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Lavoro: delocalizzazione e licenziamento collettivo: scenari ancora aperti

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Lavoro: delocalizzazione e licenziamento collettivo: scenari ancora aperti

Il mercato del lavoro è sottoposto a continue evoluzioni e non manca chi ritiene che aumentare i limiti imprenditoriali nella fase dei licenziamenti collettivi, come in altri istituti, potrebbe incrementare il rischio di chiusure delle aziende sul territorio italiano. Se il rischio di delocalizzazione è una realtà già oggi tangibile, non si può dimenticare la ratio della materia dei licenziamenti collettivi, quella dell’equo bilanciamento tra interessi contrapposti, ossia la libertà di impresa e la tutela dei lavoratori.

Con “delocalizzazione” si intende la scelta dell’imprenditore di spostare altrove, in tutto in parte, la propria attività produttiva, solitamente in un Paese diverso. Si tratta di uno spostamento geografico dell’attività a prescindere da ogni variazione della struttura giuridica del soggetto imprenditore. L’ipotesi si può distinguere allora dall’esternalizzazione, che consiste nella dismissione di una fase o parte dell’attività produttiva, che era realizzata all’interno dell’impresa, seguita dall’acquisizione del prodotto semilavorato o del servizio realizzato da un terzo.

La scelta di delocalizzare ha fondamento in ragioni solitamente organizzative, ossia razionalizzare alcune funzioni nell’ambito di gruppi, o economiche — come produrre lo stesso bene a costi inferiori, risparmiando sul costo del lavoro oppure cercando maggiori vantaggi competitivi per l’azienda anche grazie a una minore regolamentazione del mercato del lavoro o regimi fiscali più favorevoli — o di natura commerciale, ossia produrre il bene dove sarà venduto, permettendo una sua più ampia diffusione.

La prima ragione, di natura organizzativa, riguarda l’attuazione di razionalizzazioni organizzative in gruppi societari multinazionali; si accentra in una società del gruppo la gestione di una serie di attività e conseguentemente la riorganizzazione potrebbe comportare una diminuzione del numero complessivo di lavoratori. In questo caso, di solito, se i lavoratori sono più di 5 si provvederà a cedere un ramo d’azienda, ma se i lavoratori sono un ingente numero si dovrà procedere con il licenziamento collettivo.

La possibilità di usare, come strumento giuslavoristico, il trasferimento d’azienda impone al datore di lavoro che occupa più di 15 dipendenti di attivare una procedura di informazione e consultazione con le controparti sindacali; questa procedura si conclude in tempi molto rapidi. Il mancato rispetto della procedura comporta l’attivazione delle tutele ex art.28 dello Statuto dei Lavoratori, ma dottrina e giurisprudenza maggioritaria ritengono che l’eventuale violazione non comporti l’inefficacia del negozio traslativo. Ex art.28 Statuto dei Lavoratori il giudice può solo ordinare a cedente e cessionario di ottemperare l’obbligo di fornire le informazioni, realizzare l’esame congiunto o al più dichiarare l’inefficacia del trasferimento d’azienda per i lavoratori coinvolti, che in questo modo rimarrebbero dipendenti dell’imprenditore cedente. La disciplina del licenziamento collettivo è, invece, più lunga e onerosa: la procedura preventiva è lunga e dettagliata, prevede criteri specifici da applicare e la sanzione è l’inefficacia del licenziamento[1].

Anche in materia di delocalizzazione emerge il ruolo fondamentale dell’informazione e consultazione delle parti sindacali; il d lgs 74/2002 — che ha dato attuazione in Italia della direttiva 94/45/CE sui Comitati Aziendali Europei — individua, tra le informazioni relative agli snodi cruciali della vita delle imprese, anche la decisione di trasferire in tutto o in parte la produzione all’estero.

Anche la contrattazione collettiva è intervenuta in materia, ma non sono molti i settori produttivi nei quali si è cercato di elaborare a livello nazionale delle precise strategie di contenimento del fenomeno.

Sensibile è stato il settore tessile e di abbigliamento. In quest’ambito il contratto collettivo nazionale di lavoro ha optato per una maggiore flessibilità per quanto riguarda l’orario lavorativo per realizzare una diminuzione dei costi e un recupero di competitività. Con il CCNL del 1983 è stata introdotta la “flessibilità ordinaria”, ossia la possibilità per l’impresa, previo accordo con le rsa, di superare la durata della settimana lavorativa fissata in 40 ore all’interno di alcuni limiti previsti, con corrispondente riduzione dell’orario in altri periodi dell’anno, mantenendo invariata la retribuzione. Nel 2000 ha previsto la possibilità dell’orario multiperiodale, una variazione tra le 32 e 48 ore settimanali, purché la media annuale su base settimanale sia di 40 ore. E’ introdotta poi la “flessibilità tempestiva”, non programmata ex ante ma le cui modalità devono essere stabilite insieme alle rsu, in caso di variazioni produttive imprevedibili e urgenti, ma con retribuzione maggiorata[2].

L’altra linea di intervento attuata dalle parti sociali è quella “difensiva”, a ridosso della decisione imprenditoriale di delocalizzare. Si cerca di almeno ridurre l’entità della delocalizzazione o dilatarne i tempi, ricorrendo al part time, prevedendo incentivi economici in caso di dimissioni volontarie, ricollocando i lavoratori in altre società del gruppo o ricorrendo alla Cigs: una serie di interventi che non incidono a monte sulla scelta imprenditoriale ma hanno la funzione di tamponarne gli effetti.

In Italia si è preferito intervenire in maniera difensiva, per ridurre le conseguenze sul piano sociale — in tal senso prima della Riforma Fornero vi erano misure di sostegno al reddito con l’indennità di mobilità e l’iscrizione nelle liste di mobilità — ma sono sempre stati pochi gli strumenti che hanno operato a monte, volti ad evitare delocalizzazioni o ad attrarre investimenti (cercando, ad esempio, di sviluppare le infrastrutture o di sostenere la ricerca)[3].

Soprattutto negli ultimi anni si sono registrati su scala nazionale diversi casi di dismissioni di siti produttivi e trasferimenti di attività. E il problema risulta ancora più evidente se si pensa che molte delle aziende in questione hanno beneficiato di contributi pubblici; ciò ha comportato che l’investimento pubblico — diretto a rafforzare la competitività economica locale e a creare occupazione — non sia utilizzato per le finalità con cui è emesso. Il legislatore ha, quindi, introdotto una serie di vincoli alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di agevolazioni pubbliche e il mancato rispetto comporta la decadenza dal beneficio e la revoca delle somme erogate.

La normativa di contrasto alle delocalizzazioni risente innanzitutto del diritto europeo. L’UE prevede che in caso di aiuti di Stato in favore di stabilimenti siti in regioni ammissibili agli aiuti regionali e ai programmi cofinanziati dai Fondi SIE (fondi strutturali e di investimento europei) sussista l’obbligo di notifica individuale alla Commissione ex ante e di controlli rigorosi circa la compatibilità dell’aiuto da parte della Commissione stessa. Il regolamento n.1060/2021 stabilisce che il contributo dei Fondi SIE non può essere destinato per operazioni di delocalizzazione.

La normativa italiana, prima del Decreto Dignità, prevedeva vincoli quinquennali, in diversi casi, per il mantenimento dell’attività produttiva agevolata, la cui violazione avrebbe portato alla revoca e restituzione del beneficio.

Il Decreto Dignità prevedeva vincoli in caso di aiuti di Stato diretti a sostenere investimenti produttivi in caso di delocalizzazione verso Stati extra-UE ed in caso di aiuti diretti a sostenere investimenti produttivi specificamente localizzati, vincoli relativi al trasferimento al di fuori del sito produttivo incentivato. Si prevedeva, inoltre, che le imprese operanti sul territorio nazionale, beneficiarie di aiuti di stato che prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale, sarebbero decadute dal beneficio a fronte di una riduzione dei livelli occupazionali[4].

Allo scopo di evitare la violazione del diritto dell’UE, l’art.5 del decreto fa salvi i vincoli derivanti dalla normativa europea in materia di aiuti di Stato e di utilizzo di fondi strutturali europei. La norma non impone alle imprese un divieto di delocalizzazione, ma prevede l’onere di mantenere la produzione all’interno del territorio italiano; tuttavia, estendere i vincoli anche gli Stati dell’UE avrebbe contrastato sia con la disciplina interna sia con la libertà sancita dall’art.49 TFUE.

La definizione di “delocalizzazione” nel decreto comprende lo spostamento geografico dell’attività produttiva oltre i confini nazionali ed europei. Si trascura che la delocalizzazione produttiva può avvenire in modi diversi: con l’importazione di prodotti finiti realizzati all’estero sulla base di un’apposita licenza o con l’outsourcing con il ricorso a subfornitori stranieri. In questi casi l’attività economica rimane nei confini nazionali e si dubita dell’applicazione della normativa a queste situazioni[5].

Il Decreto Dignità ha comunque lasciato irrisolte innumerevoli questioni in materia, si è cercato così di intervenire nuovamente. La legge di bilancio 2022, l.n.234/2021, ha tentato di scoraggiare le delocalizzazioni e/o cessazioni di attività se non giustificate da stato di crisi o dissesto dell’impresa. La legge pone l’accento sulla “responsabilità sociale dell’impresa”.

Essa prevede una serie di comunicazioni da effettuare e la previsione di un Piano Aziendale in cui sono indicate le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali, le prospettive di cessione di azienda o ramo d’azienda e gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo anche per finalità socio-culturali nel territorio interessato. Il suddetto piano deve, poi, essere discusso con le rappresentanze sindacali.

In caso di licenziamenti effettuati senza presentazione del piano, il datore è tenuto a versare all’INPS il contributo di licenziamento con una maggiorazione del 600 per cento e in caso di mancata sottoscrizione del piano deve versare il contributo per le cessazioni del rapporto di lavoro con una maggiorazione del 450 per cento.

Mentre il Decreto Dignità si limitava a prevedere modalità di recupero delle somme erogate nel caso in cui la cessazione dell’attività di impresa fosse avvenuta prima dei 5 anni dall’incentivo, la Legge di Bilancio del 2022 incide sulle procedure e gli oneri a carico dell’impresa per la chiusura di siti produttivi.

L’ambito di applicazione della legge si riferisce a quelle aziende che occupano più di 250 dipendenti.

La Legge di Bilancio 2022 non ha mancato di sollevare perplessità. In primo luogo, perché la procedura di cui si occupa va a rispecchiare quella di licenziamenti collettivi e l’interrogativo, non risolto, riguarda la possibilità che siano attuate entrambe le procedure contestualmente.

Se da un lato c’è chi ritiene troppo oneroso prevedere a carico del datore di lavoro un’ulteriore procedura accanto a quella relativa ai licenziamenti collettivi[6], dall’altro la legge, incidendo soltanto su aspetti di tipo procedurali, potrebbe finire per non essere un effettivo disincentivo alla delocalizzazione.

Le imprese, infatti, rispettati gli oneri procedurali e, in caso di violazione, pagando un contributo, potrebbero ugualmente chiudere il sito produttivo e licenziare i dipendenti.

Il legislatore rimane inerte dal lato attivo non prevedendo misure che permetterebbero di creare posti di lavoro sul territorio nazionale e di evitare la chiusura dei siti produttivi.

Infatti, il cambiamento del sistema delle relazioni industriali, indotto dal processo di globalizzazione economica, comporta la necessità di giungere a nuovi equilibri.

Per le imprese geograficamente mobili, gli Stati sono solo centri di profitto e unità di organizzazione, di lavoro e di produzione, ossia di costo; scegliendo lo Stato, infatti, le imprese scelgono la legge applicabile[7]. Ciò sancisce che la regolazione dei fenomeni sociali avverrà sui livelli più bassi, spingendo le imprese a scegliere lo Stato in cui il costo del lavoro è minore[8].

Essendo un fenomeno globale, si è cercato di affrontare la tematica anche in Stati dell’Unione Europea diversi dall’Italia, come la Francia. La disciplina individuata dalla Loi Florange prevede, a carico del datore di lavoro, l’obbligo di condividere con il Comitato sociale ed economico e l’autorità amministrativa il progetto di chiusura dell’azienda, comprensivo delle azioni volte all’individuazione di un acquirente. Prevede la possibilità per i dipendenti dell’azienda di presentare un’offerta di acquisto. Se il datore non ottempera l’obbligo di individuare un nuovo acquirente, l’amministrazione non convaliderà il programma e l’azienda non potrà proseguire con i licenziamenti. Successivamente anche la Loi Hamon e Macron hanno individuato misure per facilitare l’acquisto dell’azienda da parte dei dipendenti, prevedendo l’obbligo di informare i lavoratori della loro possibilità di rilevare l’azienda ed informandoli ogni volta in cui è pianificata la vendita totale o di una quota di maggioranza.

Disciplinare il fenomeno delle delocalizzazioni non significa volere conseguenze negative sulla produttività o sulla competitività dell’economia, ma che gli accordi di gestione delle crisi aziendali e licenziamenti non siano affidati solo alla disponibilità dell’azienda di negoziare o all’esercizio di poteri di forza tra le parti.

Ma non solo. Contrastare le delocalizzazioni potrebbe significare anche la previsione di piani di sopravvivenza del sito in dismissione da parte dell’impresa. Contestualmente si dovrebbero implementare le misure dirette a garantire la continuità sulla reindustrializzazione[9].

Di recente, si sono susseguite una serie di iniziative a livello governativo volte a disciplinare in maniera più compiuta il fenomeno delle delocalizzazioni; a partire dalla Legge di Bilancio 2022, è stata manifestata la volontà, inizialmente con gli emendamenti n.77.0.2000[10] e n.85.0.11, di controllare in modo più stringente la scelta delle grandi imprese di spostare l’attività produttiva all’estero.

Da ultimo, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri, il Decreto aiuti- ter (dl n.144/2022) – convertito in legge il 16 novembre 2022 - che, con il fine di prestare aiuto a famiglie e imprese e contrastare l’aumento dei costi energetici, prevede lo stanziamento di 14 miliardi di euro. Esso si occupa anche delle delocalizzazioni, prevedendo la revoca per le aziende di ogni beneficio statale ricevuto nel caso in cui venga licenziato il 40% dei dipendenti. Il decreto riprende la Legge di bilancio del 2022 aumentando da 90 a 180 il termine previsto per la conclusione del piano e la sua eventuale sottoscrizione. Decorso il termine di 180 giorni, il datore deve attenersi all’ordinaria procedura di licenziamento collettivo. Dal punto di vista sanzionatorio, in caso di mancata sottoscrizione del piano da parte delle organizzazioni sindacali, il datore dovrà pagare il contributo per il finanziamento della NaSpI, innalzato della misura del 500% rispetto al 50% previsto in precedenza e, nel caso di cessazione definitiva dell’attività produttiva o di una parte di essa, con conseguente riduzione del personale nella misura superiore al 40%, il datore dovrà restituire, in maniera proporzionale alla percentuale di riduzione del personale, i sussidi pubblici percepiti nei dieci anni precedenti la cessazione di attività (art.37). Le misure previste sono parte di un disegno, rivolto alle grandi imprese, per contrastare il fenomeno delle delocalizzazioni[11].

Se guardiamo alle vicende che hanno riguardato lo spostamento delle attività produttive all’estero (GKN, Gianetti Ruote e non solo), ci rendiamo conto che la dismissione delle attività produttive è all’ordine del giorno e che un intervento deciso è sempre più necessario.

L’intervento — nel rispetto dell’art.41 della Costituzione che garantisce la libera iniziativa e che quindi non ci consente di sindacare le scelte imprenditoriali — deve tener conto del limite previsto dallo stesso articolo, il riferimento all’utilità sociale.

Non devono mancare soluzioni anche innovative nel nostro sistema giuridico ed economico, che potrebbero portare alla gestione dei siti dismessi da parte delle cooperative operaie, a cui dare l’opportunità di acquisire l’azienda per evitare che lo spostamento di quest’ultima vada non solo a disgregare il tessuto sociale, ma vada anche a incidere sull’occupazione e sulle competenze di quei lavoratori occupati nell’azienda.

L’art. 43 della Costituzione, d’altronde, consente il trasferimento di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia - per fini di utilità generale e sotto riserva di legge- a comunità di lavoratori o allo Stato.

L’art.46 della Costituzione riconosce il diritto dei lavoratori, nei modi e limiti stabiliti da legge, alla gestione delle imprese.

La nostra Costituzione, quindi, consente già in determinati settori e in determinate situazioni ai lavoratori di gestire le aziende; in aggiunta ad un’interpretazione dell’art.41 che sottolinea la tutela dell’utilità sociale, si potrebbe ritenere che non è distante dai principi costituzionali la possibilità, per fronteggiare il vuoto lasciato dallo spostamento di un’attività produttiva all’estero, che il sito produttivo venga mantenuto in azione grazie alla gestione delle stesse cooperative di lavoratori, fermo restando la libertà delle aziende di stabilirsi in altro Stato, nel rispetto del principio di libera concorrenza previsto dall’UE.

La Costituzione, inoltre, consentirebbe anche allo Stato di gestire le aziende in casi eccezionali.

Il nostro sistema economico, incentrandosi sulla produzione e sul consumo, ha avuto conseguenze sull’assetto politico e sociale di ogni Stato. La tendenza a realizzare la massimizzazione dei profitti ha potuto comportare conseguenze sulle tutele dei lavoratori. La libertà di stabilimento e di movimento dei capitali, se sicuramente comporta benefici su diversi fronti, ha comportato la possibilità di spostare le attività produttive dove il costo del lavoro è minore; questo da un lato comporta la perdita di vari posti di lavoro – con conseguente disoccupazione e necessità di assistenza – e dall’altro conseguenze negative anche nello Stato in cui l’impresa si va ad insediare. Gli istituti di diritto di lavoro e la tutela dei lavoratori non possono essere regolamentati in ciascuno Stato singolarmente, ma si dovrebbe avere una visione internazionalistica, in cui le regole siano simili non solo per evitare lo sfruttamento di qualsiasi lavoratore, ma anche per garantire una giusta concorrenza tra le imprese.

Se volgiamo lo sguardo agli Stati in cui molte volte le imprese delocalizzano, o in generale alle condizioni dei lavoratori negli Stati in cui, ad esempio, la maggior parte delle multinazionali del tessile sono situate o si sono spostate, ci rendiamo conto che molte volte non esistono tutele né condizioni di lavoro adeguate. Allora da un lato, la disciplina nazionale deve consentire l’attrazione di investimenti esteri ed evitare le delocalizzazioni, senza partecipare al gioco al ribasso delle tutele dei lavoratori, ma dall’altro dovrebbero essere previste delle condizioni minime di tutela da applicare in tutti gli Stati, non solo dell’Unione Europea.

Con la dismissione di siti produttivi, inoltre, lo stesso Stato subisce conseguenze negative per l’economia nazionale, in particolar modo se concede incentivi fiscali alle aziende che poi delocalizzano, ma anche per la successiva assistenza che deve essere data a chi perde il posto di lavoro. Se gli imprenditori hanno diritto di chiudere il sito e di spostarsi, si devono trovare soluzioni che possano evitare la disgregazione del tessuto sociale. La consultazione con i rappresentanti sindacali è sicuramente un passo fondamentale, perché è una prima fase volta ad evitare l’avvio della procedura di licenziamento collettivo e volta ad individuare le misure alternative ad esso, ma nel caso di cessazione dell’attività di impresa potrebbe non essere sufficiente.

Si potrebbe, allora, operare su più fronti: innanzitutto, mantenendo intatto il rigoroso controllo sindacale ex ante e chiedendo, in sede di esame congiunto, la realizzazione di un piano finalizzato a consentire la prosecuzione dell’attività nel sito produttivo. Si potrebbe altresì  rafforzare il controllo dell’autorità pubblica nel valutare la correttezza delle scelte e l’effettiva difficoltà di mantenere il sito attivo, ma prevedere altresì la possibilità, per salvare l’attività, di acquisto delle quote della società, magari dietro aiuti statali di natura fiscale e contributiva, da parte delle cooperative dei lavoratori che intendono mantenere vivo il sito, lasciando fermi i mezzi di produzione che la società che intende delocalizzare dovrebbe lasciare nel territorio. Prevedere, in alternativa e in mancanza di acquirenti, l’acquisto di quote anche da parte dello Stato, dato che subisce perdite rilevanti.

Le tematiche affrontate sono ora oggetto di grande attenzione giuridica e politica. Trattandosi di normative emanate di recente, non ci si può già pronunciare sugli effetti che produrranno, anche se risulta a mio avviso necessario che questi interventi si collochino in un disegno complessivo che non si limiti a conseguenze sanzionatorie per le imprese, ma che individui anche soluzioni concrete, che effettivamente permettano di mantenere intatti i livelli occupazionali nel nostro territorio.

 

Note

 

[1] Carinci, Le delocalizzazioni produttive in Italia: problemi di diritto del lavoro, in CSDLE Massimo D’Antona, n.44/2006

[2] Ibidem.

[3].Ibidem.

[4] Tonelli, Delocalizzazione di imprese beneficiarie di aiuti di Stato: problemi e prospettive evolutive di una disciplina efficace, in LavoroDirittiEuropa, n.4/2021.

[5] Garofalo, La salvaguardia dei livelli occupazionali nel “Decreto Dignità”, in LG, 2018, 12, 1085.

[6] Failla, Divieto di delocalizzazioni: una procedura complessa. Con tanti rischi per le imprese, in Ipsoa, Wolters Kluwer, 5 febbraio 2022.

[7] Il diritto internazionale del lavoro prevede chela legge applicabile è quella del luogo dove è eseguito il contratto.

[8] Perulli, Delocalizzazione produttiva e relazioni industriali nella globalizzazione. Note a margine del Caso Fiat, in LD,2, 2011,343.

[9] Tonelli, Delocalizzazione di imprese beneficiarie di aiuti di Stato: problemi e prospettive evolutive di una disciplina efficace, in LavoroDirittiEuropa, n.4/2021.

 

[10] Pagamici, Delocalizzazione delle aziende, cosa prevede la legge di bilancio 2022, in IPSOA, Walter Kluwer, 20 dicembre 2021.

[11] Pagamici, Decreto Aiuti ter: la guida per le imprese e per i professionisti, in IPSOA Wolter Kluwer, 17 novembre 2022.