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Il nuovo concordato preventivo

Privatizzazione della crisi d’impresa e ruolo del Tribunale

Il presente lavoro svolge una panoramica sulla ratio e sulle caratteristiche principali del concordato preventivo in generale, successivamente si sofferma sull’istituto della proposta di concordato come ridisegnato dalla Legge 80 del 2005. Ampio spazio viene dedicato alla trattazione dell’omologazione del concordato preventivo, vero banco di prova per gli interpreti, stante la non coerente formulazione della norma all’interno del complessivo assetto legislativo.

Riforma del 2005: nuovi obbiettivi del concordato preventivo e ruolo del Giudice.

Nella evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, il concordato preventivo è venuto ad assumere nei decenni una configurazione affatto nuova, con il superamento della concezione ottocentesca dell’istituto, un tempo “premio” per l’imprenditore “onesto ma sfortunato”, e con il raggiungimento di un nuovo equilibrio tra le tre “anime” del concordato.

Tradizionalmente, infatti, tre sono gli interessi cui il concordato è teleologicamente orientato: il primo è nella persona del debitore, il quale, per effetto dell’ammissione alla procedura di concordato, mantiene l’amministrazione dei suoi beni, non subisce gli effetti negativi personali del fallimento ed estingue definitivamente le sue obbligazioni, rimanendo al contempo libero di riprendere la propria attività; il secondo interesse è dei creditori, sicuramente più favorevoli ad una procedura meno dispendiosa, lunga ed incerta nel suo realizzo rispetto alla strada del fallimento; infine, con il concordato preventivo viene tutelato l’interesse pubblico della produzione e dell’economia, consistente nel salvare per quanto possibile un’impresa ancora operativa ed utile alla collettività.

La tendenza alla salvaguardia della funzione sociale dell’impresa, e non ultimo la preoccupazione per la difesa della forza-lavoro impiegata nell’azienda, hanno contribuito ad un ripensamento della ratio della procedura in esame: così, tra le critiche unanimi della dottrina, i tribunali hanno dato il placet a proposte di concordato in spregio ai presupposti prescritti dalla legge, anche ove in situazioni di crisi irreversibili. Parafrasando Provinciali (Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974), si è trasformato l’istituto in esame da mezzo per evitare il fallimento a mezzo legalizzato per ritardare il fallimento.

La cd. “mini-riforma” contenuta nell’articolo 2 della legge 80 del 2005 ha sicuramente risposto adeguatamente alle suddette sollecitazioni; tuttavia, particolarmente nella fase del giudizio di omologazione, ha creato nuovi problemi interpretativi e perplessità.

Ratione temporis, la disposizione transitoria dell’articolo 2 bis della legge 80/2005 rende la riforma applicabile “ai procedimenti di concordato preventivo pendenti e non ancora omologati alla data di entrata in vigore del presente decreto (ossia 16 marzo 2005, n.d.A.)”: questa norma, inserita nel decreto-legge 35/2005 in occasione della sua conversione, ha da un lato il merito di stabilire lo spartiacque per l’applicazione della normativa sopravvenuta (si dubitava se si dovesse considerare a tal fine la data del ricorso, la sentenza di omologa o l’inizio della fase processuale), dall’altro pone il dubbio della tenuta degli atti compiuti: sancendo come momento determinante per l’applicazione della disciplina la sentenza di omologazione, il legislatore pare aver trascurato gli interessi dei creditori che hanno aderito alla proposta di concordato.

Costoro, infatti, hanno votato sapendo che, nell’ulteriore sviluppo della procedura, vi sarebbe stato un giudizio di omologazione nel quale il Tribunale avrebbe effettuato, anche a garanzia della loro posizione, un incisivo controllo di merito che, ante riforma, si spingeva fino alla valutazione di convenienza del concordato.

In sintesi, le novità dell’istituto riguardano: 1) i requisiti per l’ammissione alla procedura; 2) il procedimento per la votazione sulla proposta di concordato; 3) il giudizio di omologazione.

1) I presupposti per l’ammissione: in particolare, il piano di risanamento

Prima dell’entrata in vigore della legge 80, si richiedeva, per l’ammissione alla procedura, che sussistessero (articolo 160): a) requisiti soggettivi dell’imprenditore (che l’imprenditore si trovasse in stato di insolvenza; che l’imprenditore avesse tenuto una contabilità regolare; che non fosse stato condannato per bancarotta o altri delitti contro la fede pubblica, il patrimonio, l’economia pubblica l’industria e il commercio; che non fosse stato dichiarato fallito o ammesso ad altra procedura di concordato preventivo nei cinque anni precedenti); b) requisiti oggettivi della proposta (si tratta delle due forme di concordato richiamate dal vecchio art. 160, comma 2: concordato remissorio, con o senza dilazione di pagamento, ossia mediante prestazione di garanzie serie di pagare nella misura del 40 percento i creditori chirografari e della totalità i creditori privilegiati; ovvero concordato per cessione, da adempiere cioè mediante la cessione dei beni aziendali).I nuovi requisiti per l’ammissibilità della domanda di concordato rispondono ai recenti orientamenti, disegnando un istituto sganciato da ogni intento punitivo o premiale nei confronti del debitore, e fondato sull’idea di favorire quanto più possibile l’accordo con i creditori e l’accesso alla procedura di imprese ancora “utili”: i requisiti soggettivi dell’imprenditore non sono più menzionati nel testo dell’art. 160, e i requisiti oggettivi della proposta sono fortemente ridimensionati.

Presupposto della proposta è non più lo stato di insolvenza (vecchio testo art. 160, comma 1) ma la semplice “crisi” dell’impresa: taluni autori hanno sostenuto che lo stato di crisi sia situazione radicalmente diversa dall’insolvenza, differenziandosi da questa per la reversibilità e temporaneità della illiquidità, non necessariamente prodromica all’insolvenza (così decr. Trib. Milano 7 novembre 2005 , in Il Fallimento 1/06, p. 51), sostenendosi d’altro canto che il Tribunale, cui venga presentata una proposta di concordato preventivo e che accerti che l’imprenditore si trovi in realtà in una situazione di irreversibile illiquidità, deve dichiarare d’ufficio il fallimento.

L’interpretazione autentica data dall’art. 36 del decreto-legge n. 273 del 30 dicembre 2005 ha invece indicato un’altra strada: infatti è stato aggiunto un ultimo comma all’art. 160, secondo cui “ai fini di cui al primo comma, per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. Stato di insolvenza quindi come sottospecie dello stato di crisi, con il conseguente problema di conciliare la funzione conservativa del valore dell’impresa, propria dell’istituto e vero pilastro della Riforma, con la possibilità di concedere il beneficio ad imprese (ormai) improduttive.

Non sono più menzionati i requisiti di cd. meritevolezza dell’imprenditore, di cui ai numeri 1, 2 e 3 del previgente articolo 160.

In particolare, scompare il requisito della regolare tenuta della contabilità di cui al numero 1: tuttavia è stato notato dai primi commenti che esso esce dalla porta per rientrare dalla finestra: si consideri infatti che il debitore deve presentare una relazione, unitamente alla domanda di concordato, sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria (articolo 161), e che il commissario presenta una successiva relazione, prima dell’adunanza dei creditori, con l’inventario dei beni e l’esposizione delle cause del dissesto (articolo 172), e a base di queste relazioni e del giudizio di fattibilità del “piano” di risanamento non può che esserci una contabilità regolare, pena l’inammissibilità della proposta per non veridicità del piano, come si preciserà più oltre.

Per quel che concerne i requisiti oggettivi, la novità più significativa è rappresentata dalla estrema duttilità dell’istituto: scompaiono le rigidi percentuali del 40 per cento di soddisfacimento dei creditori chirografari (nulla viene detto riguardo i creditori privilegiati, ma la dottrina maggioritaria si è attestata sul necessario pagamento integrale di costoro), e si introduce il cosiddetto “piano”.

Come testualmente prevede il nuovo art. 160: “L’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito; b) l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato; c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse”; il piano assume dunque carattere centrale ed estremamente delicato.

La tendenziale atipicità del suo contenuto permette di superare la rigida alternativa tra concordato con cessione o concordato remissorio: l’articolo riportato prevede infatti solo ipotesi esemplificative di proposte di concordato (per cessione, accollo, per assunzione) ma la lettera a) espressamente consente all’imprenditore di proporre “qualsiasi forma” di soddisfazione dei crediti, anche mediante qualsiasi operazione straordinaria; la fattibilità del piano e la veridicità dei dati aziendali rappresentati è infine attestata da un professionista avente i requisiti previsti dall’articolo 28 per la nomina a curatore.

Il piano rappresenta una condizione dell’azione (decreto Trib. Roma 1/2/2006, inedito), “che si qualifica e concretizza in relazione alla corrispondenza a dati economici e tecnico-contabili veritieri” e alla fattibilità e realizzabilità dello stesso: la verifica da parte del Tribunale avviene dunque in limine litis, ed il giudizio negativo sul piano in sede di ammissibilità comporta il rigetto nel rito e non nel merito della proposta, con rimessione degli atti al tribunale per un’autonoma istruttoria prefallimentare, ai sensi del novellato articolo 15 (questa è la soluzione adottata dal Trib. di Pescara, nel decreto del 20 ottobre 2005, in Il Fallimento 1/06, p. 56, interpretazione che si impone, con l’abrogazione della possibilità di dichiarare d’ufficio il fallimento a seguito della modifica dell’articolo 6).

2) I creditori nella proposta di concordato

Altra novità è rappresentata dal procedimento di votazione del concordato: l’articolo 160 ha infatti introdotto la possibilità di suddividere, nel contesto del piano, i creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei, e di trattare differenziatamente i creditori di classi diverse: ciò ha portato la dottrina a parlare di “superamento del principio della par condicio creditorum” a favore del principio della tutela dell’impresa.

Nell’adunanza per la votazione, si è introdotto il principio del cram down, operante già nel diritto statunitense e tedesco: in sostanza, se il debitore ha suddiviso i creditori in classi, nell’adunanza sarà necessaria la maggioranza dei crediti ammessi al voto all’interno di ciascuna classe; successivamente, in sede di camera di consiglio di omologa, ai fini dell’approvazione del concordato, nonostante il dissenso di una o più classi e se la maggioranza delle classi abbia accettato la proposta, il Tribunale può ritenere che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti “in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili” (art. 177, comma 2).

Con questo meccanismo, si neutralizzano le condotte meramente ostruzionistiche delle minoranze dissenzienti, consentendo l’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria per il perfezionamento dell’accordo.

La dottrina ritiene che tale suddivisione in classi dei creditori comporti un forte controllo di merito, rectius di vera e propria convenienza del Tribunale sulla proposta; possibilità di controllo che, in assenza di ripartizione in classi, sarebbe negata.

3) Il giudizio di omologazione

Veniamo infine alla terza fondamentale modifica da parte della legge 80, la disciplina attuale del giudizio di omologazione.

La data dell’udienza va affissa all’albo del tribunale e notificata al commissario giudiziale e ai creditori dissenzienti, a cura del debitore, il quale successivamente procederà anche all’iscrizione della causa a ruolo: la statuizione costituisce un sicuro passo in avanti rispetto alla corrispondente norma dell’art. 180, che prevedeva il solo onere di affissione all’albo del Tribunale e non individuava il soggetto tenuto all’avvio del giudizio, di talché tali oneri erano sostanzialmente affidati alla buona volontà del debitore o di un creditore interessato; il giudizio si svolge in camera di consiglio, laddove la previgente norma prevedeva la instaurazione di un giudizio ordinario di cognizione nelle forme dell’art. 183 c.p.c., con l’attribuzione al giudice di poteri ufficiosi nell’assunzione delle prove (si badi che non si vuole affermare il venir meno del principio dell’onere della prova, espressamente richiamato dall’art. 180 co. 2, per il quale le parti hanno l’obbligo di indicare nelle memorie le eccezioni non rilevabili d’ufficio, piuttosto si attribuisce al giudice di provare con ogni mezzo di prova i fatti allegati dalle parti, similmente a quanto avviene nel processo del lavoro, cfr. art. 421 c.p.c., derogando quindi al principio di cui all’art. 115 c.p.c.), il testo dell’art. 180, al 4° comma, recita testualmente: “Il tribunale, se la maggioranza di cui al primo comma dell’articolo 177 è raggiunta, approva il concordato con decreto motivato.

Quando sono previste diverse classi di creditori, il tribunale, riscontrata in ogni caso la maggioranza di cui al primo comma dell’articolo 177, può approvare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori, se la maggioranza delle classi ha approvato la proposta di concordato e qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”.

Due sono le tesi che hanno spaccato le prime letture dottrinarie e forensi dell’assetto del giudizio di omologazione: una prima interpretazione, in linea con l’intenzione del legislatore di depotenziare il ruolo dell’autorità giudiziaria e strettamente aderente alla interpretazione letterale, secondo la quale il tribunale deve limitarsi al riscontro del raggiungimento delle maggioranze; altra interpretazione, forse più conservatrice ma certo più attenta alla collocazione sistematica della singola disposizione nel tessuto della legge fallimentare, secondo la quale il Giudice mantiene i poteri di merito.

La prima tesi vede nel giudizio di omologa il momento culminante della concezione privatistica, secondo la quale la soluzione concordataria deve essere affidata prevalentemente alle valutazioni discrezionali dei diretti interessati, senza interferenza degli apprezzamenti del giudice: il giudice quindi non deve svolgere alcuna indagine nel merito circa la fattibilità e convenienza e non può negare l’omologa se le maggioranze sono raggiunte. Questa soluzione si giustifica altresì sul rilievo della mancanza di una delimitazione dell’oggetto del giudizio nella norma, che non sia appunto il giudizio sul raggiungimento delle maggioranze: solo se il debitore ha proceduto alla formazione delle classi, si aggiunge, alla suddetta indagine formale, quella di merito sulla convenienza della proposta per i creditori dissenzienti.

La dottrina che sposa tale tesi (Bozza, Il giudizio di omologazione, la chiusura della procedura e il regime transitorio, Fall. 11/05) riconosce tuttavia l’irragionevole differenziazione di trattamento tra i creditori, a seconda che il debitore ricorra o meno alla formazione delle classi: così, uno stesso creditore dissenziente può (o meno) proporre valida opposizione e indurre il tribunale ad esaminare se egli sia soddisfatto in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (id est, dichiarazione di fallimento), soltanto quando la proposta del debitore articoli in classi le diverse posizioni creditorie.

La tesi in commento ha avuto scarso seguito nella giurisprudenza di merito: per citare uno dei pochi interventi pretorili su questo fronte, il decreto del Tribunale di Como del 22 luglio 2005 (in Il Fallimento 3/06, p. 287), limita il giudizio al consenso dei creditori, “alla luce della chiara prevalenza della natura contrattuale, privatistica, del concordato, che pone al centro la volontà delle parti”; in caso di suddivisione in classi, “il tribunale opera un giudizio di merito, di convenienza, per accertare che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti siano soddisfatti in misura non inferiore alle alternative concretamente praticabili”.

Più sèguito ha ricevuto la seconda soluzione (ex plurimis, Trib. Bari 7/11/2005, Trib. Monza 16/10/2005, Trib Treviso 15/7/2005, tutte in Il Fallimento 1/06, p 52 ss.) in base alla quale persiste il potere del Tribunale di accertare la realizzabilità del concordato.

Interpretazione, questa, che, come si è detto, “cala” l’art. 180 nel tessuto normativo della legge fallimentare, leggendolo coordinatamente con le norme non abrogate dalle riforme del 2005 e del 2006.

Una delle prime decisioni pretorili (decr. Trib. Sulmona 6.6.2005, fall. 7/05, p. 793) ha preliminarmente osservato che, se il controllo del Tribunale fosse limitato al solo accertamento delle maggioranze, esso sarebbe una ripetizione del –sia pur sommario- giudizio effettuato prima della fissazione della camera di consiglio.

In secondo luogo, l’art. 173 l.fall., non toccato dagli interventi riformatori, prescrive che, se nel corso della procedura vengono a mancare le condizioni di ammissibilità, il fallimento può essere dichiarato dal Tribunale (previa istruttoria prefallimentare ex art. 15 l.fall.): da questa disposizione, è diventata diritto vivente l’interpretazione secondo cui le condizioni di ammissibilità devono sussistere durante tutto il corso della procedura, anche durante il giudizio di omologazione: tra tali condizioni, va ora compreso il giudizio sulla fattibilità della proposta.

Il tribunale ben potrebbe, fino al decreto di omologazione, sindacare se l’imprenditore ha compiuto taluno degli atti previsti dall’art. 173 o se sono venute meno le condizioni di ammissibilità ex 173 co. 2 .

Una scrupolosa lettura dell’art. 180 co. 2 conduce alla stessa soluzione: la riscrittura dell’art. 180 co. 2 ha comportato l’estensione della legittimazione ad intervenire nel giudizio a “qualsiasi interessato”: questa categoria onnicomprensiva è distinta dalla precedente categoria degli “eventuali creditori dissenzienti”.

Si è infatti sostenuto (Genoviva, I limiti del sindacato di merito nel nuovo concordato preventivo, Il Fallimento 3/06, p. 366) che siano da intendersi “interessati” i creditori pretermessi nella proposta concordataria o che non abbiano partecipato alla votazione: in presenza di una memoria difensiva di un creditore opponente pretermesso (magari privilegiato!), il Tribunale non può limitarsi all’accertamento delle maggioranze (come vorrebbero i fautori della prima tesi), ma deve negare l’omologa del concordato.

L’ampiezza della formulazione dell’art. 180 co. 2, che consente di depositare memorie difensive con l’indicazione di eccezioni in rito e in merito non rilevabili d’ufficio, mal si coniuga con il (supposto) limite del petitum della camera di consiglio al solo riscontro delle maggioranze.

Altro argomento a sostegno di questa tesi si ricava dalla necessità del deposito, nel termine di dieci giorni dall’udienza, di un motivato parere del commissario giudiziale: il parere non può che contenere un’opinione (non tanto sulla regolarità e completezza dell’avvenuta votazione, quanto) sulla realizzabilità del piano.

Infine, la previsione di poteri istruttori d’ufficio non è preordinata (solo) alla notarile verifica delle maggioranze di cui all’art. 177, ma (anche) alla persistenza delle condizioni di fattibilità del concordato. 

Il presente lavoro svolge una panoramica sulla ratio e sulle caratteristiche principali del concordato preventivo in generale, successivamente si sofferma sull’istituto della proposta di concordato come ridisegnato dalla Legge 80 del 2005. Ampio spazio viene dedicato alla trattazione dell’omologazione del concordato preventivo, vero banco di prova per gli interpreti, stante la non coerente formulazione della norma all’interno del complessivo assetto legislativo.

Riforma del 2005: nuovi obbiettivi del concordato preventivo e ruolo del Giudice.

Nella evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, il concordato preventivo è venuto ad assumere nei decenni una configurazione affatto nuova, con il superamento della concezione ottocentesca dell’istituto, un tempo “premio” per l’imprenditore “onesto ma sfortunato”, e con il raggiungimento di un nuovo equilibrio tra le tre “anime” del concordato.

Tradizionalmente, infatti, tre sono gli interessi cui il concordato è teleologicamente orientato: il primo è nella persona del debitore, il quale, per effetto dell’ammissione alla procedura di concordato, mantiene l’amministrazione dei suoi beni, non subisce gli effetti negativi personali del fallimento ed estingue definitivamente le sue obbligazioni, rimanendo al contempo libero di riprendere la propria attività; il secondo interesse è dei creditori, sicuramente più favorevoli ad una procedura meno dispendiosa, lunga ed incerta nel suo realizzo rispetto alla strada del fallimento; infine, con il concordato preventivo viene tutelato l’interesse pubblico della produzione e dell’economia, consistente nel salvare per quanto possibile un’impresa ancora operativa ed utile alla collettività.

La tendenza alla salvaguardia della funzione sociale dell’impresa, e non ultimo la preoccupazione per la difesa della forza-lavoro impiegata nell’azienda, hanno contribuito ad un ripensamento della ratio della procedura in esame: così, tra le critiche unanimi della dottrina, i tribunali hanno dato il placet a proposte di concordato in spregio ai presupposti prescritti dalla legge, anche ove in situazioni di crisi irreversibili. Parafrasando Provinciali (Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974), si è trasformato l’istituto in esame da mezzo per evitare il fallimento a mezzo legalizzato per ritardare il fallimento.

La cd. “mini-riforma” contenuta nell’articolo 2 della legge 80 del 2005 ha sicuramente risposto adeguatamente alle suddette sollecitazioni; tuttavia, particolarmente nella fase del giudizio di omologazione, ha creato nuovi problemi interpretativi e perplessità.

Ratione temporis, la disposizione transitoria dell’articolo 2 bis della legge 80/2005 rende la riforma applicabile “ai procedimenti di concordato preventivo pendenti e non ancora omologati alla data di entrata in vigore del presente decreto (ossia 16 marzo 2005, n.d.A.)”: questa norma, inserita nel decreto-legge 35/2005 in occasione della sua conversione, ha da un lato il merito di stabilire lo spartiacque per l’applicazione della normativa sopravvenuta (si dubitava se si dovesse considerare a tal fine la data del ricorso, la sentenza di omologa o l’inizio della fase processuale), dall’altro pone il dubbio della tenuta degli atti compiuti: sancendo come momento determinante per l’applicazione della disciplina la sentenza di omologazione, il legislatore pare aver trascurato gli interessi dei creditori che hanno aderito alla proposta di concordato.

Costoro, infatti, hanno votato sapendo che, nell’ulteriore sviluppo della procedura, vi sarebbe stato un giudizio di omologazione nel quale il Tribunale avrebbe effettuato, anche a garanzia della loro posizione, un incisivo controllo di merito che, ante riforma, si spingeva fino alla valutazione di convenienza del concordato.

In sintesi, le novità dell’istituto riguardano: 1) i requisiti per l’ammissione alla procedura; 2) il procedimento per la votazione sulla proposta di concordato; 3) il giudizio di omologazione.

1) I presupposti per l’ammissione: in particolare, il piano di risanamento

Prima dell’entrata in vigore della legge 80, si richiedeva, per l’ammissione alla procedura, che sussistessero (articolo 160): a) requisiti soggettivi dell’imprenditore (che l’imprenditore si trovasse in stato di insolvenza; che l’imprenditore avesse tenuto una contabilità regolare; che non fosse stato condannato per bancarotta o altri delitti contro la fede pubblica, il patrimonio, l’economia pubblica l’industria e il commercio; che non fosse stato dichiarato fallito o ammesso ad altra procedura di concordato preventivo nei cinque anni precedenti); b) requisiti oggettivi della proposta (si tratta delle due forme di concordato richiamate dal vecchio art. 160, comma 2: concordato remissorio, con o senza dilazione di pagamento, ossia mediante prestazione di garanzie serie di pagare nella misura del 40 percento i creditori chirografari e della totalità i creditori privilegiati; ovvero concordato per cessione, da adempiere cioè mediante la cessione dei beni aziendali).I nuovi requisiti per l’ammissibilità della domanda di concordato rispondono ai recenti orientamenti, disegnando un istituto sganciato da ogni intento punitivo o premiale nei confronti del debitore, e fondato sull’idea di favorire quanto più possibile l’accordo con i creditori e l’accesso alla procedura di imprese ancora “utili”: i requisiti soggettivi dell’imprenditore non sono più menzionati nel testo dell’art. 160, e i requisiti oggettivi della proposta sono fortemente ridimensionati.

Presupposto della proposta è non più lo stato di insolvenza (vecchio testo art. 160, comma 1) ma la semplice “crisi” dell’impresa: taluni autori hanno sostenuto che lo stato di crisi sia situazione radicalmente diversa dall’insolvenza, differenziandosi da questa per la reversibilità e temporaneità della illiquidità, non necessariamente prodromica all’insolvenza (così decr. Trib. Milano 7 novembre 2005 , in Il Fallimento 1/06, p. 51), sostenendosi d’altro canto che il Tribunale, cui venga presentata una proposta di concordato preventivo e che accerti che l’imprenditore si trovi in realtà in una situazione di irreversibile illiquidità, deve dichiarare d’ufficio il fallimento.

L’interpretazione autentica data dall’art. 36 del decreto-legge n. 273 del 30 dicembre 2005 ha invece indicato un’altra strada: infatti è stato aggiunto un ultimo comma all’art. 160, secondo cui “ai fini di cui al primo comma, per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. Stato di insolvenza quindi come sottospecie dello stato di crisi, con il conseguente problema di conciliare la funzione conservativa del valore dell’impresa, propria dell’istituto e vero pilastro della Riforma, con la possibilità di concedere il beneficio ad imprese (ormai) improduttive.

Non sono più menzionati i requisiti di cd. meritevolezza dell’imprenditore, di cui ai numeri 1, 2 e 3 del previgente articolo 160.

In particolare, scompare il requisito della regolare tenuta della contabilità di cui al numero 1: tuttavia è stato notato dai primi commenti che esso esce dalla porta per rientrare dalla finestra: si consideri infatti che il debitore deve presentare una relazione, unitamente alla domanda di concordato, sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria (articolo 161), e che il commissario presenta una successiva relazione, prima dell’adunanza dei creditori, con l’inventario dei beni e l’esposizione delle cause del dissesto (articolo 172), e a base di queste relazioni e del giudizio di fattibilità del “piano” di risanamento non può che esserci una contabilità regolare, pena l’inammissibilità della proposta per non veridicità del piano, come si preciserà più oltre.

Per quel che concerne i requisiti oggettivi, la novità più significativa è rappresentata dalla estrema duttilità dell’istituto: scompaiono le rigidi percentuali del 40 per cento di soddisfacimento dei creditori chirografari (nulla viene detto riguardo i creditori privilegiati, ma la dottrina maggioritaria si è attestata sul necessario pagamento integrale di costoro), e si introduce il cosiddetto “piano”.

Come testualmente prevede il nuovo art. 160: “L’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito; b) l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato; c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse”; il piano assume dunque carattere centrale ed estremamente delicato.

La tendenziale atipicità del suo contenuto permette di superare la rigida alternativa tra concordato con cessione o concordato remissorio: l’articolo riportato prevede infatti solo ipotesi esemplificative di proposte di concordato (per cessione, accollo, per assunzione) ma la lettera a) espressamente consente all’imprenditore di proporre “qualsiasi forma” di soddisfazione dei crediti, anche mediante qualsiasi operazione straordinaria; la fattibilità del piano e la veridicità dei dati aziendali rappresentati è infine attestata da un professionista avente i requisiti previsti dall’articolo 28 per la nomina a curatore.

Il piano rappresenta una condizione dell’azione (decreto Trib. Roma 1/2/2006, inedito), “che si qualifica e concretizza in relazione alla corrispondenza a dati economici e tecnico-contabili veritieri” e alla fattibilità e realizzabilità dello stesso: la verifica da parte del Tribunale avviene dunque in limine litis, ed il giudizio negativo sul piano in sede di ammissibilità comporta il rigetto nel rito e non nel merito della proposta, con rimessione degli atti al tribunale per un’autonoma istruttoria prefallimentare, ai sensi del novellato articolo 15 (questa è la soluzione adottata dal Trib. di Pescara, nel decreto del 20 ottobre 2005, in Il Fallimento 1/06, p. 56, interpretazione che si impone, con l’abrogazione della possibilità di dichiarare d’ufficio il fallimento a seguito della modifica dell’articolo 6).

2) I creditori nella proposta di concordato

Altra novità è rappresentata dal procedimento di votazione del concordato: l’articolo 160 ha infatti introdotto la possibilità di suddividere, nel contesto del piano, i creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei, e di trattare differenziatamente i creditori di classi diverse: ciò ha portato la dottrina a parlare di “superamento del principio della par condicio creditorum” a favore del principio della tutela dell’impresa.

Nell’adunanza per la votazione, si è introdotto il principio del cram down, operante già nel diritto statunitense e tedesco: in sostanza, se il debitore ha suddiviso i creditori in classi, nell’adunanza sarà necessaria la maggioranza dei crediti ammessi al voto all’interno di ciascuna classe; successivamente, in sede di camera di consiglio di omologa, ai fini dell’approvazione del concordato, nonostante il dissenso di una o più classi e se la maggioranza delle classi abbia accettato la proposta, il Tribunale può ritenere che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti “in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili” (art. 177, comma 2).

Con questo meccanismo, si neutralizzano le condotte meramente ostruzionistiche delle minoranze dissenzienti, consentendo l’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria per il perfezionamento dell’accordo.

La dottrina ritiene che tale suddivisione in classi dei creditori comporti un forte controllo di merito, rectius di vera e propria convenienza del Tribunale sulla proposta; possibilità di controllo che, in assenza di ripartizione in classi, sarebbe negata.

3) Il giudizio di omologazione

Veniamo infine alla terza fondamentale modifica da parte della legge 80, la disciplina attuale del giudizio di omologazione.

La data dell’udienza va affissa all’albo del tribunale e notificata al commissario giudiziale e ai creditori dissenzienti, a cura del debitore, il quale successivamente procederà anche all’iscrizione della causa a ruolo: la statuizione costituisce un sicuro passo in avanti rispetto alla corrispondente norma dell’art. 180, che prevedeva il solo onere di affissione all’albo del Tribunale e non individuava il soggetto tenuto all’avvio del giudizio, di talché tali oneri erano sostanzialmente affidati alla buona volontà del debitore o di un creditore interessato; il giudizio si svolge in camera di consiglio, laddove la previgente norma prevedeva la instaurazione di un giudizio ordinario di cognizione nelle forme dell’art. 183 c.p.c., con l’attribuzione al giudice di poteri ufficiosi nell’assunzione delle prove (si badi che non si vuole affermare il venir meno del principio dell’onere della prova, espressamente richiamato dall’art. 180 co. 2, per il quale le parti hanno l’obbligo di indicare nelle memorie le eccezioni non rilevabili d’ufficio, piuttosto si attribuisce al giudice di provare con ogni mezzo di prova i fatti allegati dalle parti, similmente a quanto avviene nel processo del lavoro, cfr. art. 421 c.p.c., derogando quindi al principio di cui all’art. 115 c.p.c.), il testo dell’art. 180, al 4° comma, recita testualmente: “Il tribunale, se la maggioranza di cui al primo comma dell’articolo 177 è raggiunta, approva il concordato con decreto motivato.

Quando sono previste diverse classi di creditori, il tribunale, riscontrata in ogni caso la maggioranza di cui al primo comma dell’articolo 177, può approvare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori, se la maggioranza delle classi ha approvato la proposta di concordato e qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”.

Due sono le tesi che hanno spaccato le prime letture dottrinarie e forensi dell’assetto del giudizio di omologazione: una prima interpretazione, in linea con l’intenzione del legislatore di depotenziare il ruolo dell’autorità giudiziaria e strettamente aderente alla interpretazione letterale, secondo la quale il tribunale deve limitarsi al riscontro del raggiungimento delle maggioranze; altra interpretazione, forse più conservatrice ma certo più attenta alla collocazione sistematica della singola disposizione nel tessuto della legge fallimentare, secondo la quale il Giudice mantiene i poteri di merito.

La prima tesi vede nel giudizio di omologa il momento culminante della concezione privatistica, secondo la quale la soluzione concordataria deve essere affidata prevalentemente alle valutazioni discrezionali dei diretti interessati, senza interferenza degli apprezzamenti del giudice: il giudice quindi non deve svolgere alcuna indagine nel merito circa la fattibilità e convenienza e non può negare l’omologa se le maggioranze sono raggiunte. Questa soluzione si giustifica altresì sul rilievo della mancanza di una delimitazione dell’oggetto del giudizio nella norma, che non sia appunto il giudizio sul raggiungimento delle maggioranze: solo se il debitore ha proceduto alla formazione delle classi, si aggiunge, alla suddetta indagine formale, quella di merito sulla convenienza della proposta per i creditori dissenzienti.

La dottrina che sposa tale tesi (Bozza, Il giudizio di omologazione, la chiusura della procedura e il regime transitorio, Fall. 11/05) riconosce tuttavia l’irragionevole differenziazione di trattamento tra i creditori, a seconda che il debitore ricorra o meno alla formazione delle classi: così, uno stesso creditore dissenziente può (o meno) proporre valida opposizione e indurre il tribunale ad esaminare se egli sia soddisfatto in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (id est, dichiarazione di fallimento), soltanto quando la proposta del debitore articoli in classi le diverse posizioni creditorie.

La tesi in commento ha avuto scarso seguito nella giurisprudenza di merito: per citare uno dei pochi interventi pretorili su questo fronte, il decreto del Tribunale di Como del 22 luglio 2005 (in Il Fallimento 3/06, p. 287), limita il giudizio al consenso dei creditori, “alla luce della chiara prevalenza della natura contrattuale, privatistica, del concordato, che pone al centro la volontà delle parti”; in caso di suddivisione in classi, “il tribunale opera un giudizio di merito, di convenienza, per accertare che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti siano soddisfatti in misura non inferiore alle alternative concretamente praticabili”.

Più sèguito ha ricevuto la seconda soluzione (ex plurimis, Trib. Bari 7/11/2005, Trib. Monza 16/10/2005, Trib Treviso 15/7/2005, tutte in Il Fallimento 1/06, p 52 ss.) in base alla quale persiste il potere del Tribunale di accertare la realizzabilità del concordato.

Interpretazione, questa, che, come si è detto, “cala” l’art. 180 nel tessuto normativo della legge fallimentare, leggendolo coordinatamente con le norme non abrogate dalle riforme del 2005 e del 2006.

Una delle prime decisioni pretorili (decr. Trib. Sulmona 6.6.2005, fall. 7/05, p. 793) ha preliminarmente osservato che, se il controllo del Tribunale fosse limitato al solo accertamento delle maggioranze, esso sarebbe una ripetizione del –sia pur sommario- giudizio effettuato prima della fissazione della camera di consiglio.

In secondo luogo, l’art. 173 l.fall., non toccato dagli interventi riformatori, prescrive che, se nel corso della procedura vengono a mancare le condizioni di ammissibilità, il fallimento può essere dichiarato dal Tribunale (previa istruttoria prefallimentare ex art. 15 l.fall.): da questa disposizione, è diventata diritto vivente l’interpretazione secondo cui le condizioni di ammissibilità devono sussistere durante tutto il corso della procedura, anche durante il giudizio di omologazione: tra tali condizioni, va ora compreso il giudizio sulla fattibilità della proposta.

Il tribunale ben potrebbe, fino al decreto di omologazione, sindacare se l’imprenditore ha compiuto taluno degli atti previsti dall’art. 173 o se sono venute meno le condizioni di ammissibilità ex 173 co. 2 .

Una scrupolosa lettura dell’art. 180 co. 2 conduce alla stessa soluzione: la riscrittura dell’art. 180 co. 2 ha comportato l’estensione della legittimazione ad intervenire nel giudizio a “qualsiasi interessato”: questa categoria onnicomprensiva è distinta dalla precedente categoria degli “eventuali creditori dissenzienti”.

Si è infatti sostenuto (Genoviva, I limiti del sindacato di merito nel nuovo concordato preventivo, Il Fallimento 3/06, p. 366) che siano da intendersi “interessati” i creditori pretermessi nella proposta concordataria o che non abbiano partecipato alla votazione: in presenza di una memoria difensiva di un creditore opponente pretermesso (magari privilegiato!), il Tribunale non può limitarsi all’accertamento delle maggioranze (come vorrebbero i fautori della prima tesi), ma deve negare l’omologa del concordato.

L’ampiezza della formulazione dell’art. 180 co. 2, che consente di depositare memorie difensive con l’indicazione di eccezioni in rito e in merito non rilevabili d’ufficio, mal si coniuga con il (supposto) limite del petitum della camera di consiglio al solo riscontro delle maggioranze.

Altro argomento a sostegno di questa tesi si ricava dalla necessità del deposito, nel termine di dieci giorni dall’udienza, di un motivato parere del commissario giudiziale: il parere non può che contenere un’opinione (non tanto sulla regolarità e completezza dell’avvenuta votazione, quanto) sulla realizzabilità del piano.

Infine, la previsione di poteri istruttori d’ufficio non è preordinata (solo) alla notarile verifica delle maggioranze di cui all’art. 177, ma (anche) alla persistenza delle condizioni di fattibilità del concordato.