Abuso del processo e valutazione dell’onere delle spese processuali

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Prima Civile, Sentenza 12 maggio 2011, n.10488

1. La sentenza delle Sezioni Unite, 15 novembre 2007, n. 23726: un revirement propiziato dalla Legge Costituzionale, 23 novembre 1999, n. 2.

La pronuncia all’esame si presenta di particolare interesse. Con essa, la Suprema Corte ha inteso ribadire una linea di rigore rispetto agli abusi dello strumento processuale, in un’ottica di ideale continuità con la sentenza delle Sezioni Unite, 15 novembre 2007, n. 23726, con la quale si era inaugurato un nuovo corso nella giurisprudenza di legittimità. Non ci si sottrarrà dal rimarcare, tuttavia, importanti profili di discontinuità. L’occasione è utile per richiamare alla memoria, seppure sinteticamente, l’iter seguito dall’evoluzione giurisprudenziale, anche a seguito del mutato quadro normativo.

Con la sent., 10 aprile 2000, n. 108 – resa a Sezioni Unite – la Suprema Corte, chiamata a dirimere un contrasto giurisprudenziale emerso in seno alle sezioni semplici, si pronunziava nel senso che, <<in mancanza di espresse disposizioni o di principi generali desumibili da una interpretazione sistematica, non è consentito all’interprete affermare l’inammissibilità di una domanda giudiziale per il fatto che la stessa riguarda solo una parte dell’unico credito vantato>>.

Il giudice di legittimità riteneva, perciò, ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, avesse chiesto un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, atteso che una siffatta domanda veniva reputata espressione di <<un potere non negato dall’ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni>>.

Tornate a pronunciarsi a distanza di poco più di un lustro sulla medesima questione giuridica, nel 2007, le Sezioni Unite segnavano un mutamento di rotta, attesa l’opportunità di <<rimeditare>> (tali le parole dello stesso estensore) la soluzione più sopra esposta. Il mutato orientamento veniva giustificato adducendo la sempre maggiore pervasività della regola di correttezza e buona fede oggettiva, da ritenersi operante anche nella fase giudiziale, in quanto specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà risultanti dall’art. 2 Cost., nonché facendo richiamo al novellato art. 111 Cost., sul cui articolato – mediante la Legge Cost., 23 novembre 1999, n. 2 – il legislatore costituzionale aveva provveduto all’innesto di ben cinque nuovi commi, i cui primi due aventi diretta rilevanza sul processo civile.

Si proponeva, perciò, una lettura adeguatrice dell’art. 88 c.p.c., onde allinearlo all’obiettivo duplice di assicurare una ragionevole durata al processo, nonché di far sì che esso fosse giusto, connotato del processo – quest’ultimo – che sarebbe venuto meno, a giudizio della Corte, nell’ipotesi in cui il processo fosse stato frutto di abuso della potestas agendi, allorché l’esercizio dell’azione fosse avvenuto <<in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale>>.

La parcellizzazione della pretesa creditoria, in quanto produttiva di un prolungamento del vincolo coattivo per il debitore, oltre che di un aggravio di spese, con il correlativo onere di plurime opposizioni per il debitore - all’esito del percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite - veniva ritenuta automaticamente risolventesi in una violazione del generale dovere di correttezza e buona fede, nonché in un abuso dello strumento processuale, in quanto attuata nel processo e per il tramite del processo.

La disarticolazione della sostanziale unità del rapporto creditorio, ancorché posta in essere nel momento patologico dell’inadempimento, era ritenuta una violazione del giusto processo - nozione di cui veniva a chiare lettere affermata la natura di criterio ermeneutico alla cui luce procedere nella rilettura delle norme processuali – ed una violazione del principio di ragionevole durata, rilevata l’incompatibilità esistente tra la moltiplicazione dei processi e l’obiettivo enunciato dalla norma costituzionale.

Ad un così articolato ordine di ragioni, la Suprema Corte aggiungeva l’esigenza di scongiurare il formarsi di giudicati contrastanti che – a giudizio della stessa – sarebbe stato agevolato dalla polverizzazione della pretesa creditoria unitaria in una pluralità di iniziative giudiziarie.

La Corte perveniva, così, all’enunciazione di un principio sibillino, per il quale il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario, integrando una condotta <<contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.>>, si sarebbe dovuto ritenere risolto <<in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda)>> (lo stesso collegio a faceva impiego dell’espressione riportata, collocandola in parentesi).

Indubitabile, ancorché oggetto di inevitabili perplessità sia in dottrina sia nella stessa giurisprudenza successiva (si veda Bruno Montanari, Note minime sull’abuso nel processo civile, sul Corriere Giuridico n. 4/2011, pp. 556 e ss.), che con una simile pronuncia la Corte intendesse collocare la sanzione dell’abuso sul piano dell’inammissibilità - improcedibilità della domanda.

2. Il diritto positivo e le norme dirette a reprimere gli abusi.

Il pregio della pronuncia delle Sezioni Unite del 2009 è stato quello di aver individuato un preciso radicamento costituzionale delle disarticolate norme presenti all’interno del codice di rito e dirette a reprimere tutta una serie di condotte in senso lato qualificabili quali abusive (per una ricostruzione della nozione di abuso si veda Domenico Borghesi, L’abuso del processo, in http://www.associazionecivilisti.it).

Di tali norme, senza alcuna pretesa di esaustività, ci si limiterà ad un rapido richiamo.

La fondamentale norma di principio è costituita dall’art. 88 c.p.c., nonché dal suo ideale pendant costituito dall’art. 6 del codice deontologico forense, da cui risulta il dovere delle parti di comportarsi secondo lealtà e probità.

L’art. 175 c.p.c. prevede che il giudice istruttore debba vigilare a che sia assicurato un procedimento celere, oltre che connotato da lealtà.

L’art. 88 c.p.c., al co.2, prevede un preciso obbligo di attivazione da parte del giudice, il quale - una volta riscontrato un comportamento scorretto dei difensori - sarà tenuto a riferirne al Consiglio dell’Ordine affinché eserciti le proprie prerogative in materia disciplinare.

Sono numerose, inoltre, le norme che conferiscono al giudice il potere di irrogare, con proprio provvedimento, sanzioni pecuniarie alle parti in specifiche ipotesi.

A ciò si aggiunga che dal comportamento processuale della parti il giudice può dedurre argomenti di prova (art. 116, co. 2, c.p.c.) e che vi è un esteso articolato normativo, in apposito capo del codice di rito, diretto a disciplinare la responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali (artt. 90 e ss. c.p.c.), peraltro parzialmente oggetto di riforma per opera della Legge 18 giugno 2009, n. 69.

3. La sentenza 12 maggio 2011, n.10488.

Nel caso scrutinato dalla Cassazione, con la sentenza in commento, veniva impugnato un decreto della Corte d’Appello capitolina, reso in materia di equa riparazione ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 89/2001 (la così detta "Legge Pinto"). Nella specie, unico era il giudizio, svoltosi dinanzi al giudice amministrativo, di cui si lamentava la durata irragionevole. Esso aveva riguardato il riconoscimento dell’indennità non pensionabile prevista L. n. 121 del 1981, ex art. 43, per il personale della Polizia di Stato ed era stato intrapreso da più ricorrenti, patrocinati dal medesimo difensore, lo stesso che poi agiva per la riparazione.

La Corte d’Appello di Roma, accolte le doglianze degli istanti e valutato come eccedente la durata ragionevole il processo svoltosi dinanzi agli organi della giustizia amministrativa, liquidava, aderendo ai parametri fissati per casi simili dalla Corte di Strasburgo, un importo di Euro 1.000,00 per anno a titolo di riparazione del pregiudizio non patrimoniale sofferto dai ricorrenti.

Con ricorso per cassazione venivano dedotti due motivi: 1) violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 1173 c.c., per avere attribuito la corte territoriale ai ricorrenti gli interessi legali (sulle somme liquidate giusta i criteri di cui sopra) dalla data del decreto anzichè da quella del deposito della domanda dinanzi alla Corte d’appello; 2) il secondo motivo concerneva, invece, le spese del giudizio e veniva dalla Corte ritenuto assorbito, attesa l’esigenza di procedere ad una nuova pronuncia sul punto.

La Corte, riconosciuto il carattere indennitario dell’obbligazione nascente dall’accoglimento della domanda di danni da irragionevole durata del processo, nel ribadire un orientamento già espresso nella sent. n. 14072/2009, afferma che la decorrenza degli interessi legali sulla somma liquidata va fatta retroagire al momento della domanda, benché prima della pronuncia giudiziale il credito vantato dal ricorrente sia connotato da incertezza e illiquidità. In parte qua ritiene, perciò, fondato il ricorso.

La Corte, per quanto poi concerne la liquidazione delle spese del giudizio di merito, afferma che <<non può essere seguito il criterio fatto valere dalla difesa dei ricorrenti secondo il quale, essendo stati proposti distinti ricorsi ex L. n. 89 del 2001, riuniti dalla Corte d’appello solo in esito alla discussione in camera di consiglio, spetterebbero gli onorari ed i diritti distintamente per ogni procedimento sino al momento della riunione>>.

La Suprema Corte, infatti, riscontrato in atti che i ricorrenti erano stati parti di uno stesso procedimento avanti al Giudice amministrativo e che, pur essendo la domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata di tale procedimento basata sullo stesso presupposto giuridico di fatto, avevano depositato nello stesso giorno distinti ricorsi alla Corte d’appello, con il patrocinio del medesimo difensore, ritiene una tale condotta qualificabile quale abuso del processo.

Tuttavia, ritenuto che nel caso esaminato non si possa qualificare illegittimo l’accesso in sé allo strumento di tutela, bensì le sue modalità di esercizio, la prima Sezione ne ricava che non può dedursi l’inammissibilità delle domande proposte, bensì occorre procedere alla mera rimozione degli effetti dell’abuso, operando sul solo riparto delle spese.

I giudici di legittimità ritengono doveroso, perciò, così sentenziare: onorari e diritti, lungi dal dover essere proporzionati al numero dei procedimenti intrapresi, devono corrispondersi <<come se>> i più ricorsi instaurati e successivamente riuniti fossero stati un unico procedimento sin dall’origine. A giustificazione di ciò viene addotta l’identità dell’evento causativo del danno nei vari ricorsi proposti, nonché l’unicità del soggetto chiamato a risponderne (cfr. art. 3, co. 3, L. n. 89/2001), a nulla rilevando che plurimi fossero i danneggiati, i quali – avendo nella specie agito unitariamente nel processo presupposto - a giudizio della Corte, avevano già dimostrato una carenza di interesse alla diversificazione delle posizioni, carenza ulteriormente comprovata dal fatto che gli stessi istanti avessero successivamente agito per i danni tenendo una medesima linea di condotta e giovandosi del patrocinio di un identico difensore.

Si tratta di una conclusione giuridica conforme a quella cui era pervenuta, sempre la prima Sezione, con ordinanza del 3 maggio 2010, la n. 10634, in relazione ad una questione giuridica del tutto analoga.

La decisione in commento, dietro l’apparente conformità alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2009, alle cui affermazioni di principio pure ampiamente attinge, in realtà si connota per il deciso spostamento della sanzione dell’abuso dal solco dell’inammissibilità-improcedibilità, risolutamente esclusa, per collocarla sul terreno, all’evidenza ben più mite quanto a conseguenze, del regime delle spese processuali, proprio argomentando dalla considerazione che in casi consimili non è ravvisabile l’illegittimità dell’invocato strumento di tutela in sé, bensi un’illegittimità riferibile alle sole modalità di esercizio del diritto di azione.

Importante, quindi, il principio enunciato e conforme agli auspici espressi da autorevole dottrina dopo la pronuncia del 2009 (v. sempre Montanari, art. cit.), per il quale, al cospetto di un abuso del diritto di azione, il giudice non deve pronunciare sentenza declinatoria di rito, giacchè gli effetti dell’abuso sono ritenuti collocabili sul solo piano della valutazione delle spese e deve escludersi che l’abuso possa ritenersi elemento ostativo ad un esame nel merito.



 

1. La sentenza delle Sezioni Unite, 15 novembre 2007, n. 23726: un revirement propiziato dalla Legge Costituzionale, 23 novembre 1999, n. 2.

La pronuncia all’esame si presenta di particolare interesse. Con essa, la Suprema Corte ha inteso ribadire una linea di rigore rispetto agli abusi dello strumento processuale, in un’ottica di ideale continuità con la sentenza delle Sezioni Unite, 15 novembre 2007, n. 23726, con la quale si era inaugurato un nuovo corso nella giurisprudenza di legittimità. Non ci si sottrarrà dal rimarcare, tuttavia, importanti profili di discontinuità. L’occasione è utile per richiamare alla memoria, seppure sinteticamente, l’iter seguito dall’evoluzione giurisprudenziale, anche a seguito del mutato quadro normativo.

Con la sent., 10 aprile 2000, n. 108 – resa a Sezioni Unite – la Suprema Corte, chiamata a dirimere un contrasto giurisprudenziale emerso in seno alle sezioni semplici, si pronunziava nel senso che, <<in mancanza di espresse disposizioni o di principi generali desumibili da una interpretazione sistematica, non è consentito all’interprete affermare l’inammissibilità di una domanda giudiziale per il fatto che la stessa riguarda solo una parte dell’unico credito vantato>>.

Il giudice di legittimità riteneva, perciò, ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, avesse chiesto un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, atteso che una siffatta domanda veniva reputata espressione di <<un potere non negato dall’ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni>>.

Tornate a pronunciarsi a distanza di poco più di un lustro sulla medesima questione giuridica, nel 2007, le Sezioni Unite segnavano un mutamento di rotta, attesa l’opportunità di <<rimeditare>> (tali le parole dello stesso estensore) la soluzione più sopra esposta. Il mutato orientamento veniva giustificato adducendo la sempre maggiore pervasività della regola di correttezza e buona fede oggettiva, da ritenersi operante anche nella fase giudiziale, in quanto specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà risultanti dall’art. 2 Cost., nonché facendo richiamo al novellato art. 111 Cost., sul cui articolato – mediante la Legge Cost., 23 novembre 1999, n. 2 – il legislatore costituzionale aveva provveduto all’innesto di ben cinque nuovi commi, i cui primi due aventi diretta rilevanza sul processo civile.

Si proponeva, perciò, una lettura adeguatrice dell’art. 88 c.p.c., onde allinearlo all’obiettivo duplice di assicurare una ragionevole durata al processo, nonché di far sì che esso fosse giusto, connotato del processo – quest’ultimo – che sarebbe venuto meno, a giudizio della Corte, nell’ipotesi in cui il processo fosse stato frutto di abuso della potestas agendi, allorché l’esercizio dell’azione fosse avvenuto <<in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale>>.

La parcellizzazione della pretesa creditoria, in quanto produttiva di un prolungamento del vincolo coattivo per il debitore, oltre che di un aggravio di spese, con il correlativo onere di plurime opposizioni per il debitore - all’esito del percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite - veniva ritenuta automaticamente risolventesi in una violazione del generale dovere di correttezza e buona fede, nonché in un abuso dello strumento processuale, in quanto attuata nel processo e per il tramite del processo.

La disarticolazione della sostanziale unità del rapporto creditorio, ancorché posta in essere nel momento patologico dell’inadempimento, era ritenuta una violazione del giusto processo - nozione di cui veniva a chiare lettere affermata la natura di criterio ermeneutico alla cui luce procedere nella rilettura delle norme processuali – ed una violazione del principio di ragionevole durata, rilevata l’incompatibilità esistente tra la moltiplicazione dei processi e l’obiettivo enunciato dalla norma costituzionale.

Ad un così articolato ordine di ragioni, la Suprema Corte aggiungeva l’esigenza di scongiurare il formarsi di giudicati contrastanti che – a giudizio della stessa – sarebbe stato agevolato dalla polverizzazione della pretesa creditoria unitaria in una pluralità di iniziative giudiziarie.

La Corte perveniva, così, all’enunciazione di un principio sibillino, per il quale il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario, integrando una condotta <<contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.>>, si sarebbe dovuto ritenere risolto <<in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda)>> (lo stesso collegio a faceva impiego dell’espressione riportata, collocandola in parentesi).

Indubitabile, ancorché oggetto di inevitabili perplessità sia in dottrina sia nella stessa giurisprudenza successiva (si veda Bruno Montanari, Note minime sull’abuso nel processo civile, sul Corriere Giuridico n. 4/2011, pp. 556 e ss.), che con una simile pronuncia la Corte intendesse collocare la sanzione dell’abuso sul piano dell’inammissibilità - improcedibilità della domanda.

2. Il diritto positivo e le norme dirette a reprimere gli abusi.

Il pregio della pronuncia delle Sezioni Unite del 2009 è stato quello di aver individuato un preciso radicamento costituzionale delle disarticolate norme presenti all’interno del codice di rito e dirette a reprimere tutta una serie di condotte in senso lato qualificabili quali abusive (per una ricostruzione della nozione di abuso si veda Domenico Borghesi, L’abuso del processo, in http://www.associazionecivilisti.it).

Di tali norme, senza alcuna pretesa di esaustività, ci si limiterà ad un rapido richiamo.

La fondamentale norma di principio è costituita dall’art. 88 c.p.c., nonché dal suo ideale pendant costituito dall’art. 6 del codice deontologico forense, da cui risulta il dovere delle parti di comportarsi secondo lealtà e probità.

L’art. 175 c.p.c. prevede che il giudice istruttore debba vigilare a che sia assicurato un procedimento celere, oltre che connotato da lealtà.

L’art. 88 c.p.c., al co.2, prevede un preciso obbligo di attivazione da parte del giudice, il quale - una volta riscontrato un comportamento scorretto dei difensori - sarà tenuto a riferirne al Consiglio dell’Ordine affinché eserciti le proprie prerogative in materia disciplinare.

Sono numerose, inoltre, le norme che conferiscono al giudice il potere di irrogare, con proprio provvedimento, sanzioni pecuniarie alle parti in specifiche ipotesi.

A ciò si aggiunga che dal comportamento processuale della parti il giudice può dedurre argomenti di prova (art. 116, co. 2, c.p.c.) e che vi è un esteso articolato normativo, in apposito capo del codice di rito, diretto a disciplinare la responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali (artt. 90 e ss. c.p.c.), peraltro parzialmente oggetto di riforma per opera della Legge 18 giugno 2009, n. 69.

3. La sentenza 12 maggio 2011, n.10488.

Nel caso scrutinato dalla Cassazione, con la sentenza in commento, veniva impugnato un decreto della Corte d’Appello capitolina, reso in materia di equa riparazione ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 89/2001 (la così detta "Legge Pinto"). Nella specie, unico era il giudizio, svoltosi dinanzi al giudice amministrativo, di cui si lamentava la durata irragionevole. Esso aveva riguardato il riconoscimento dell’indennità non pensionabile prevista L. n. 121 del 1981, ex art. 43, per il personale della Polizia di Stato ed era stato intrapreso da più ricorrenti, patrocinati dal medesimo difensore, lo stesso che poi agiva per la riparazione.

La Corte d’Appello di Roma, accolte le doglianze degli istanti e valutato come eccedente la durata ragionevole il processo svoltosi dinanzi agli organi della giustizia amministrativa, liquidava, aderendo ai parametri fissati per casi simili dalla Corte di Strasburgo, un importo di Euro 1.000,00 per anno a titolo di riparazione del pregiudizio non patrimoniale sofferto dai ricorrenti.

Con ricorso per cassazione venivano dedotti due motivi: 1) violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 1173 c.c., per avere attribuito la corte territoriale ai ricorrenti gli interessi legali (sulle somme liquidate giusta i criteri di cui sopra) dalla data del decreto anzichè da quella del deposito della domanda dinanzi alla Corte d’appello; 2) il secondo motivo concerneva, invece, le spese del giudizio e veniva dalla Corte ritenuto assorbito, attesa l’esigenza di procedere ad una nuova pronuncia sul punto.

La Corte, riconosciuto il carattere indennitario dell’obbligazione nascente dall’accoglimento della domanda di danni da irragionevole durata del processo, nel ribadire un orientamento già espresso nella sent. n. 14072/2009, afferma che la decorrenza degli interessi legali sulla somma liquidata va fatta retroagire al momento della domanda, benché prima della pronuncia giudiziale il credito vantato dal ricorrente sia connotato da incertezza e illiquidità. In parte qua ritiene, perciò, fondato il ricorso.

La Corte, per quanto poi concerne la liquidazione delle spese del giudizio di merito, afferma che <<non può essere seguito il criterio fatto valere dalla difesa dei ricorrenti secondo il quale, essendo stati proposti distinti ricorsi ex L. n. 89 del 2001, riuniti dalla Corte d’appello solo in esito alla discussione in camera di consiglio, spetterebbero gli onorari ed i diritti distintamente per ogni procedimento sino al momento della riunione>>.

La Suprema Corte, infatti, riscontrato in atti che i ricorrenti erano stati parti di uno stesso procedimento avanti al Giudice amministrativo e che, pur essendo la domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata di tale procedimento basata sullo stesso presupposto giuridico di fatto, avevano depositato nello stesso giorno distinti ricorsi alla Corte d’appello, con il patrocinio del medesimo difensore, ritiene una tale condotta qualificabile quale abuso del processo.

Tuttavia, ritenuto che nel caso esaminato non si possa qualificare illegittimo l’accesso in sé allo strumento di tutela, bensì le sue modalità di esercizio, la prima Sezione ne ricava che non può dedursi l’inammissibilità delle domande proposte, bensì occorre procedere alla mera rimozione degli effetti dell’abuso, operando sul solo riparto delle spese.

I giudici di legittimità ritengono doveroso, perciò, così sentenziare: onorari e diritti, lungi dal dover essere proporzionati al numero dei procedimenti intrapresi, devono corrispondersi <<come se>> i più ricorsi instaurati e successivamente riuniti fossero stati un unico procedimento sin dall’origine. A giustificazione di ciò viene addotta l’identità dell’evento causativo del danno nei vari ricorsi proposti, nonché l’unicità del soggetto chiamato a risponderne (cfr. art. 3, co. 3, L. n. 89/2001), a nulla rilevando che plurimi fossero i danneggiati, i quali – avendo nella specie agito unitariamente nel processo presupposto - a giudizio della Corte, avevano già dimostrato una carenza di interesse alla diversificazione delle posizioni, carenza ulteriormente comprovata dal fatto che gli stessi istanti avessero successivamente agito per i danni tenendo una medesima linea di condotta e giovandosi del patrocinio di un identico difensore.

Si tratta di una conclusione giuridica conforme a quella cui era pervenuta, sempre la prima Sezione, con ordinanza del 3 maggio 2010, la n. 10634, in relazione ad una questione giuridica del tutto analoga.

La decisione in commento, dietro l’apparente conformità alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2009, alle cui affermazioni di principio pure ampiamente attinge, in realtà si connota per il deciso spostamento della sanzione dell’abuso dal solco dell’inammissibilità-improcedibilità, risolutamente esclusa, per collocarla sul terreno, all’evidenza ben più mite quanto a conseguenze, del regime delle spese processuali, proprio argomentando dalla considerazione che in casi consimili non è ravvisabile l’illegittimità dell’invocato strumento di tutela in sé, bensi un’illegittimità riferibile alle sole modalità di esercizio del diritto di azione.

Importante, quindi, il principio enunciato e conforme agli auspici espressi da autorevole dottrina dopo la pronuncia del 2009 (v. sempre Montanari, art. cit.), per il quale, al cospetto di un abuso del diritto di azione, il giudice non deve pronunciare sentenza declinatoria di rito, giacchè gli effetti dell’abuso sono ritenuti collocabili sul solo piano della valutazione delle spese e deve escludersi che l’abuso possa ritenersi elemento ostativo ad un esame nel merito.