x

x

Lavoro part-time ancora statisticamente femminile non significa minor esperienza per la progressione economica orizzontale

part-time
part-time

Lavoro part-time ancora statisticamente femminile non significa minor esperienza per la progressione economica orizzontale

Con ordinanza del 12/01/24 nr. 4313 la Cassazione, sez. lavoro, ritiene una discriminazione (diretta) per i lavoratori e le lavoratrici part-time e una discriminazione (indiretta) di genere l’automatismo tra lavoro a tempo parziale e minore anzianità di servizio, ai fini del passaggio a una migliore fascia retributiva

 

Il fatto

La vicenda fattuale trae origine da una lavoratrice part-time presso l’Agenzia delle Entrate, che, nell’ambito di una selezione interna per il passaggio a una migliore fascia retributiva, si è vista il proprio punteggio proporzionalmente ridotto, in base al minor numero di ore di lavoro svolte, rispetto ai colleghi con pari anzianità, ma assunti a tempo pieno.

In particolare, si trattava di una progressione economica cd. orizzontale, ossia non concernente avanzamenti di carriera, ma basata su altri criteri di valutazione, tra cui l’anzianità di servizio.

La lavoratrice citava in giudizio l’Agenzia delle Entrate innanzi al Tribunale di Genova, sezione lavoro, che riconosceva una discriminazione per i lavoratori a tempo parziale, nonché di genere ex art. 25, comma 2, D.Lgs. 196/2006 (Codice delle pari opportunità).

La pronuncia veniva successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Genova, la cui sentenza era oggetto di ricorso da parte dell’Agenzia delle Entrate innanzi alla Suprema Corte di Cassazione. 


La discriminazione per i lavoratori part-time

La Suprema Corte con ordinanza del 12/01/24 di rigetto del ricorso ha precisato come, ai fini della valutazione dell’anzianità di servizio, non possa operarsi un automatismo tra minor numero di ore di lavoro svolte e minor esperienza acquisita dal lavoratore o dalla lavoratrice, senza incorrere nella discriminazione del lavoro part-time, disciplinato dal D.Lgs. 61/2000, attuazione della direttiva europea 97/81/CE, relativa all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE (Unione delle Confederazioni imprenditoriali dell’industria e dei datori di lavoro d’Europa), dal CEEP (Centro europeo delle imprese a partecipazione pubblica d’interesse generale) e dalla CES (Confederazione europea dei sindacati).

Una simile valutazione, infatti, deve tenere conto di ogni peculiarità del caso concreto, tra cui rientra sicuramente il numero di ore lavorative svolte, ma non solo. Il datore di lavoro, nel soppesare l’effettiva esperienza maturata dal lavoratore, non può difatti esimersi da uno scrutinio valutativo delle mansioni specifiche, nonché delle modalità di svolgimento delle stesse. In buona sostanza, non va unicamente valorizzata la quantità di lavoro svolto, ma anche la sua qualità.

Nel caso in cui, specifica la Suprema Corte, parte datoriale ritenga che l’esperienza acquisita sia perfettamente proporzionale al numero di ore lavorative svolte nel corso degli anni, l’onere della prova di ciò ricade sul datore stesso.

Ne deriva che la proporzionale riduzione del punteggio della lavoratrice, rispetto alle minori ore di lavoro svolte, in relazione ai colleghi assunti a tempo pieno, ha comportato una discriminazione della stessa, in quanto lavoratrice part-time, nell’ambito dell’accesso alla maggiorazione retributiva.

La pronuncia della Suprema Corte si pone in linea con la precedente sentenza, emessa in data 19/10/2023 dalla Corte di Giustizia Europea nella causa C-660/20, avente ad oggetto un rinvio pregiudiziale proposto dal Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro tedesca).

Nel caso di specie, la normativa tedesca prevedeva il superamento delle medesime ore di volo mensili, sia per i piloti aerei a tempo pieno, sia per quelli a tempo parziale, per poter percepire una remunerazione supplementare, in relazione alle ore di volo eccedenti la c.d. “soglia di attivazione”.

Il numero di ore che dava diritto a una remunerazione supplementare non era, quindi, ridotto in maniera proporzionale, rispetto alla durata del tempo di lavoro dei piloti a tempo parziale.

Secondo la Corte di Lussemburgo, “benché la remunerazione per ora di volo per le due categorie di piloti appaia uguale fino a dette soglie di attivazione, occorre tuttavia rilevare che le suddette soglie di attivazione identiche rappresentano, per i piloti a tempo parziale, un servizio di ore di volo più lungo che per i piloti a tempo pieno rispetto al loro tempo di lavoro totale e, pertanto, un carico maggiore rispetto ai piloti a tempo pieno. Una siffatta situazione genera quindi conseguenze sfavorevoli per i piloti a tempo parziale per quanto riguarda il rapporto tra la prestazione fornita e il suo corrispettivo”, con conseguente violazione del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, precipitato del principio generale di uguaglianza, principio fondamentale del diritto comunitario.

 

La discriminazione indiretta di genere

L’art. 25, comma 2, D.Lgs. 196/2006 (Codice delle pari opportunità) prevede che: “si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

La discriminazione cd. indiretta, dunque, prescinde dalla natura discriminatoria o illecita della disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, che la determina e si manifesta nell’ambito della realtà sociale, in una dimensione di concretezza. 

Nel caso di specie, è stato evidenziato – già dai giudici di merito – come sia un dato statistico documentato ad accertare la stragrande maggioranza di presenza femminile nell’ambito del lavoro part-time, in linea con il “notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impegno in ambito familiare e assistenziale”, nell’ambito dell’Agenzia delle Entrate.

Volendo attribuire un più ampio respiro a tale realtà statistica, è bene ricordare come, secondo uno studio del 3 marzo 2023 dell’Eurostat, nel terzo trimestre del 2022 in Europa lavorava part-time il 28% delle occupate di età compresa tra 15 e 64 anni, contro l’8% degli uomini.

Il criterio già discriminatorio nei confronti del lavoro a tempo parziale, quindi, comporta di fatto una discriminazione di genere nei confronti delle donne, sul piano della realtà sociale, ponendo le lavoratrici in una posizione di svantaggio relativamente ai colleghi uomini.

Ne deriva un’ulteriore penalizzazione indiretta delle donne, “che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”; scrive, infatti, la Suprema Corte: “svalutare il part time ai fini delle progressioni economiche orizzontali significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini con riguardo a tali miglioramenti di trattamento economico”.

Tale principio assume ancora maggiore valenza se pensiamo per quante donne il lavoro a tempo parziale non rappresenti ancora oggi una libera scelta, bensì una necessità, dettata proprio dall’incombenza del maggior carico di lavoro domestico, dell’accudimento e della crescita dei figli, che grava su di esse per ragioni di natura socio-culturale.

La speranza è, dunque, che la recente pronuncia della Suprema Corte si ponga come importante tassello nell’impervio percorso, volto a colmare il divario di genere (c.d. gender gap), con particolare riferimento alla sperequazione sociale e professionale e al divario di reddito da lavoro, tutt’ora esistente tra uomini e donne.