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Confisca di beni: i diritti di credito del terzo e l’interesse pubblico alla repressione criminale

1. Le massime

L'applicazione della confisca non determina l'estinzione del preesistente diritto di pegno costituito a favore di terzi sulle cose che ne sono oggetto quando costoro, avendo tratto oggettivamente vantaggio dall'altrui attività criminosa, riescano a provare di trovarsi in una situazione di buonafede e di affidamento incolpevole; in siffatta ipotesi la custodia, l'amministrazione e la vendita delle cose pignorate devono essere compiute dall'ufficio giudiziario e il giudice dell'esecuzione deve assicurare che il creditore pignoratizio possa esercitare il diritto di prelazione sulle somme ricavate dalla vendita.

I diritti di credito dei terzi che risultino da atti aventi data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro, non rimangono pregiudicati dalla confisca a patto che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità (cfr. l’art.52 del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159; nella specie, quanto emerso nel giudizio di merito induceva a ritenere che la Banca creditrice fosse ben consapevole del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita del prevenuto, benché questi fosse incensurato, sulla base di taluni indici presuntivi, tra cui il fatto che il contraente fosse cliente in sede locale da diversi anni e che, in maniera del tutto improvvisa, i congiunti di lui avessero accumulato un cospicuo patrimonio immobiliare, pure a fronte dell’esiguità dei redditi dichiarati).

2. Il caso

Con decreto, il Tribunale territoriale rigettava l’opposizione proposta dalla Banca Alfa S.p.A. avverso il provvedimento con cui il Tribunale aveva respinto il ricorso con cui la società Alfa richiedeva la revoca della confisca in prevenzione, definitiva nei confronti di Tizio, degli immobili su cui la Banca Beta (dante causa dell’opponente) aveva trascritto alcune ipoteche prima del sequestro degli immobili e comunque in buona fede, stato soggettivo che – in subordine – chiedeva venisse riconosciuto ai fini degli ulteriori rimedi civilistici esperibili a garanzia del credito. Si trattava di tre mutui concessi a vecchi clienti come Tizio e suoi congiunti, garantiti con ipoteche iscritte su distinti immobili. Solo in seguito essi erano stati sequestrati e poi confiscati con provvedimento di prevenzione divenuto definitivo.

Il Tribunale, pur in esito alle disposte integrazioni istruttorie, con ordinanza confermava il decreto. In particolare, osservava che l'Istituto di credito terzo non poteva far valere la propria buona fede a fronte di un soggetto come Tizio, che dal 1989 al 1993 aveva sempre dichiarato redditi inferiori a 40 milioni di lire e che in un solo anno, nel 1985, era stato protagonista di un accumulo di beni immobili stimati nel 1988 tre miliardi di lire.

Ricorreva per cassazione la difesa della Alfa S.p.A., deducendo con unico e articolato motivo violazione di legge e vizio di motivazione per le mancate conseguenze, di diritto e di prova, tratte dalla documentazione prodotta sia in sede di incidente di esecuzione che successivamente, chiedendo l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato. Il Procuratore Generale presso la Suprema Corte riteneva che nell’ordinanza fossero stati ben valutati i profili di imprudenza e negligenza ascrivibili all’Istituto bancario e correttamente applicati i principi regolatori della materia e chiedeva che il ricorso fosse rigettato.

3. La decisione

La Corte richiama i propri precedenti in materia, in particolare la sentenza, resa a Sezioni Unite, n. 9 del 28/4/99, ric. Bacherotti, ove si è chiarito che l’applicazione della confisca non determina l’estinzione del preesistente diritto di pegno costituito a favore di terzi sulle cose che ne sono oggetto quando costoro, avendo tratto oggettivamente vantaggio dall’attività criminosa altrui, riescano a provare di trovarsi in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole. Ove ricorra la buona fede l’ufficio giudiziario dovrà provvedere all’amministrazione ed alla vendita delle cose pignorate, assicurando al creditore pignoratizio l’esercizio del diritto di prelazione sulle somme ricavate dalla vendita.

Condizione, pertanto, della salvezza del diritto di pegno (o più in generale del diritto di garanzia reale) dei terzi è che costoro, allorché abbiano tratto oggettivo vantaggio (è dato di fatto economico) dall'altrui attività criminosa, provino di trovarsi in una situazione di (soggettiva) buona fede e affidamento incolpevole. L’onere di una simile prova incombe sul terzo creditore.

La Suprema Corte rileva come oggi la normativa recata dal Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione in materia sia particolarmente precisa (D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159). È, infatti, l’articolo 52 del richiamato testo normativo, rubricato “Diritti dei terzi”, in evidente continuità con la precorrente giurisprudenza a prevedere che: "La confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultino da atti aventi data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro”, ove ricorrano talune condizioni, tra cui si segnala quella indicata alla lettera B, vale a dire “che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità".

La norma esalta la condizione di soggettiva buona fede che il terzo deve provare per far prevalere sul pubblico interesse il proprio diritto di credito, ove questo sia stato di fatto inquinato dal (remunerato) vantaggio che esso arreca all'attività illecita del debitore.

Secondo il giudice di legittimità, il provvedimento di rigetto impugnato reca una motivazione logica e corretta, espressiva del convincimento maturato dal giudice di merito, secondo cui la prova della buona fede non fosse stata offerta, laddove quanto emerso nel processo induceva, anzi, a ritenere che il creditore fosse ben consapevole del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita.

Dalle risultanze processuali, in particolare, emergeva che per l'Istituto di credito Tizio era un cliente in sede locale, livello al quale è massimo il grado di conoscenza da parte degli addetti in ordine alle realtà economiche del posto. Ebbene, se Tizio era un vecchio cliente della banca che fin dal 1982 aveva cominciato a contrarre mutui con l'Istituto, non poteva sfuggire a quest'ultimo l'improvvisa importanza dei mutui successivamente contratti per diverse centinaia di milioni di lire nel 1991, 1992 e 1994. Non poteva sfuggire, prima ancora, senza pretendere speciali attitudini cognitive diverse da quelle abituali d'istituto, l'inusitato accumulo immobiliare registratosi in capo alla moglie Sempronia nel 1985, a fronte dell’esiguità dei redditi dichiarati da Tizio negli anni a seguire, dal 1989 al 1993, inferiori a 40 milioni di lire (e dovendosi presumere redditi ancora inferiori negli anni precedenti).

L'apertura delle rilevanti linee di credito ipotecarie degli anni 1991, 1992 e 1994 in favore di Tizio - così la Corte seguita a ripercorrere l’iter argomentativo del giudice di merito, ritenendolo immune dai vizi denunciati – non può sfuggire alla ragionata presunzione di un'operazione bancaria certamente vantaggiosa e garantita per l'istituto sotto il profilo economico (e resa in esito alle procedure per questo previste), ma effettuata nella consapevolezza della personalità opaca del contraente e, in definitiva, dell'alto rischio di collisione del privato interesse della banca con il prevalente interesse pubblico alla prevenzione criminale e mafiosa. Sotto questo profilo, aggiunge la Corte, quand'anche fino al 1991 Tizio fosse stato incensurato, le operazioni bancarie effettuate in suo favore in quello e negli anni successivi (revocate solo nel 1995) nonostante i contrari segni di pubblico interesse, scontavano il rischio in questione.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

1. Le massime

L'applicazione della confisca non determina l'estinzione del preesistente diritto di pegno costituito a favore di terzi sulle cose che ne sono oggetto quando costoro, avendo tratto oggettivamente vantaggio dall'altrui attività criminosa, riescano a provare di trovarsi in una situazione di buonafede e di affidamento incolpevole; in siffatta ipotesi la custodia, l'amministrazione e la vendita delle cose pignorate devono essere compiute dall'ufficio giudiziario e il giudice dell'esecuzione deve assicurare che il creditore pignoratizio possa esercitare il diritto di prelazione sulle somme ricavate dalla vendita.

I diritti di credito dei terzi che risultino da atti aventi data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro, non rimangono pregiudicati dalla confisca a patto che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità (cfr. l’art.52 del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159; nella specie, quanto emerso nel giudizio di merito induceva a ritenere che la Banca creditrice fosse ben consapevole del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita del prevenuto, benché questi fosse incensurato, sulla base di taluni indici presuntivi, tra cui il fatto che il contraente fosse cliente in sede locale da diversi anni e che, in maniera del tutto improvvisa, i congiunti di lui avessero accumulato un cospicuo patrimonio immobiliare, pure a fronte dell’esiguità dei redditi dichiarati).

2. Il caso

Con decreto, il Tribunale territoriale rigettava l’opposizione proposta dalla Banca Alfa S.p.A. avverso il provvedimento con cui il Tribunale aveva respinto il ricorso con cui la società Alfa richiedeva la revoca della confisca in prevenzione, definitiva nei confronti di Tizio, degli immobili su cui la Banca Beta (dante causa dell’opponente) aveva trascritto alcune ipoteche prima del sequestro degli immobili e comunque in buona fede, stato soggettivo che – in subordine – chiedeva venisse riconosciuto ai fini degli ulteriori rimedi civilistici esperibili a garanzia del credito. Si trattava di tre mutui concessi a vecchi clienti come Tizio e suoi congiunti, garantiti con ipoteche iscritte su distinti immobili. Solo in seguito essi erano stati sequestrati e poi confiscati con provvedimento di prevenzione divenuto definitivo.

Il Tribunale, pur in esito alle disposte integrazioni istruttorie, con ordinanza confermava il decreto. In particolare, osservava che l'Istituto di credito terzo non poteva far valere la propria buona fede a fronte di un soggetto come Tizio, che dal 1989 al 1993 aveva sempre dichiarato redditi inferiori a 40 milioni di lire e che in un solo anno, nel 1985, era stato protagonista di un accumulo di beni immobili stimati nel 1988 tre miliardi di lire.

Ricorreva per cassazione la difesa della Alfa S.p.A., deducendo con unico e articolato motivo violazione di legge e vizio di motivazione per le mancate conseguenze, di diritto e di prova, tratte dalla documentazione prodotta sia in sede di incidente di esecuzione che successivamente, chiedendo l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato. Il Procuratore Generale presso la Suprema Corte riteneva che nell’ordinanza fossero stati ben valutati i profili di imprudenza e negligenza ascrivibili all’Istituto bancario e correttamente applicati i principi regolatori della materia e chiedeva che il ricorso fosse rigettato.

3. La decisione

La Corte richiama i propri precedenti in materia, in particolare la sentenza, resa a Sezioni Unite, n. 9 del 28/4/99, ric. Bacherotti, ove si è chiarito che l’applicazione della confisca non determina l’estinzione del preesistente diritto di pegno costituito a favore di terzi sulle cose che ne sono oggetto quando costoro, avendo tratto oggettivamente vantaggio dall’attività criminosa altrui, riescano a provare di trovarsi in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole. Ove ricorra la buona fede l’ufficio giudiziario dovrà provvedere all’amministrazione ed alla vendita delle cose pignorate, assicurando al creditore pignoratizio l’esercizio del diritto di prelazione sulle somme ricavate dalla vendita.

Condizione, pertanto, della salvezza del diritto di pegno (o più in generale del diritto di garanzia reale) dei terzi è che costoro, allorché abbiano tratto oggettivo vantaggio (è dato di fatto economico) dall'altrui attività criminosa, provino di trovarsi in una situazione di (soggettiva) buona fede e affidamento incolpevole. L’onere di una simile prova incombe sul terzo creditore.

La Suprema Corte rileva come oggi la normativa recata dal Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione in materia sia particolarmente precisa (D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159). È, infatti, l’articolo 52 del richiamato testo normativo, rubricato “Diritti dei terzi”, in evidente continuità con la precorrente giurisprudenza a prevedere che: "La confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultino da atti aventi data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro”, ove ricorrano talune condizioni, tra cui si segnala quella indicata alla lettera B, vale a dire “che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità".

La norma esalta la condizione di soggettiva buona fede che il terzo deve provare per far prevalere sul pubblico interesse il proprio diritto di credito, ove questo sia stato di fatto inquinato dal (remunerato) vantaggio che esso arreca all'attività illecita del debitore.

Secondo il giudice di legittimità, il provvedimento di rigetto impugnato reca una motivazione logica e corretta, espressiva del convincimento maturato dal giudice di merito, secondo cui la prova della buona fede non fosse stata offerta, laddove quanto emerso nel processo induceva, anzi, a ritenere che il creditore fosse ben consapevole del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita.

Dalle risultanze processuali, in particolare, emergeva che per l'Istituto di credito Tizio era un cliente in sede locale, livello al quale è massimo il grado di conoscenza da parte degli addetti in ordine alle realtà economiche del posto. Ebbene, se Tizio era un vecchio cliente della banca che fin dal 1982 aveva cominciato a contrarre mutui con l'Istituto, non poteva sfuggire a quest'ultimo l'improvvisa importanza dei mutui successivamente contratti per diverse centinaia di milioni di lire nel 1991, 1992 e 1994. Non poteva sfuggire, prima ancora, senza pretendere speciali attitudini cognitive diverse da quelle abituali d'istituto, l'inusitato accumulo immobiliare registratosi in capo alla moglie Sempronia nel 1985, a fronte dell’esiguità dei redditi dichiarati da Tizio negli anni a seguire, dal 1989 al 1993, inferiori a 40 milioni di lire (e dovendosi presumere redditi ancora inferiori negli anni precedenti).

L'apertura delle rilevanti linee di credito ipotecarie degli anni 1991, 1992 e 1994 in favore di Tizio - così la Corte seguita a ripercorrere l’iter argomentativo del giudice di merito, ritenendolo immune dai vizi denunciati – non può sfuggire alla ragionata presunzione di un'operazione bancaria certamente vantaggiosa e garantita per l'istituto sotto il profilo economico (e resa in esito alle procedure per questo previste), ma effettuata nella consapevolezza della personalità opaca del contraente e, in definitiva, dell'alto rischio di collisione del privato interesse della banca con il prevalente interesse pubblico alla prevenzione criminale e mafiosa. Sotto questo profilo, aggiunge la Corte, quand'anche fino al 1991 Tizio fosse stato incensurato, le operazioni bancarie effettuate in suo favore in quello e negli anni successivi (revocate solo nel 1995) nonostante i contrari segni di pubblico interesse, scontavano il rischio in questione.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.