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Sesso in caserma: truffa o goliardia?

Lecce
Ph. Antonio Capodieci / Lecce

Abstract

Il presente contributo vuole commentare un fatto di cronaca che vede protagonista un carabiniere condannato in primo grado a undici mesi per truffa ai danni dello Stato (pena sospesa). Secondo l’accusa, il protagonista della vicenda, attraverso artifizi e raggiri, avrebbe introdotto due civili negli uffici della caserma dove lavorava, consumando un rapporto sessuale con una delle due. Per la natura fraudolenta dell’episodio, nonostante la sua singolarità rispetto ai casi solitamente trattati, riteniamo che la fattispecie in questione rientri a pieno titolo nella nostra rubrica “110 e frode”.

 

Indice:

1. Il fatto

2. Aspetti normativi

3. Conclusioni

 

1. Il fatto

Poche settimane fa è balzata agli onori delle cronache la notizia di un carabiniere condannato per truffa ai danni dello Stato (ex articolo 640 del Codice penale) forzata consegna (ex articolo 140 Codice penale militare di pace) e falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (ex articolo 479 Codice penale), in quanto ha avuto rapporti sessuali con una civile, negli stessi uffici della caserma ove le ha introdotte con un raggiro, segnando peraltro un’ora di straordinario.

Nella notte tra il 10 e l’11 gennaio 2017 il carabiniere usciva dagli alloggi del comando provinciale, prima di iniziare il turno alle ore 01.00 fino alle 07.00 del giorno dopo. Si è perciò recato in un bar vicino per un caffè ove ha incontrato due donne. Una volta usciti, introduceva le due civili negli uffici interdetti al pubblico, manifestando al piantone generici motivi di servizio. A tal proposito il collega avrebbe registrato l’entrata con la dicitura “info, sul registro degli ingressi. Una delle due donne ha avuto in quel frangente rapporti intimi con il militare denunciandolo poi per violenza sessuale. La denuncia è caduta, grazie anche alla testimonianza oculare dell’altra donna che ha dichiarato che il rapporto tra i due è stato consensuale ed anzi sarebbe stata proprio la denunciante ad assumere l’iniziativa.

È bene precisare che, contrariamente a quanto scrive Repubblica, la donna che si è intrattenuta con il Carabiniere non è una prostituta. L’altra donna è invece un’amica comune del militare e della denunciante. La prima è stata a sua volta denunciata per calunnia (ex articolo 368 c.p.) e condannato con il rito abbreviato nella giornata del 5 maggio 2021, a un anno e quattro mesi (pena sospesa).

Tuttavia, le disavventure processuali del militare non sono terminate qui, in quanto si è avviato un procedimento nei suoi confronti per i reati di falso, forzata consegna e truffa che è terminato in primo grado come già abbiamo detto. Il suo legale attende il deposito delle motivazioni della sentenza, non ancora disponibili, per ricorrere in appello.

 

2. Aspetti normativi

In attesa, dunque, di leggere le motivazioni della Corte esaminiamo le violazioni contestategli.

L’articolo 640 c.p.  “truffa” recita: “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032.

La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 309 a euro 1.549:

1) se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico (…)”.

La parte attiva, in questo caso è ovviamente il carabiniere, mentre la parte passiva è lo Stato che ha pagato15.84 lordi di straordinario, per un’ora di lavoro che, secondo l’accusa, non è stata espletata. A tal proposito la difesa evidenzia che nelle ore precedenti ai fatti in trattazione, il militare si sarebbe portato avanti con il lavoro e ciò sarebbe documentato. Ciò che non è oggetto di contestazione è che il militare abbia effettivamente espletato le pratiche che aveva in carico. La questione che il processo ha dovuto dirimere è quando le abbia svolte. Secondo l’accusa dopo l’una, secondo la difesa prima e, pertanto, in orario straordinario.

Il tempo trascorso dalle due donne all’interno della caserma è stato inferiore ai quindici minuti (dalle ore 00.06 alle ore 00.20), comunque, sufficiente ai due per consumare il rapporto sessuale. Nei restanti 40 minuti il carabiniere avrebbe perciò lavorato così come dichiarato.

L’articolo 140 c.p.m.p., “forzata consegna” recita: “Il militare, che in qualsiasi modo forza una consegna, è punito con la reclusione militare da sei mesi a due anni (…)

La consegna in questo caso attiene al divieto di non introdurre nessun civile all’interno degli uffici della caserma. Tale divieto è stato palesemente violato dal militare e neppure questo fatto è oggetto di contestazione. La locuzione “forzata” potrebbe essere fuorviante, in quanto giurisprudenza consolidata stabilisce che il reato non si configura con la sola coercizione fisica o con la minaccia, ma sono rilevanti anche condotte quali la frode, il raggiro o l’inganno. Nella fattispecie da noi esaminata, vediamo infatti che al fine di introdurre all’interno degli uffici le due donne, il militare avrebbe riferito al collega che avrebbe dovuto sentirle per fini investigativi. Non a caso, nel registro degli ingressi il piantone di guardia fino a quel momento avrebbe indicato la formula generica “info” per giustificare l’entrata delle due civili.

L’articolo 479 c.p.  “falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici” recita: “il pubblico ufficiale, che (…) nell'esercizio delle sue funzioni, (…) attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476”

Il reato di falso è centrale nella vicenda, in quanto prodromico agli altri due, la truffa e la forzata consegna. Di fatto, il carabiniere avrebbe commesso due distinte dichiarazioni di falso contestategli dalla Procura: la prima in occasione dell’ingresso in caserma, dichiarando al collega di turno, ragioni mendaci circa l’ingresso delle due civili. Questo fatto sarebbe prodromo della forzata consegna. Il secondo falso lo avrebbe commesso in occasione della compilazione del foglio presenze in cui, secondo l’accusa, avrebbe aggiunto un’ora di straordinario indebitamente percepita. Questo è quindi prodromo al reato di truffa. A tal proposito la difesa obbietta che il lavoro extra del carabiniere è stato effettivamente eseguito e documentalmente provato. Inoltre, il foglio presenze è un atto interno alla caserma e pertanto, secondo il legale non assumerebbe rilevanza di atto pubblico. A parere di chi scrive, effettivamente il foglio presenze, costituisce un documento interno, in formato Excel che ciascun militare compila per il comandante, ma che in un secondo momento non può che tradursi nella busta paga percepita il mese successivo dal militare, seppure sull’indicazione degli straordinari la giurisprudenza non è unanime. 

 

3. Conclusioni

Sorvolando sugli aspetti giuridici, per i quali ancora si attende il deposito delle motivazioni del giudice che ha emesso la sentenza alla quale si ricorrerà in appello, vorremmo in questa sede approfondire alcuni aspetti di carattere prettamente sociale. L’opinione pubblica a tal proposito si è divisa sulla vicenda, creando le consuete “tifoserie”. Da una parte i giustizialisti che invocano le tanto agognate “pene esemplari” e dall’altra gli innocentisti che per una sorta di atavico cameratismo da spogliatoio trovano che la pena sia “esagerata” rispetto al fatto e che avrebbero optato per una pubblica tirata di orecchie e una privata pacca sulla spalla e, perché no, una complice strizzatina d’occhio. Al centro non si sono riscontrate posizioni equilibrate, ma si è sbizzarrita la creatività degli utenti social che hanno commentato la notizia con ironia. Chi scrive probabilmente è più incline a questa terza fazione, ma non è certamente questa la sede per condividere commenti divertenti.

Vorremmo piuttosto evidenziare alcuni aspetti che a nostro avviso hanno portato il giudice a valutare il fatto meritevole di biasimo. In primis, anche a rischio di apparire retorici, non possiamo sottacere che chi è preposto a far rispettare le leggi, soprattutto in questo preciso momento storico in cui le stesse sono draconiane e non sempre comprese da tutti, ci si aspetterebbe una maggiore solerzia. Non possiamo affatto dire che la fiducia nelle istituzioni e nell’autorità costituita sia ai minimi storici, in quanto l’Italia ha attraversato periodi ben più caldi di quello attuale, in termini di conflittualità tra le forze di polizia e il mondo civile. Periodi che fanno parte, appunto, della nostra storia ma che vorremmo rimangano tali. Per questo motivo troviamo che episodi di questo genere debbano essere stigmatizzati e sanzionati. Non con pene esemplari come si attenderebbe qualcuno, bensì con la giusta pena, alla quale ciascun cittadino è chiamato a rispondere nel momento in cui compia una qualsivoglia violazione. Giusta pena che non si esaurisce dunque in una mera equazione: reato uguale sanzione uguale condanna ma, fermo il principio della discrezionalità del giudice naturale, valutando il caso di specie.

Un secondo aspetto, di non poco conto attiene a logiche di sicurezza. Difatti, come si è appurato, il rapporto intimo non si è consumato tra colleghi interni alla caserma, bensì tra un militare ed una civile. Nel frattempo, una terza persona, che non sappiamo dove si trovasse in quei momenti, era libera di circolare indisturbata per uffici ai quali normalmente non avrebbe avuto accesso. Non serve citare recenti casi di spionaggio militare per comprendere i rischi ai quali una simile leggerezza avrebbe esposto l’intera caserma.

Concludiamo citando l’edizione cartacea di Libero del due aprile che titola: “Non si condanna un carabiniere solo perché ha fatto l’amore”. Sottotitolo: “Il militare, durante l’ora di straordinario, si è appartato in caserma per consumare un momento di intimità con una signora. Gli hanno dato undici mesi: esagerati”. Ebbene, per rispondere alla cronista, nessuno è stato condannato solo per aver fatto l’amore.