, generando non solo persone isolate e prive di legami, ma anche vere e proprie ostilità verso l’altro: se esso turba la mia sensibilità allora va tenuto a distanza, bisogna impedirgli di urtarmi poiché esso non è più accettabile. Ciò genera ostilità e divisioni e mette a repentaglio le basi stesse della convivenza sociale e del confronto politico e solo l’intervento della resilienza può equilibrare la forza della sensibilità.

In conclusione, Flaßpöhler dà della sensibilità un affresco chiaroscurale e sfaccettato, equilibrato e attento a non demonizzarne i limiti ma nemmeno esaltarne acriticamente il potenziale. Attraverso le sue analisi emergono infatti non solo gli evidenti benefici che l’accrescimento della sensibilità ha portato alla sensibilità, ma anche i potenziali rischi che essa comporta, molti dei quali già riscontrabili nella nostra attualità.

L’autrice ricorda per questo come sia la rimozione del necessario intreccio di sensibilità e resilienza a sbilanciare i rapporti in direzione di una tirannia della sensibilità sfrenata e immoderata. Nella sua riflessione ritorna spesso il tema dell’opposizione complementare tra sensibilità e resilienza, un’opposizione che va intesa non come coppia di termini mutualmente esclusivi ma come diade in cui ogni elemento ha bisogno dell’altro per compensare i propri lati negativi.

La resilienza stessa, come capacità di sopportare il dolore e le sofferenze nella vita, non nega la sensibilità, ma è in fondo scaturita dalla stessa vulnerabilità che genera la sensibilità e  rappresenta un principio interpretativo differente della stessa condizione di partenza, che va a integrare il primo.

Proprio questa concezione della relazione tra resilienza e sensibilità è uno dei punti di forza dell’analisi della filosofa tedesca, insieme all’attenta riflessione sul delicato intreccio di dimensioni fisiche, psicologiche, morali ed estetiche che si nasconde dietro il termine generico “sensibilità”. L’autrice ripercorre spesso storicamente gli sviluppi di questo concetto multidimensionale, mostrando come la mutata percezione dell’accettabilità degli spazi e dei corpi si intrecci con la dimensione della regolamentazione politica, come la nascita di nuovi gusti letterari si affianchi alla narrazione psicoanalitica del trauma, come il bisogno di trovare la quiete nel trambusto del mondo moderno si leghi ad una nuova dimensione di ricerca spirituale.

Molte sono le dimensioni filosofiche toccate dall’autrice, dalla filosofia morale all’estetica, dalla teoria politica alla filosofia del linguaggio, dialogando inoltre con numerose discipline, come la psicologia, la psicoanalisi, la sociologia e la storia.

L’intento di fondo, dichiarato fin dall’inizio, è offrire una panoramica critica di un concetto che ha delle importanti ricadute critiche sul dibattito contemporaneo, così da offrire a tali discussioni spunti e strumenti di riflessione critica.

Come Georg Simmel, a suo tempo acuto osservatore delle trasformazioni della sensibilità moderna nelle sue molte dimensioni e delle ripercussioni sociali ad essa collegate, anche Flaßpöhler rifugge da valutazioni apocalittiche e nostalgiche e anziché condannare in blocco le mutazioni della sensibilità a cui assistiamo si propone innanzitutto di metterne in luce la complessità e le implicazioni.

Anche l’autrice, come il filosofo berlinese, sa cogliere più ampie dimensioni culturali e trasformazioni della mentalità all’interno delle pratiche che si affermano sempre più spesso nella nostra contemporaneità, scavandone le motivazioni profonde.

Volendo avanzare una ulteriore proposta interpretativa, potremmo avvicinare l’opera di Svenja Flaßpöhler al filone della filosofia sociale, nel senso attribuito al termine da Rahel Jaeggi e Robin Celikates: unendo analisi descrittiva con un’attenzione agli aspetti critico-normativi, la filosofia sociale offre analisi dei fenomeni sociali che mirano a valutare criticamente tali fenomeni, integrando quindi un momento normativo nell’analisi, senza però assumere la forma dei sistemi normativi della filosofia politica contemporanea. L’intento è quindi sicuramente politico, ma il termine non va qui inteso come facente riferimento a teorie normative astratte sulla società giusta, bensì ad una forma di analisi che sviluppa la propria critica a partire dall’analisi di formazioni sociali concrete e storicamente date, affini alla Sittlichkeit hegeliana. L’obiettivo è quello di offrire una critica immanente dei fenomeni sociali, atta  mettere in luce sia le potenzialità positive che le criticità degli stessi attraverso l’analisi del loro impatto sociale e della relazione che intrattengono con i problemi di una comunità di cittadini. Questo è ciò che fa nella sua opera Svenja Flaßpöhler, analizzando criticamente la sensibilità nella sua evoluzione storica e nelle sue trasformazioni socioculturali e mettendola in relazione con i bisogni psicologici e fisici degli individui e sulle relazioni sociali e politiche che li circondano e li informano, così da suggerire nuove modalità interpretative di un tema tanto delicato e scottante come la sensibilità contemporanea.

Bibliografia:

 

Svenja Flaßpöhler, Sensibili. La suscettibilità contemporanea e i limiti dell’accettabile, Nottetempo, 2023

 

Rahel Jaeggi e Robin Celikates, Filosofia sociale. Un’introduzione, Le Monnier-Mondadori, 2018

 

Rahel Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, Rosenberg & Sellier, 2017

 

Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, 1995

 

Georg Simmel, Estetica sociologica, in Stile moderno. Saggi di estetica sociale (a cura di Barbara Carnevali e Andrea Pinotti), Einaudi, 2020