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Stalking aggravato se il datore di lavoro ti vessa con mobbing continuo

Si esprime la Suprema Corte.
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La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un manager condannato per atti persecutori in seguito a vessazioni, umiliazioni e intimidazioni di licenziamento perpetrate nei confronti dei lavoratori.

 

Stalking: il fatto

Un presidente di una società di servizi s.r.l. era stato condannato, in primo e secondo grado (con leggere modifiche nella sentenza di condanna) per atti persecutori nei confronti dei suoi subordinati.

Scrive la Suprema Corte: “Al ricorrente si contesta di avere, […] quale titolare di una posizione di supremazia nei confronti delle persone offese, dipendenti della stessa società e svolgenti funzioni di ausiliari del traffico, tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, ingenerato nelle persone offese un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita”.

 

Stalking: la difesa

Nonostante le gravi accuse, sfociate poi in una sentenza di tutto spessore, il presidente della summenzionata società è andato avanti nella difesa, arrivando sino al giudizio di terzo grado, contestando taluni aspetti procedurali e definitori.

In primo luogo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), del codice di procedura penale, “il travisamento per omissione di una prova decisiva […], nella quale si affermava che tutti i provvedimenti adottati nei confronti dei lavoratori erano stati condivisi ed esaminati dal consiglio di amministrazione della società e che le iniziative dell’organo gestorio erano finalizzate esclusivamente al miglioramento della produttività della stessa.

Tale documento, secondo il ricorrente, era di fondamentale importanza, dal momento che esso testimoniava che taluni dipendenti “avevano assunto un particolare atteggiamento di assoluta ed illegittima resistenza alle trasformazioni produttive ed organizzative che egli stava attuando in seno alla società in house, cosicché si era venuto a creare un conflitto tra l’imputato ed alcuni dipendenti iscritti alla medesima associazione sindacale

Il ricorrente specifica che il conflitto non era da intendersi di natura personale, bensì di natura lavorativa, derivando “dalle molteplici direttive di lavoro disattese e dagli ordini di servizio ignorati dalle persone offese”.

 

Stalking: mobbing o atti persecutori?

Partiamo dalla definizione di mobbing fornita dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza in parola.

Il mobbing, inteso come la reiterata attuazione di condotte volte ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, può integrare il delitto di atti persecutori, laddove esso produca nella vittima uno stato di prostrazione psicologica che si manifesti con uno dei tre eventi previsti dall’art. 612 –bis del codice penale.”

Il ricorrente, dunque, sottolinea come il mobbing non sia equiparabile allo stalking, richiedendo, questo, “comportamenti fortemente invasivi della sfera privata.”

E non è finita qui, dal momento che egli ricorda, inoltre, che gli atti persecutori mirano ad instaurare un rapporto con la vittima, il mobbing “è finalizzato alla espulsione della vittima dal contesto lavorativo.

È vero che la Corte di Cassazione aveva già affermato che “l’ambiente lavorativo non è una zona franca dello stalking e che la determinazione del contesto in cui si è consumata la condotta è irrilevante allorché i reiterati comportamenti ostili abbiano procurato un danno psicologico nei termini indicati dall’art. 612 –bis del codice penale”, ma è altrettanto vero –sostiene il ricorrente – che il contesto ha un suo peso e “la circostanza che le condotte dell’imputato fossero riconducibili ad un disegno persecutorio unificante e preordinato alla prevaricazione delle parti civili vinee apoditticamente affermata in assenza di dimostrazione.”

 

Stalking: la base giuridica

La questione qui esposta giorno intorno ad un particolare articolo del codice penale, che conviene a chi scrive di citarlo e a chi legge di considerarlo attentamente ai fini della comprensione della decisione finale assunta dalla Corte di Cassazione.

L’articolo 612 –bis del codice penale, titolato “Atti persecutori”, sancisce:

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale.

La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n.104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

 

Stalking: l’ultima parola alla Suprema Corte

La Corte di Cassazione, riguardo all’aspetto procedurale contestato dal ricorrente, ha affermato che tale motivo è infondato, non avendo correttamente la Corte di Appello preso in considerazione la missiva, dal momento che “è inammissibile la prova quando con il documento si vuole accertare il fatto attestato nella dichiarazione, perché ciò può avvenire soltanto introducendola nel processo come testimonianza.

La Corte ricorda che già in passato essa ha affermato che “integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro.

Inoltre, per lo stalking “occupazionale” è richiesto il dolo generico e, dunque, la mera volontà di porre in essere le summenzionate condotte.

Il manager ha reiteratamente minacciato le persone offese di “cementarle” in un pilastro, le ha sottoposte a umiliazioni e mortificazioni, li ha invitati ad uno scontro fisico e, inoltre, è ricorso al licenziamento “al fine di creare terrore tra i dipendenti iscritti ad una associazione sindacale”.

Mai si può addurre a giustificazione il rendere più efficiente l’azienda, perché essa “non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti ai danni della persona, dovendo la tutela della persona e, nel caso specifico, del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici”, così come emerge dalla nostra Carta Costituzione nei principi fondamentali.