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La disciplina dell’estensione del fallimento al socio, tra dottrina e giurisprudenza

Parigi
Ph. Simona Balestra / Parigi

Abstract

Scopo della presente indagine è analizzare la disciplina ex articolo 147 l.f. sì da fornire un quadro completo dell’attuale assetto giuridico. L’estensione del fallimento è stato, nel tempo, oggetto di ampi dibattiti creando notevoli dubbi interpretativi che, ancora oggi, non possono dirsi completamente risolti. Il criterio di imputazione della qualità di imprenditore e, conseguentemente, del rischio di impresa, l’estensione del fallimento ai soci o alle società occulte, di fatto, sono temi discussi soprattutto nell’ambito dell’articolo 147 l.f..

L’articolo, dunque, avrà modo di indagare sui percorsi giurisprudenziali intercorsi sul tema, per poi effettuare un raccordo con la disciplina ex articolo 216 l.f., la c.d. bancarotta fraudolenta.

 

Indice:

1. l’estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile

2. l’estensione del fallimento al socio limitatamente responsabile

3. rapporti con la disciplina ex articolo 216 l.f

 

1. L’estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile

Storicamente la disciplina fallimentare (che vede le sue origini con le corporazioni medievali) nasce come normativa atta a porre in stato di liquidazione i mercanti, che oggi definiremmo imprenditori individuali, insolventi e la legiferazione seguente si è sviluppata su queste premesse. Tuttavia ciò non toglie che le norme sul fallimento - laddove non si riferiscano esclusivamente alla persona fisica - siano applicabili anche alle persone giuridiche e alle società. La legge fallimentare, per quanto concerne le società, dagli artt. 146 ss., prevede in realtà poche norme, essendo possibile applicare in buona parte le disposizioni già previste per l’imprenditore individuale. Già la relazione del Guardasigilli alla Legge fallimentare del 1942 (n. 34) osservava come questa si limiti “a dettare poche e semplici norme, le quali concernono quasi esclusivamente i rapporti tra le società e i soci nel fallimento”.

L’attività commerciale, il cui esercizio è presupposto indispensabile per la dichiarazione di fallimento, può essere svolta in forma collettiva e, in particolare, in forma societaria. Come noto, per la costituzione di una persona giuridica non sono richieste particolari formalità, come la forma contrattuale scritta, potendosi il contratto societario concludersi anche tramite una serie di atti che siano manifesta espressione della volontà dei soggetti in tal senso. È quest’ultima l’ipotesi della società di fatto, la quale, qualora non eserciti attività commerciale, è sottoposta alla disciplina propria della società semplice, ovvero della società in nome collettivo irregolare.

L’onere della prova circa l’esistenza e l’insolvenza di una società di fatto grava sul soggetto interessato ad ottenere dal Giudice delegato la dichiarazione di fallimento, dovendo lo stesso, in seno all’istanza presentata, dimostrare che i presunti soci pongono in essere atti, in modo continuativo e sistematico, con lo scopo di perseguire un interesse sociale condiviso, anche tramite la disposizione di mezzi e/o fondi comuni. In particolare, la Giurisprudenza è conforme nel ritenere che tre sono i presupposti che debbono necessariamente sussistere perché si possa concretizzare la cd. società di fatto: l’affectio societatis, il fondo comune e la partecipazione comune dei soci agli utili e alle perdite (cfr. tra le tante Cass. Civ. n. 8981/2016, che richiama Cass. Civ. n. 5961/2010; Cass. Sez. Un. n. 2243/2015).

In merito alla società di fatto, esercitante attività commerciale, l’articolo 147 l.f., giova precisarlo, non si presta ad una estensione del fallimento al dominus (ossia la società o persona fisica che concretamente controlla e gestisce l’attività imprenditoriale) per l’insolvenza delle società da lui controllate in via strumentale, ma bensì consente l’estensione ad un gruppo orizzontale di società e persone fisiche organizzate, le quali partecipano in concerto all’attività di impresa (la c.d. super-società di fatto). Accettare un’ipotesi di segno opposto si tradurrebbe in un ampliamento eccessivo della portata normativa dell’articolo, la cui ratio è quella di estendere il fallimento della società ai soci (siano questi persone fisiche o giuridiche) e non anche ad eventuali holding. L’estensione del fallimento operata dall’articolo 147 l.f. non è applicabile al caso di una società o persona fisica che, controllando enti a lui sostanzialmente in posizione di subordinazione, persegue i propri interessi. In quest’ultimo caso sarà piuttosto individuabile una c.d. holding di fatto e non già una supersocietà di fatto.  non agisce in via verticale, bensì orizzontale. Per dirla in altri termini l’estensione agisce in via orizzontale e non anche verticale.

L’articolo 147, 1° comma l.f., rubricato “società con soci a responsabilità illimitata”, statuisce che “la sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”. L’articolo afferma che la dichiarazione di fallimento della società in nome collettivo (capo III), società in accomandita semplice (capo IV) e società in accomandita per azioni (capo VI) automaticamente investe i soci, anche non persone fisiche, illimitatamente responsabili. Il fallimento del socio, dunque “prescinde dalla qualità di imprenditore e dall’insolvenza del socio medesimo” (Cass. 6 novembre 1985, n. 5394, in Fallimento, 1986, 497; Cass. 4 giugno 1992, n. 6852, in Giur. It., 1993, I, 1, 578; Cass. 24 luglio 1997, n.6925 in Fallimento, 1998, 579) e l’estensione è giustificata dalla semplice dimostrazione dell’esistenza del vincolo sociale. Il presupposto per l’estensione della dichiarazione di fallimento della società al socio è, pertanto, la prova dell’esistenza di un vincolo, talvolta palesato, talvolta desumibile dal comportamento o compimento di atti da parte del socio presunto.

Relativamente si soci occulti, l’articolo 147 l.f. si cura anche di precisare che questi siano anch’essi fallibili: il successivo comma 4, prevede che “Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi”.

A tal fine, come per la società occulta, sarà necessario tuttavia dimostrare, ad onere della parte interessata ad ottenere l’estensione al fallimento, gli elementi già evidenziati ut supra, elementi che dovranno necessariamente godere di una particolare efficacia probatoria qualora si intenda riscostruire un rapporto societario tra parenti (Tribunale Padova, sez. I, 12.2.2018; Tribunale di Torino, sez. VI civile e fallimentare 2.7.2018).

Tale presupposto sussiste anche per i soci accomandanti, nella società in accomandita semplice, qualora compiano atti d’ingerenza nell’amministrazione della società.  Infatti, secondo l’articolo 2320 c.c. i soci accomandanti, che secondo la disciplina dell’accomandita semplice sono responsabili limitatamente, in caso di violazione del c.d. “divieto di immistione” perdono tale beneficio, diventando così responsabili per tutte le obbligazioni assunte dalla società e subendo la dichiarazione di fallimento in proprio per estensione del fallimento della s.a.s., considerato che assume rilevanza “ogni ingerenza negli affari sociali, anche se non abbia riflessi obbligatori verso terzi” (Cass. 26 febbraio 1988, n. 2041, in Giur. It., 1988, I, 1, 1333; Cass. 6 giugno 2000, n.7554, in Fallimento, 2001, 555; Cass. Civile, sez. I, 27 giugno 2018, n. 16984).

L'articolo 1 l.f. stabilisce che sono soggetti al fallimento (al concordato preventivo e alla amministrazione controllata) gli imprenditori commerciali; alternativamente altri e particolari imprenditori commerciali sono sottoposti a diverse procedure concorsuali. Analizzando in modo letterale l’articolo 1 viene naturale chiedersi come sia possibile giustificare, ex articolo 147 l.f., l’estensione del fallimento ad un soggetto (il socio illimitatamente responsabile) che può non possedere la qualità di imprenditore commerciale e può non risultare insolvente ex articolo 5 l.f. (stato d’insolvenza).

Una prima soluzione offerta in Dottrina sostiene la necessità di trattare i soci illimitatamente responsabili come imprenditori commerciali individuali a tutti gli effetti, essendo lo schermo societario un semplice velo nell’esercizio di attività di impresa, che trasla, ma solo formalmente, l’esercizio di attività commerciale dalla persona fisica a quella giuridica.

Una seconda corrente dottrinale sostiene invece di dover considerare i soci illimitatamente responsabili come degli imprenditori indiretti della società-imprenditore diretto. Entrambe le soluzioni proposte, però, sembrano svilire l’autonomia dell’ente collettivo, il quale merita di essere trattato come un ente imprenditoriale a sé stante, distinto dalla figura dei singoli soci, in linea con l’articolo 2 Cost. che sostiene le formazioni e organizzazioni sociali. Ecco, dunque, che l’estensione del fallimento dalla società al socio ben può trovare fondamento nella responsabilità d'impresa che grava sullo stesso anche senza che questi sia definibile imprenditore (diretto o indiretto), come accade per il socio di s.n.c. che non gestisca l'impresa. La dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile consegue automaticamente al fallimento sociale quale naturale corollario della responsabilità illimitata che già pesa sul socio anche rispetto alla società non insolvente.

Anche il cessare del vincolo sociale per morte, recesso, esclusione o cessione delle quote non mette necessariamente al riparo da una eventuale dichiarazione di fallimento il socio che interrompe il vincolo sociale, in quanto può accadere che l’uscita dalla società sia un atto “di comodo” attuato proprio in vista di un futuro e prevedibile dissesto della società. Proprio in relazione a quest’ultimo aspetto sono previsti dei termini cronologici per il socio illimitatamente responsabile receduto, escludendo che il fallimento possa essere dichiarato “decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o cessione” (Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319, in Foro it., 2000, I, 2723), ciò fermo restando che il recesso venga portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei e che l’insolvenza attenga a debiti sorti in tutto o in parte dalla data di cessazione del rapporto sociale (Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319, in Foro it., 2000, I, 2723).

Infine, è da sottolineare che la dichiarazione di fallimento della società, estendendosi anche ai soci in forza del presupposto del vincolo societario, qualora risulti nulla, chiaramente investirà anche il fallimento dei soci. Non vale invece la considerazione opposta: la nullità della dichiarazione del fallimento del socio non può comportare la nullità della dichiarazione di fallimento della società, che rimane comunque valida. Questo aspetto va precisato alla luce della sentenza della Cass. Civile, 26 ottobre 1981, n. 5579, secondo la cui massima “Qualora il fallimento del socio sia conseguenza ope legis del fallimento sociale (articolo 147 l. fall.), la revoca del fallimento della società, in sede di opposizione, non comporta la revoca del fallimento del socio, ove si accerti, anche d'ufficio, che l'impresa erroneamente attribuita alla società risulti essere individuale del socio, il quale rivesta la qualità di imprenditore e versi in stato d'insolvenza, dal momento che i poteri d'ufficio di cui è dotato il tribunale fallimentare persistono anche nel giudizio di opposizione”.

Ciò detto, ne consegue che, nel dichiarare il fallimento di una società, in concreto vi sono una pluralità di fallimenti (della società e dei soci), che vengono dichiarati contestualmente e riuniti in un unico processo, pur mantenendo personali profili di autonomia. Ai sensi dell’articolo 148, 2° comma l.f. “il patrimonio della società e quello dei singoli soci devono essere tenuti distinti”.

La distinzione risulta funzionale per la procedura di liquidazione, essendo necessario distinguere i patrimoni aggredibili dai creditori sociali e quelli aggredibili invece dai creditori personali dei soci. Se infatti è noto che i creditori sociali possono rifarsi sul patrimonio societario e su quello di ogni singolo socio illimitatamente responsabile, altrettanto noto è che i creditori personali dei soci potranno partecipare soltanto al fallimento del proprio socio debitore. Risulta dunque necessaria una distinzione tra masse attive sociali e dei singoli soci.

Qualora la società sia regolarmente costituita non si presentano numerosi problemi, essendo la massa attiva facilmente ricavabile dall’individuazione dei conferimenti dei soci, nonché beni e diritti acquisiti dalla società per l’esercizio dell’attività, mentre la massa attiva di ogni singolo socio risulterà dai beni e diritti non conferiti per l’esercizio dell’attività sociale, nonché beni mobili e immobili utilizzati dalla società a solo titolo di godimento. Problemi possono porsi invece nel caso di società irregolari o occulte, in quanto la massa attiva societaria sarà da ricavarsi avendo a riguardo atti e fatti concludenti, nonché il comportamento dei singoli soci. Ciò chiaramente non risulta, nella pratica, del tutto agevole, se si pensa poi alla difficoltà di dover desumere da comportamenti concludenti dei soci se determinati beni siano di proprietà della società o se siano semplicemente conferiti a titolo di godimento.

La giurisprudenza, nel dipanare questi ultimi dubbi, afferma che, tenuti presenti i principi civilistici, saranno da ritenere masse attive societarie, in virtù del principio del possesso vale titolo, i beni mobili utilizzati per l’esercizio dell’attività societaria, mentre, per quanto concerne i beni immobili, questi andranno considerati come conferiti a titolo di godimento, essendo necessaria la forma scritta per il loro trasferimento (Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 29885 del 19 dicembre 2008, reperibile sul sito www.ilcaso.it.). La massima della sentenza, pur facendo riferimento alla società semplice, afferma che il trasferimento di un bene può anche desumersi per facta concludentia, salvo che il bene in questione non richieda una forma speciale, come per i beni immobili, per i quali è richiesta la forma scritta. I beni immobili in società irregolari e/o occulte andranno dunque considerati come conferiti a titolo di godimento.

Se fino ad adesso si è analizzata l’estensione del fallimento della società ai soci (articolo 147, 1° comma l.f.), evidenziando che il fallimento della prima è presupposto necessario per la dichiarazione di fallimento dei secondi, si procederà ora ad esaminare l’aspetto inverso, ossia la “trasformazione” di una dichiarazione di fallimento individuale in fallimento sociale (articolo 147, 5° comma l.f.). L’aspetto ivi analizzato è una positivizzazione ad opera del Legislatore, attuata con la riforma del 2006, di una corrente giurisprudenziale estensiva del comma quarto dell’articolo 147 l.f. (Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 30 gennaio 1995, n. 1106), che considera il caso in cui dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile a una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile. Rispetto alla disciplina del 1° comma, in questo secondo caso non si opera una estensione del fallimento ad altri soggetti, bensì avviene una rettifica della precedente sentenza: si procede ad individuare quale imprenditore fallito un soggetto differente (la società) da quello originario.

Muovendo dalla premessa che la dichiarazione di fallimento della società successivamente scoperta sia una correzione della sentenza originaria e non già una estensione, come accade invece ex articolo 147, 1° comma l.f., la Dottrina era uniforme nel ritenere ammissibile la retroattività dei termini e degli effetti alla data della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale.

La giurisprudenza invece ha intrapreso una strada interpretativa differente, non concorde nel trattare la “trasformazione” del fallimento individuale in societario quale semplice rettifica della sentenza. In particolare, secondo la giurisprudenza, la nuova dichiarazione di fallimento richiede tutta una serie di nuovi accertamenti quali l’esistenza, dapprima ignorata, della società e l’insolvenza della società stessa. Ciò si rende necessario anche in considerazione del fatto che le masse passive dell’imprenditore individuale originario e della società sono distinte: l’impresa societaria risponde solo dei debiti relativi a questa, mentre l’imprenditore individuale, presunto socio, risponde anche dei debiti ad essa estranei, sicché può ritenersi teoricamente possibile che il fallimento della società non sussista, qualora l’insolvenza accertata in capo all’imprenditore individuale originariamente individuato sia relativa a debiti propri solo di quest’ultimo.

Da quanto detto consegue che la dichiarazione di fallimento della società opera con effetti ex nunc e non già ex tunc come ipotizzato da alcuna dottrina. Rimangono tuttavia fermi gli effetti della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale.

Successivamente alla dichiarazione di fallimento della società, inoltre, i soci illimitatamente responsabili, dichiarati falliti per estensione della dichiarazione, non potranno più opporsi alla sentenza di fallimento della società, contestando i presupposti di fallibilità del socio originariamente fallito, ad esempio rilevandone la natura di piccolo imprenditore, dovendo tale qualità essere fatta valere opponendosi alla prima dichiarazione di fallimento. Ne consegue che, una volta dichiarato il fallimento, l’opposizione può solo riguardare la sussistenza della società di fatto (Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2008, n. 16594, in Giur. It., 2008, 118).

 

2. L’estensione del fallimento al socio limitatamente responsabile

La società in accomandita per azioni, la società a responsabilità limitata e la società per azioni formano la categoria delle società di capitali. Caratteristiche delle società di capitali sono:

  1. l’autonomia patrimoniale perfetta della società, in virtù della quale per le obbligazioni sociale risponde essa sola con il suo patrimonio e non anche i suoi soci e amministratori (articolo 2325, 1° comma);
  2. le azioni ad indicare la partecipazione di ciascun socio (articolo 2346, 1° comma).

Relativamente alla prima, va detto che la società in accomandita per azioni rappresenta un’eccezione, in quanto i soci accomandatari rispondono illimitatamente e solidalmente con la società per le obbligazioni sociali, al pari dei soci di società di persone.

Ne deriva che il socio di società di capitali può essere sottoposto a fallimento se accomandatario (di società in accomandita) in virtù del richiamo ex articolo 147, 1° comma l.f., ovvero se unico azionista o quotista qualora non vengano rispettate determinate formalità ex articolo 2325, 2° comma e 2462, 2° comma in materia di società di capitali unipersonali.

Le caratteristiche ivi esposte spiegano facilmente il perché del proliferare di società di capitali nel mercato, in particolare delle s.r.l., tramite le quali gli imprenditori hanno modo di destinare una specifica porzione del proprio patrimonio per la gestione di una specifica attività imprenditoriale e di godere del beneficio dello schermo della personalità giuridica, così che il rischio di impresa sia sopportato solo dal capitale all’uopo destinato.

Nella s.pa. e s.r.l. i soci non assumono, tranne rare eccezioni, nessuna responsabilità in proprio, per le obbligazioni sociali, con la conseguenza che i creditori sociali potranno soddisfarsi solamente aggredendo il capitale sociale e non anche quello dei singoli soci (articolo 2325, 1° comma). A fronte di questa disciplina, il Legislatore si è preoccupato della tutela dei creditori, prevedendo anzitutto un capitale sociale minimo nonché un rigido sistema di rendicontazione e informazione contabile periodica.

Nella s.p.a., a contrappeso del beneficio dello schermo giuridico, è inoltre prevista una organizzazione corporativa, la quale prevede la presenza di più organi distinti all’interno della società: l’assemblea, un organo di gestione ed un organo di controllo. I soci, dunque, non detengono il potere di amministrazione e controllo della società in via diretta, ma possono influenzare l’attività di impresa partecipando all’assemblea e votando la nomina degli amministratori. Questi ultimi sono soggetti distinti dai soci e sono responsabili civilmente del loro operato in tre direzioni: verso la società (artt. 2392-2393 c.c.), verso i creditori sociali (articolo 2394 c.c.) e verso i singoli soci o terzi (articolo 2395 c.c.), quando operano in violazione delle norme di legge o statutarie. Non rispondono invece per i risultati negativi di gestione quando hanno operato con la normale dirigenza propria del ruolo da essi rivestito.

Come anticipato poco sopra, un caso particolare è rappresentato dalla s.p.a. unipersonale.

Il Codice civile del 1942 negava la possibilità di fondare una società di capitali unipersonale e di concentrare, quindi, nelle mani di singolo socio l’intero pacchetto azionario. La ratio del legislatore era quella di tutelare la forma di gestione dell’impresa in forma collettiva, ma soprattutto di evitare che una singola persona fisica potesse usufruire di tutti i benefici che lo schermo societario comporta. Successivamente maturò l’idea che la responsabilità personale dell’imprenditore individuale non necessariamente coincide con una miglior tutela dei creditori e il legislatore, prendendo esempio anche da ordinamenti esteri anticipatori di questa prospettiva, nel 1993 ha previsto la possibilità di costituire una s.r.l. unipersonale. Su questa scia, il legislatore è poi nuovamente intervenuto nel 2003 prevedendo anche la possibilità di costituire s.p.a. unipersonali e allo stesso tempo rivedendo la disciplina della s.r.l. con unico socio.

Oggi, dunque, si ammette la costituzione di una società per azioni con atto unilaterale di un unico socio fondatore (articolo 2328, 1° comma), in cui, di regola, delle obbligazioni sociali risponde solo la società con il proprio patrimonio, salvo casi eccezionali.

Vista la forma societaria particolare, il Legislatore si è chiaramente preoccupato di creare delle norme a tutela dei creditori, la cui violazione comporta la decadenza dello schermo giuridico dell’autonomia patrimoniale. Relativamente alla costituzione, va detto che la limitazione di responsabilità opera solo successivamente a questa e che dunque tutti i soggetti che hanno partecipato alla creazione dell’ente societario sono obbligati in solido per i debiti sorti antecedentemente all’iscrizione della società nel registro delle imprese (articolo 2331, 2° comma). In tema di conferimenti, il socio unico è tenuto a versare integralmente il capitale sociale al momento della sottoscrizione, nonché nel caso di aumento di capitale (diversamente da quanto accade invece per la s.p.a. pluripersonale dove si richiede il 25%). Per quanto concerne poi la pubblicità dell’impresa formalmente sociale, ma sostanzialmente individuale, si richiede che negli atti e nella corrispondenza sia sempre indicato se questa ha un unico socio (articolo 2250, 4° comma).

Giungendo infine al regime di responsabilità limitata verso le obbligazioni sociali, come si è detto supra, il beneficio della limitazione della responsabilità viene meno qualora non si rispettino due requisiti di carattere oggettivo e formale:

  1. quando non sia rispettata la disciplina dell’integrale pagamento dei conferimenti;
  2. quando non si sia attuata la specifica pubblicità dettata per la s.p.a. unipersonale ex articolo 2362.

La perdita del beneficio comporta comunque che la responsabilità dell’unico azionista è sussidiaria, in quanto i creditori sociali dovranno preventivamente escutere il patrimonio sociale della s.p.a.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, come anticipato, l’assoggettabilità a fallimento dell’unico azionista non è automatica. La riforma della legge fallimentare attuata nel 2006 ha rivisto l’articolo 147, 1° comma l.f., il quale ora prevede esplicitamente i tipi societari che sono sottoposti alla sua disciplina e tra questi non figurano le società di capitali, eccezion fatta per la società in accomandita per azioni (Cfr. Cass. 12 novembre 2008, n. 27013; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2711).

Pertanto, solo l’insolvenza della società e l’inosservanza o il ritardo nel compimento degli indicati adempimenti potranno determinare l’insorgere di una responsabilità personale in capo all’unico azionista e comunque limitatamente alle obbligazioni sociali sorte nel periodo di appartenenza di tutte le azioni e per l’arco di tempo in cui i richiesti adempimenti non hanno avuto attuazione. Dunque, la distinzione patrimoniale tra società e unico socio regge anche nel caso in cui quest’ultimo violi le prescrizioni suddette e la società risulti insolvente, in quanto il venir meno del beneficio del limite alla responsabilità è un fatto del tutto eccezionale, ammesso solo in seguito alla violazione di dati oggettivi e formali previsti dal legislatore, diversamente da quanto accade invece per le società di persone. Queste ultime si distinguono per la fonte, perché la responsabilità dei soci si basa sul patto sociale. Si tratta di una responsabilità istituzionale, derivante dalla partecipazione alla società.

 

3. rapporti con la disciplina ex articolo 216 l.f.

Come già trattato nei precedenti saggi su questa rubrica, l’articolo 147 l.f. ha sempre rappresentato, anche nella sua vecchia formulazione, l’appiglio normativo per l’estensione del fallimento anche al socio occulto; prevedendo questo il fallimento in estensione dei soci occulti di società palese, infatti, ha consentito a dottrina e giurisprudenza di considerare in via analogica il reale dominus della fallita come una società palese con soci occulti.

Pur essendo l’estensione analogica rispondente a ragioni di coerenza sostanziale del diritto, sul piano pratico però le criticità sorgevano nel tentativo di esteriorizzare un rapporto, per l’appunto, occulto, che invece è palesato nel caso di società palese con soci occulti.

Il problema non è di portata indifferente, potendosi questo piegare alle intenzioni delittuose di quei soggetti che, tramite lo schermo di un prestanome, erano in grado di perseguire finalità illecite, spesso scaturenti in bancarotta fraudolenta ex articolo 216 l.f.

Se, infatti, il principio di imputazione dell’attività imprenditoriale è prevalentemente di tipo formale (la spendita del nome), è evidente che l’articolo 216 l.f. nell’affermare “È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che: [...]” pone non pochi problemi in ordine al perseguimento di quei soggetti che, pur essendo sostanzialmente imprenditori, non lo sono formalmente.

La riconduzione della responsabilità (da gestione) al rischio di impresa costituisce ancor oggi una fattispecie rispetto a cui non è stata data unanime soluzione da parte degli interpreti che spesso ricorrono a ricostruzioni forzose al fine di sanzionare il dominus occulto o di fatto.

Va premesso, come ovvio, che l’estensione fallimentare ai sensi dell’articolo 147 l.f. e i principi di imputazione della responsabilità penale seguono strade perfettamente distinte ed indipendenti, ognuna con i criteri propri. Infatti, la mancata estensione del fallimento al socio, non esclude affatto che questo possa rendersi comunque imputabile della fattispecie ex articolo 216 l.f., a maggior ragione se si considera che è ormai consolidato in Giurisprudenza l’orientamento secondo il quale anche l’extraneus, nel reato proprio dell’amministratore, se comprovato il dolo e la volontà di distrarre somme dal patrimonio sociale è passibile di imputazione. Oppure si consideri la sentenza della Cassazione penale, 29 settembre 2011, n. 44103, nella quale viene pacificamente affermato che la mancata estensione di fallimento non esclude la responsabilità del socio accomandante che abbia violato il divieto di immissione nell’attività amministrativa quale concorrente nel delitto di bancarotta fraudolenta.

Dimostrata l’indipendenza fra le rispettive discipline, questo non toglie, comunque, che un conto è attribuire a taluno la responsabilità penale per determinati fatti in virtù del ruolo da lui rivestito e al quale ex lege si riconducono determinati effetti (come il ruolo di imprenditore), un conto è dimostrare la fallibilità, ovvero la responsabilità penale, di un soggetto che non riveste quelle caratteristiche.

In questo secondo caso, i problemi attengono proprio alla dimostrazione pratica del rapporto intercorrente tra il presunto preponente e la società fallita, nonché alla creazione di criteri univoci, certi e limpidi per l’attribuzione della qualità di imprenditore.

Se, come anticipato, il criterio di attribuzione è quello formale della spendita del nome – come affermato più volte dalla stessa Giurisprudenza, consolidatosi con la cd. sentenza Caltagirone (Cass. civ., Sez. I, 26 febbraio 1990, n. 1439) – inevitabilmente più difficoltoso diviene punire quelle condotte distrattive commesse da soggetti formalmente non imprenditori.

In realtà, come accennato, l’escamotage per il perseguimento di siffatti crimini è stato individuato non tanto nella risoluzione dei criteri di attribuzione della qualità imprenditoriale, bensì nella talvolta indiscriminata estensione dell’applicabilità dell’articolo 216 l.f. anche all’extraneus.

La Giurisprudenza è oramai consolidata nel ritenere che il dolo del concorrente extraneus consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento, una distrazione del patrimonio sociale a danno dei creditori, non essendo invece richiesta la specifica conoscenza del dissesto societario che, anzi, può intervenire anche ad anni di distanza dalle condotte incriminate.

L’indagine, pertanto, dovrà vertere con particolare attenzione sulle modalità di esecuzione della condotta, se questa integri le caratteristiche di un’azione distrattiva. È necessario uno sforzo da parte degli Organi Giudicanti, i quali dovranno, caso per caso, comprendere ed identificare eventuali condotte distrattive del patrimonio sociale anche e soprattutto in relazione alle qualità rivestite dal soggetto, se questo faccia parte della compagine sociale, ovvero se sia un semplice consulente.

Si veda la sentenza della Cassazione penale sez. V, 10/12/2015, n. 8349, laddove la qualità di legale della società fallita rivestita dall’imputato diventa elemento rilevante e non trascurabile in ordine alla sussistenza in capo allo stesso di una consapevolezza e volontà distrattiva. Premesso che la Corte in quella sede aveva infine statuito per la condanna del legale, avendo asservito quest’ultimo le proprie conoscenze tecnico giuridiche con il fine di favorire le attività illecite dei due imprenditori poi falliti, sempre gli stessi Ermellini avevano evidenziato con fermezza la necessità di condurre un’indagine il più possibile approfondita al fine di evitare di identificare l’attività di un legale come illecita, per il solo fatto di fornire consigli tecnici. Centrale diviene quindi la prova della consapevolezza di fornire un contributo causale alla condotta posta in essere dagli agenti, tramite l’asservimento delle proprie conoscenze.

Pertanto, ciò che rileva non è più la qualità soggettiva del soggetto – rilevante solo nei termini di cui sopra – bensì solamente la condotta posta in essere, in questo caso la condotta distrattiva. Dimostrato il dolo e la volontarietà di distrarre some societarie, ecco che qualunque soggetto può essere ricondotto nell’alveo di applicazione della bancarotta fraudolenta, senza essere questo un imprenditore, amministratore, sindaco, direttore generale o liquidatore, ai sensi del combinato disposto degli artt. 216 l.f. e 224 l.f..