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Cassazione Penale: legittimo l’utilizzo di telecamere per provare i furti dei dipendenti

La Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro può installare telecamere nei locali della propria azienda e usare in sede giudiziaria come prova le registrazioni effettuate se ha come scopo l’accertamento di comportamenti delittuosi.

Nel caso in esame, la dipendente di un supermercato era stata denunciata per essersi appropriata del denaro che riceveva dai clienti. Era stata condannata dal Tribunale per furto, in appello la Corte territoriale riqualificava la condotta criminosa nel reato di appropriazione indebita aggravata.

Avverso tale sentenza, l’imputata proponeva ricorso in Cassazione, con un unico motivo di gravame con il quale deduceva l’inosservanza di norme processuali, eccependo l’inutilizzabilità delle videoregistrazioni effettuate dal datore di lavoro, per violazione degli articoli 4 e 38 della legge 300/1970  (“Statuto dei Lavoratori”).

La Corte di Cassazione ha stabilito che, in conformità della giurisprudenza delle Sezioni Penali della Corte, sono pienamente utilizzabili le videoriprese effettuate attraverso telecamere installate nei luoghi di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi.

Il datore di lavoro, a giudizio della Suprema Corte, può legittimamente installare nei locali della propria azienda “telecamere per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori”, in quanto le citate norme dello Statuto tutelano sì la riservatezza dei lavoratori ma non fanno divieto dei cosiddetti “controlli difensivi” del patrimonio aziendale e non vietano il loro utilizzo in sede processuale.

In questo caso, l’istallazione era successiva ad un controllo operato dal datore di lavoro, che rilevava mancati profitti. Questa, dunque, non si poneva come strumento per controllare a distanza i dipendenti, ledendo il diritto alla riservatezza dei lavoratori, ma piuttosto per ottenere, sul piano probatorio, la conferma di ciò che si verificava nella propria azienda, per la difesa del patrimonio aziendale attraverso la documentazione di attività potenzialmente criminose.

Ragion per cui, la Corte ha rigettato il ricorso dell’imputata perché infondato, condannandola al pagamento delle spese del procedimento, in base all’articolo 616 del Codice di Procedura Penale.

(Corte di Cassazione - Seconda Sezione Penale, Sentenza 22 gennaio 2015, n. 2890)

La Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro può installare telecamere nei locali della propria azienda e usare in sede giudiziaria come prova le registrazioni effettuate se ha come scopo l’accertamento di comportamenti delittuosi.

Nel caso in esame, la dipendente di un supermercato era stata denunciata per essersi appropriata del denaro che riceveva dai clienti. Era stata condannata dal Tribunale per furto, in appello la Corte territoriale riqualificava la condotta criminosa nel reato di appropriazione indebita aggravata.

Avverso tale sentenza, l’imputata proponeva ricorso in Cassazione, con un unico motivo di gravame con il quale deduceva l’inosservanza di norme processuali, eccependo l’inutilizzabilità delle videoregistrazioni effettuate dal datore di lavoro, per violazione degli articoli 4 e 38 della legge 300/1970  (“Statuto dei Lavoratori”).

La Corte di Cassazione ha stabilito che, in conformità della giurisprudenza delle Sezioni Penali della Corte, sono pienamente utilizzabili le videoriprese effettuate attraverso telecamere installate nei luoghi di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi.

Il datore di lavoro, a giudizio della Suprema Corte, può legittimamente installare nei locali della propria azienda “telecamere per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori”, in quanto le citate norme dello Statuto tutelano sì la riservatezza dei lavoratori ma non fanno divieto dei cosiddetti “controlli difensivi” del patrimonio aziendale e non vietano il loro utilizzo in sede processuale.

In questo caso, l’istallazione era successiva ad un controllo operato dal datore di lavoro, che rilevava mancati profitti. Questa, dunque, non si poneva come strumento per controllare a distanza i dipendenti, ledendo il diritto alla riservatezza dei lavoratori, ma piuttosto per ottenere, sul piano probatorio, la conferma di ciò che si verificava nella propria azienda, per la difesa del patrimonio aziendale attraverso la documentazione di attività potenzialmente criminose.

Ragion per cui, la Corte ha rigettato il ricorso dell’imputata perché infondato, condannandola al pagamento delle spese del procedimento, in base all’articolo 616 del Codice di Procedura Penale.

(Corte di Cassazione - Seconda Sezione Penale, Sentenza 22 gennaio 2015, n. 2890)