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L’Informatica, il Diritto e l’importanza dell’Errore

[1]

Partiamo da “Minority Report (Rapporto di Minoranza)”, il racconto di Philip K. Dick[2] in cui si descrive un ipotetico futuro in cui l’umanità ha eliminato gli omicidi e la maggior parte delle azioni criminali grazie all’uso dei Precog, esseri geneticamente mutati in grado di prevedere il futuro e di comunicarlo tramite apposite macchine alla Precrimine, una speciale divisione della polizia nata per arrestare i cittadini prima ancora che commettano un reato.

Nella realtà immaginata il connubio tra mutazioni genetiche ed informatica produce un mondo in cui si è in grado di punire l’intenzione senza che questa si concretizzi in azione: è il solo pensiero criminale oggetto di repressione in una logica preventiva portata alle estreme conseguenze.

La prevenzione, dunque, non come complesso di azioni atte ad impedire l’accadimento di un evento non desiderato, pur tuttavia sempre e comunque in grado di verificarsi, ma come anticipazione/esclusione dello stesso cosicché non possa in nessun caso avere luogo.

Senza attendere l’avvento dei “Precog” l’intersezione tra informatica e diritto sembra già oggi muoversi nella direzione sopra illustrata sia pure limitatamente (e per fortuna) a specifici settori, in primis quello del copyright, laddove la tutela giuridica delle misure tecnologiche di protezione[3] dell’opera segna il trasferimento all’interno del codice informatico dei principi fissati nella legge.

Si produce così uno spostamento dal piano della scelta, caratterizzante il diritto quale regno del libero arbitrio[4], in cui il rispetto della norma è frutto di una consapevole volizione, a quello dell’ineluttabilità, del non poter essere altrimenti, dell’impossibilità dell’infrazione, del codice informatico che si fa legge[5].

Prendiamo la formulazione dell’articolo 102-quater, comma I, della L. 633/1941 (c.d. Legge sul diritto d’autore), introdotto dal d.lgs 68/2003, in recepimento della direttiva comunitaria 2001/29/CE: “I titolari di diritti d’autore e di diritti connessi nonché del diritto di cui all’art. 102-bis, comma 3, possono apporre sulle opere o sui materiali protetti misure tecnologiche di protezione efficaci che comprendono tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che, nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a impedire o limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti”.

Evidente qui il tentativo di prevenire a tal punto la condotta considerata lesiva da renderne finanche impossibile la realizzazione attraverso un meccanismo che esula dal codice legale per rientrare nel codice informatico. Di fronte alla minaccia rappresentata dalla digitalizzazione si sceglie di far si che “la macchina sia la risposta alla macchina”[6] e non più il tradizionale percorso della norma accompagnata dalla sanzione, che, dunque, sta al singolo scegliere di rispettare o meno, salvo andare incontro alle conseguenze legali del suo comportamento.

In questa sede non si approfondirà il tema dell’autotutela tecnologica e della sconfitta che essa rappresenta per l’ordinamento giuridico laddove si demanda al privato ciò che la comunità organizzata non è più in grado di garantire.

Al contrario, quella che si vuole operare è una riflessione sulle disastrose conseguenze scaturenti dall’approccio tendente a privilegiare da un lato la non producibilità della violazione della norma e dall’altro il venir meno dell’errore, inteso sia come non corretta interpretazione della realtà fenomenica che come ignoranza della stessa.

Quello che, a prima vista, parrebbe un effetto positivo è in realtà il sommo dei mali. Senza la possibilità di sbagliare viene meno finanche la possibilità di conoscere: è solo allorquando si trova davanti ai suoi errori che l’uomo acquisisce consapevolezza di sé.

Platone affermava che la possibilità dell’errore è intrinseca alla ricerca della verità e non si può negare senza che venga negata la verità stessa. Popper, riconoscendo che la possibilità dell’errore è intrinseca alla possibilità stessa della conoscenza, contrappone alla fallibilità il verificazionismo o falsificabilità come metodo che permette di confutare le affermazioni scientifiche mediante la loro falsificazione e successiva sottoposizione alla prova: se tali affermazioni resistono allora sono forse vere o più propriamente esatte[7].

L’importanza dell’errore sta, dunque, nell’essere la radice antropologica dell’apprendimento[8].

A ciò aggiungasi che la possibilità di tenere un comportamento contrario alla norma, la possibilità di errare consapevolmente rappresenta anche l’unico strumento grazie al quale è possibile verificare la percezione sociale della norma: solo così il legislatore può valutare se il sistema di valori incardinato in una legge è ancora presente nella comunità o se la stessa non lo percepisce più come proprio e tende, dunque, a rifiutarlo.

Come non ricordare, a tal proposito, le parole del Prof. Stefano Rodotà: “Il caso, nella terminologia giuridica, rappresenta la vicenda concreta, il problema da risolvere, l’occasione che consente di interrogare effettivamente l’ordinamento; e quest’ultimo, per manifestare la sua effettività, ha bisogno che quel caso si produca. E’ il caso che dà senso a una legge, che, altrimenti, rimarrebbe inconoscibile”[9].

Costruire un ordinamento giuridico che non possa essere interrogato, che una volta posto sia insuscettibile di verifica significa inevitabilmente costruire una società non libera ed incapace di progredire.

Di fronte, dunque, a scorciatoie tecnologiche, di fronte ad un ritorno all’autotutela, sia pur approntata dalla macchina e non dall’uomo, di fronte alla sostituzione del codice legale con quello informatico, occorre rispondere riaffermando l’importanza della fallibilità del diritto, senza la quale cesseremmo anche di interrogarci sul senso del nostro agire sociale.



[1] Questo articolo è pubblicato sotto licenza Creative Commons “Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia”, per maggiori dettagli sulla licenza è possibile consultare la seguente pagina web: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ L’articolo è apparso orginariamente su Il Nuovo Diritto. Rassegna Giuridica Pratica, n. 8-9-10/2007, nell’ambito della rubrica “Informatica Giuridica”

[2] Scrittore statunitense di fantascienza, nato a Chicago il 16 dicembre 1928 e morto a Santa Ana, il 2 marzo 1982. Maggiori informazioni sulla sua vita e sulle sue opere possono essere reperite alla seguente indrizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Philip_K._Dick

[3] La legislazione concernente le misure tecnologiche di protezione non è completamente nuova, ma solo di recente è stata implementata nelle legislazioni nazionali. Tanto la normativa statunitense quanto quella europea traggono la loro origine dall’art. 11 del Trattato WIPO sul diritto d’autore del 20 dicembre del 1996 che così recita: “Obblighi in materia di misure tecnologiche - Le Parti contraenti prevedono un’adeguata tutela giuridica e precostituiscono mezzi di ricorso efficaci contro l’elusione delle misure tecnologiche utilizzate dagli autori nell’esercizio dei diritti contemplati dal presente trattato o dalla Convenzione di Berna, allo scopo di impedire che vengano commessi, nei confronti delle loro opere, atti non autorizzati dagli autori stessi o vietati per legge”. Suddetta disposizione ha trovato recepimento all’interno dell’ordinamento giuridico statunitense con il Digital Millennium Copyright Act del 1998 e nell’ordinamento comunitario con la direttiva 2001/29/CE. Nell’ordinamento giuridico italiano la tutela delle misure tecnologiche di protezione è contenuta nell’art. 102-quater, l. 633/1941, introdotto dal D.lgs 68/2003 di recepimento della richiamata direttiva.

[4] Sul punto cfr., per una ricostruzione parzialmente diversa, G. Spedicato, I Digital Rights Management Systems tra produzione e diffusione di opere dell’ingegno. Quale nuovo assetto per il diritto d’autore?, in Ciberspazio e diritto, Mucchi, n. 3/2004, pagg. 273-302

[5] Cfr. Lessig, Code and other laws of cyberspace, New York, Basic Books, 1999, pag. 20

[6] Cfr. Clark, The answer to the machine is in the machine, in P. Bernt Hugenholtz (ed.), The Future of Copyright in a Digital Enviroment, The Hague; Kluwer Law International, p. 139. Contra cfr. Lundblad, Is the Answer to the Machine Really in the Machine? Technical copyright protection and file-sharing communities, reperibile al seguente indirizzo: http://www.skriver.nu/esociety/archives/ifip_2002_lundblad.PDF

[7] Sul punto Cfr. Sabetta, la presunzione dell’errore nell’evoluzione del diritto, in www.diritto.it, alla seguente pagina: http://www.diritto.it/art.php?file=/archivio/24566.html

[8] “….(l’errore) è funzionale all’esistenza umana, in quanto rappresenta i momenti necessari, e quindi utili, di un lungo cammino, di quel processo attraverso il quale ci si avvicina sempre più alla verità” Zollo G, Il valore dell’errore nel processo di apprendimento, reperibile al seguente indirizzo: http://www.edscuola.com/archivio/comprensivi/valore_errore.htm

[9] Rodotà S., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, pag. 140

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Partiamo da “Minority Report (Rapporto di Minoranza)”, il racconto di Philip K. Dick[2] in cui si descrive un ipotetico futuro in cui l’umanità ha eliminato gli omicidi e la maggior parte delle azioni criminali grazie all’uso dei Precog, esseri geneticamente mutati in grado di prevedere il futuro e di comunicarlo tramite apposite macchine alla Precrimine, una speciale divisione della polizia nata per arrestare i cittadini prima ancora che commettano un reato.

Nella realtà immaginata il connubio tra mutazioni genetiche ed informatica produce un mondo in cui si è in grado di punire l’intenzione senza che questa si concretizzi in azione: è il solo pensiero criminale oggetto di repressione in una logica preventiva portata alle estreme conseguenze.

La prevenzione, dunque, non come complesso di azioni atte ad impedire l’accadimento di un evento non desiderato, pur tuttavia sempre e comunque in grado di verificarsi, ma come anticipazione/esclusione dello stesso cosicché non possa in nessun caso avere luogo.

Senza attendere l’avvento dei “Precog” l’intersezione tra informatica e diritto sembra già oggi muoversi nella direzione sopra illustrata sia pure limitatamente (e per fortuna) a specifici settori, in primis quello del copyright, laddove la tutela giuridica delle misure tecnologiche di protezione[3] dell’opera segna il trasferimento all’interno del codice informatico dei principi fissati nella legge.

Si produce così uno spostamento dal piano della scelta, caratterizzante il diritto quale regno del libero arbitrio[4], in cui il rispetto della norma è frutto di una consapevole volizione, a quello dell’ineluttabilità, del non poter essere altrimenti, dell’impossibilità dell’infrazione, del codice informatico che si fa legge[5].

Prendiamo la formulazione dell’articolo 102-quater, comma I, della L. 633/1941 (c.d. Legge sul diritto d’autore), introdotto dal d.lgs 68/2003, in recepimento della direttiva comunitaria 2001/29/CE: “I titolari di diritti d’autore e di diritti connessi nonché del diritto di cui all’art. 102-bis, comma 3, possono apporre sulle opere o sui materiali protetti misure tecnologiche di protezione efficaci che comprendono tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che, nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a impedire o limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti”.

Evidente qui il tentativo di prevenire a tal punto la condotta considerata lesiva da renderne finanche impossibile la realizzazione attraverso un meccanismo che esula dal codice legale per rientrare nel codice informatico. Di fronte alla minaccia rappresentata dalla digitalizzazione si sceglie di far si che “la macchina sia la risposta alla macchina”[6] e non più il tradizionale percorso della norma accompagnata dalla sanzione, che, dunque, sta al singolo scegliere di rispettare o meno, salvo andare incontro alle conseguenze legali del suo comportamento.

In questa sede non si approfondirà il tema dell’autotutela tecnologica e della sconfitta che essa rappresenta per l’ordinamento giuridico laddove si demanda al privato ciò che la comunità organizzata non è più in grado di garantire.

Al contrario, quella che si vuole operare è una riflessione sulle disastrose conseguenze scaturenti dall’approccio tendente a privilegiare da un lato la non producibilità della violazione della norma e dall’altro il venir meno dell’errore, inteso sia come non corretta interpretazione della realtà fenomenica che come ignoranza della stessa.

Quello che, a prima vista, parrebbe un effetto positivo è in realtà il sommo dei mali. Senza la possibilità di sbagliare viene meno finanche la possibilità di conoscere: è solo allorquando si trova davanti ai suoi errori che l’uomo acquisisce consapevolezza di sé.

Platone affermava che la possibilità dell’errore è intrinseca alla ricerca della verità e non si può negare senza che venga negata la verità stessa. Popper, riconoscendo che la possibilità dell’errore è intrinseca alla possibilità stessa della conoscenza, contrappone alla fallibilità il verificazionismo o falsificabilità come metodo che permette di confutare le affermazioni scientifiche mediante la loro falsificazione e successiva sottoposizione alla prova: se tali affermazioni resistono allora sono forse vere o più propriamente esatte[7].

L’importanza dell’errore sta, dunque, nell’essere la radice antropologica dell’apprendimento[8].

A ciò aggiungasi che la possibilità di tenere un comportamento contrario alla norma, la possibilità di errare consapevolmente rappresenta anche l’unico strumento grazie al quale è possibile verificare la percezione sociale della norma: solo così il legislatore può valutare se il sistema di valori incardinato in una legge è ancora presente nella comunità o se la stessa non lo percepisce più come proprio e tende, dunque, a rifiutarlo.

Come non ricordare, a tal proposito, le parole del Prof. Stefano Rodotà: “Il caso, nella terminologia giuridica, rappresenta la vicenda concreta, il problema da risolvere, l’occasione che consente di interrogare effettivamente l’ordinamento; e quest’ultimo, per manifestare la sua effettività, ha bisogno che quel caso si produca. E’ il caso che dà senso a una legge, che, altrimenti, rimarrebbe inconoscibile”[9].

Costruire un ordinamento giuridico che non possa essere interrogato, che una volta posto sia insuscettibile di verifica significa inevitabilmente costruire una società non libera ed incapace di progredire.

Di fronte, dunque, a scorciatoie tecnologiche, di fronte ad un ritorno all’autotutela, sia pur approntata dalla macchina e non dall’uomo, di fronte alla sostituzione del codice legale con quello informatico, occorre rispondere riaffermando l’importanza della fallibilità del diritto, senza la quale cesseremmo anche di interrogarci sul senso del nostro agire sociale.



[1] Questo articolo è pubblicato sotto licenza Creative Commons “Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia”, per maggiori dettagli sulla licenza è possibile consultare la seguente pagina web: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ L’articolo è apparso orginariamente su Il Nuovo Diritto. Rassegna Giuridica Pratica, n. 8-9-10/2007, nell’ambito della rubrica “Informatica Giuridica”

[2] Scrittore statunitense di fantascienza, nato a Chicago il 16 dicembre 1928 e morto a Santa Ana, il 2 marzo 1982. Maggiori informazioni sulla sua vita e sulle sue opere possono essere reperite alla seguente indrizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Philip_K._Dick

[3] La legislazione concernente le misure tecnologiche di protezione non è completamente nuova, ma solo di recente è stata implementata nelle legislazioni nazionali. Tanto la normativa statunitense quanto quella europea traggono la loro origine dall’art. 11 del Trattato WIPO sul diritto d’autore del 20 dicembre del 1996 che così recita: “Obblighi in materia di misure tecnologiche - Le Parti contraenti prevedono un’adeguata tutela giuridica e precostituiscono mezzi di ricorso efficaci contro l’elusione delle misure tecnologiche utilizzate dagli autori nell’esercizio dei diritti contemplati dal presente trattato o dalla Convenzione di Berna, allo scopo di impedire che vengano commessi, nei confronti delle loro opere, atti non autorizzati dagli autori stessi o vietati per legge”. Suddetta disposizione ha trovato recepimento all’interno dell’ordinamento giuridico statunitense con il Digital Millennium Copyright Act del 1998 e nell’ordinamento comunitario con la direttiva 2001/29/CE. Nell’ordinamento giuridico italiano la tutela delle misure tecnologiche di protezione è contenuta nell’art. 102-quater, l. 633/1941, introdotto dal D.lgs 68/2003 di recepimento della richiamata direttiva.

[4] Sul punto cfr., per una ricostruzione parzialmente diversa, G. Spedicato, I Digital Rights Management Systems tra produzione e diffusione di opere dell’ingegno. Quale nuovo assetto per il diritto d’autore?, in Ciberspazio e diritto, Mucchi, n. 3/2004, pagg. 273-302

[5] Cfr. Lessig, Code and other laws of cyberspace, New York, Basic Books, 1999, pag. 20

[6] Cfr. Clark, The answer to the machine is in the machine, in P. Bernt Hugenholtz (ed.), The Future of Copyright in a Digital Enviroment, The Hague; Kluwer Law International, p. 139. Contra cfr. Lundblad, Is the Answer to the Machine Really in the Machine? Technical copyright protection and file-sharing communities, reperibile al seguente indirizzo: http://www.skriver.nu/esociety/archives/ifip_2002_lundblad.PDF

[7] Sul punto Cfr. Sabetta, la presunzione dell’errore nell’evoluzione del diritto, in www.diritto.it, alla seguente pagina: http://www.diritto.it/art.php?file=/archivio/24566.html

[8] “….(l’errore) è funzionale all’esistenza umana, in quanto rappresenta i momenti necessari, e quindi utili, di un lungo cammino, di quel processo attraverso il quale ci si avvicina sempre più alla verità” Zollo G, Il valore dell’errore nel processo di apprendimento, reperibile al seguente indirizzo: http://www.edscuola.com/archivio/comprensivi/valore_errore.htm

[9] Rodotà S., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, pag. 140