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L’opposizione agli atti esecutivi alla luce della Legge 14 maggio 2005 n.80 (e successive modifiche)

ABSTRACT

L’opposizione agli atti esecutivi costituisce un’istituto di garanzia di fondamentale importanza all’interno del processo esecutivo.

Non a caso, fin dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile del 1942, sono state numerose le discussioni dottrinali e giurisprudenziali relative ad alcuni aspetti di fondamentale importanza quali la natura, l’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire.

Nel corso della trattazione, pertanto, si cercherà in primo luogo di ricostruire i risultati a cui la giurisprudenza è giunta, e si presterà particolare attenzione alle importanti novità che sono state introdotte in materia di opposizione agli atti esecutivi dalle recente riforma del processo civile (legge 80/2005 e successive modifiche).

SOMMARIO:

1. L’opposizione agli atti esecutivi nell’impostazione originaria del legislatore del 1942.

2. L’opera giurisprudenziale di ricostruzione dell’opposizione agli atti esecutivi.

3. Opposizione agli atti esecutivi e controversie distributive.

4. Il procedimento: l’udienza dinanzi al giudice dell’esecuzione ex articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile.

5. I provvedimenti opportuni ed indilazionabili: la sospensione.

6. Lo svolgimento del processo di opposizione agli atti esecutivi.

1. L’opposizione agli atti esecutivi nell’impostazione originaria del legislatore del 1942.

Il Codice di procedura civile del 1940 dedica al tema delle Opposizioni nel processo esecutivo l’intero Titolo V del libro III, al cui interno si rinviene una distinzione tra opposizione all’esecuzione (articolo 615), opposizione agli atti esecutivi (articolo 617) e opposizione di terzo all’esecuzione (articolo 619).

Limitatamente all’espropriazione forzata, poi, il codice di procedura civile disciplina una particolare forma di opposizione c.d. distributiva (articoli 511, 2° comma e 512), diretta a risolvere le contestazioni che possono sorgere nella fase di distribuzione del ricavato.

Tradizionalmente si afferma che l’opposizione agli atti esecutivi costituisce lo strumento attraverso il quale controllare il corretto svolgimento del processo di esecuzione (il cosiddetto quomodo), mentre l’opposizione all’esecuzione e l’opposizione di terzo costituiscono opposizioni di merito, dirette, cioè, a contestare la legittimità dell’esecuzione (l’an).

Peraltro, nell’impostazione originaria del legislatore del 1940, l’opposizione agli atti esecutivi avrebbe dovuto consentire un controllo limitato alla mera regolarità formale della procedura, da effettuarsi in un giudizio in unico grado definito con sentenza non impugnabile.

Ciò lo si ricava non solo dalla lettera dell’articolo 617 del codice di procedura civile, nel quale si dispone che l’opposizione si rivolge “alla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto” e “alla notificazione del titolo esecutivo e del precetto e ai singoli atti di esecuzione”; ma anche e soprattutto dal sottofondo ideologico che ha accompagnato la redazione della nuova disciplina del procedimento esecutivo: la volontà del legislatore era quella di isolare la fase esecutiva dalle forme e dai problemi di natura cognitiva; questi, infatti, si presumevano risolti in via pregiudiziale dal titolo esecutivo, per questo nella fase di esecuzione, diretta unicamente ad attuare un diritto già accertato, l’elemento centrale è costituito dal rispetto delle forme imposte dalla legge al creditore procedente e al giudice.

In realtà il disegno del legislatore non trovò mai una concreta attuazione, poiché la dottrina offrì immediatamente una lettura estensiva dell’istituto: si affermò, infatti, che l’opposizione agli atti esecutivi fosse esperibile non solo dal debitore o dal terzo assoggettato alla procedura esecutiva, ma anche dai creditori e dai terzi verso i quali è stato posto in essere un atto esecutivo, e che il suo oggetto riguardasse non solo la regolarità formale dell’atto esecutivo, come lasciava, invece, intendere la lettera della norma, ma anche l’opportunità e la congruenza dello stesso.

2. L’opera giurisprudenziale di ricostruzione dell’opposizione agli atti esecutivi.

La questione non tardò a porsi all’attenzione della giurisprudenza, che agli inizi degli anni ’50 fissò quei caratteri fondamentali dell’opposizione agli atti esecutivi che ancora oggi sono generalmente ritenuti dei punti fermi in materia.

Un primo passo è costituito dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione civile, del 29 febbraio 1952 n. 558, che, rilevando come il secondo e il terzo comma dell’art. 618 del codice di procedura civile dovessero essere considerati abrogati per incompatibilità con l’art. 111, 2° (oggi 7°) comma della Costituzione, ammise la possibilità di esercitare il ricorso straordinario avverso la sentenza con la quale il giudice si pronuncia sull’opposizione agli atti esecutivi.

Di poco successiva è la sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha compiuto una vera e propria ricostruzione dell’opposizione agli atti esecutivi, aderendo sostanzialmente agli spunti messi in luce dalla precedente dottrina ed ampliandone, pertanto, l’ambito di operatività.

Nell’ipotesi in questione erano in discussione tutti i principali aspetti dell’istituto poiché si trattava di stabilire quali fossero i soggetti legittimati ad esercitare l’opposizione agli atti esecutivi, verso quali atti l’opposizione potesse essere rivolta e quali motivi potessero fondarla; si trattava, in particolare, di scegliere se aderire ad una lettura restrittiva della norma, configurando l’opposizione agli atti esecutivi come uno strumento di controllo della mera regolarità formale del processo esecutivo, esperibile unicamente dal soggetto che subisce la procedura stessa; ovvero riconoscere all’opposizione agli atti esecutivi la veste di rimedio generale interno al procedimento esecutivo, riconosciuto anche a soggetti diversi dal debitore e dal terzo assoggettato ad esecuzione, e al quale ricorrere per denunciare non solo le irregolarità formali, ma anche l’incongruenza e l’inopportunità degli atti del giudice e delle parti.

Su tutti questi aspetti la sentenza n. 3005 del 1953 della Cassazione civile si pronuncia in modo chiaro, rilevando, da un lato, che tutti i provvedimenti del giudice dell’esecuzione debbano essere considerati soggetti al rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi, salvo che la legge non preveda espressamente il contrario; dall’altro, che la legittimazione ad agire spetta non solo all’esecutato, ma a tutte le parti, nel momento in cui si lamenti un’irregolarità formale o un vizio sostanziale dell’atto; infine, relativamente ai motivi dell’opposizione accanto all’ipotesi dell’irregolarità formale, si limita a citare quella del vizio sostanziale di un atto.

Quest’ultimo è sicuramente il punto meno approfondito dalla Cassazione nella sentenza 3005/53, anche se in successive pronunce (Cassazione 19 gennaio 1965 n. 102 e Cassazione 19 agosto 1971 n. 2566). è stato messo in luce come, mentre con riferimento al titolo esecutivo e al precetto l’art. 617, 1° comma, del codice di procedura civile parla di “irregolarità”, per gli altri atti del procedimento esecutivo non è indicato alcun motivo specifico che legittimerebbe l’esercizio dell’opposizione agli atti; ragion per cui se ne è dedotto che con l’opposizione agli atti esecutivi può essere contestato qualsiasi vizio dell’atto.

Volendo, quindi, ricapitolare i caratteri dell’istituto in esame, fissati dalla giurisprudenza nel biennio 1953-1954, si può dire che:

• la legittimazione attiva spetta, non solo al debitore e al terzo assoggettato ad esecuzione, ma ad ogni soggetto che partecipi al procedimento esecutivo verso il quale sia rivolto un atto del giudice o di parte;

• motivo dell’opposizione non è solo la irregolarità formale dell’atto, e quindi la sua difformità dal modello legislativo, ma anche la violazione di norme processuali e sostanziali da parte del giudice dell’esecuzione;

• tutti i provvedimenti del giudice dell’esecuzione sono opponibili ex articolo 617 codice di procedura civile;

• la sentenza con la quale il giudice si pronuncia sull’opposizione agli atti esecutivi è soggetta a ricorso in Cassazione ex art. 111, 7°comma della Costituzione.

Così caratterizzata l’opposizione agli atti esecutivi, ancora oggi, costituisce un fondamentale mezzo di tutela per tutti i soggetti che operano all’interno del processo di esecuzione, al punto che, con riferimento all’esecuzione esattoriale, non sono rari i dubbi di incostituzionalità nella parte in cui sono escluse, senza alcuna limitazione, le opposizioni agli atti esecutivi.

In questo modo, infatti, il debitore e gli altri soggetti interessati risultano privati di ogni rimedio contro le ordinanze del giudice dell’esecuzione esattoriale che siano processualmente illegittime, e pertanto sono lasciate completamente sfornite di tutela giudiziaria le situazioni soggettive sulle quali il provvedimento esplica i suoi effetti, in violazione dell’art. 24, 1° comma, della Costituzione.

3. Opposizione agli atti esecutivi e controversie distributive.

Una prima importante novità che ha riguardato l’opposizione agli esecutivi in seguito alla riforma del processo civile apportata con la legge 14 maggio 2005 n. 80 (e successive modifiche), consiste nell’aver individuato in tale istituto il mezzo di impugnazione dell’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione si pronuncia in sede di controversie distributive.

Con la riforma, infatti, il legislatore ha attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di decidere le controversie distributive sulla base di un’indagine sommaria, rispetto alla quale la cognizione ordinaria, realizzata nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi, è soltanto eventuale.

Questa disciplina differisce notevolmente da quanto previsto dal vecchio articolo 512 del codice di procedura civile, in base al quale le contestazioni tra creditori concorrenti o tra creditore e soggetto esecutato circa la sussistenza, l’ammontare del credito ovvero l’esistenza di diritti di prelazione davano necessariamente luogo ad un giudizio di cognizione, destinato a svolgersi nelle forme del rito ordinario ed a concludersi con sentenza appellabile.

Questa nuova scelta legislativa impone alcune importanti considerazioni.

Si deve ritenere, infatti, codificato l’ampliamento delle questioni prospettabili attraverso l’opposizione agli atti esecutivi, che, in questo modo, diventa uno strumento destinato non solo al controllo sulla regolarità formale degli atti del processo esecutivo, ma anche all’esame del contenuto dei diritti vantati dalle parti nell’ambito dell’ambito della procedura esecutiva.

Al tempo stesso, risulta criticabile che la riforma, volta al perseguimento di un obiettivo di semplificazione delle forme, si sia spinta sino al punto di prevedere un unico grado di giudizio per la fase cognitiva delle controversie distributive: la sentenza conclusiva dell’opposizione agli atti esecutivi - come previsto dall’art. 618 del codice di procedura civile – non è impugnabile (fermo restando l’esperibilità del ricorso in Cassazione ex art. 111, 7° comma, della Costituzione).

Tuttavia, mentre l’unico grado di giudizio per i procedimenti di opposizione agli atti esecutivi è giustificato dal fatto che il giudice della cognizione normalmente affronta questioni attinenti la legittimità e l’opportunità di un atto del processo, tale giustificazione viene meno in sede di controversia distributiva, dove il giudice di cognizione è chiamato a pronunciarsi sulla sostanza del diritto vantato dalle parti.

4. Il procedimento: l’udienza dinanzi al giudice dell’esecuzione ex articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile.

Il legislatore della riforma ha, poi, modificato profondamente l’aspetto procedimentale dell’opposizione agli atti esecutivi.

In primo luogo va detto che è stato elevato da cinque a venti giorni il termine perentorio di cui all’articolo 617 del codice di procedura civile entro il quale proporre l’opposizione agli atti.

Si tratta di un’innovazione molto importante, poiché spesso, nella prassi, il vecchio termine di cinque giorni era risultato eccessivamente ristretto per un efficace esercizio del diritto di azione delle parti del processo esecutivo.

Bisogna ricordare, infatti, che l’inosservanza di tale termine comporta l’inammissibilità dell’opposizione proposta, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità proposta nel corso del processo di esecuzione (vedi Cassazione 20 febbraio 2004 n. 3404; Cassazione 1 marzo 1994 n. 2024).

Le novità più importanti, tuttavia, riguardano la nuova disciplina dettata con riguardo all’opposizione agli atti esecutivi proposta nel corso dell’esecuzione.

Innanzitutto l’articolo 618 del codice di procedura civile prevede che il giudice, in seguito al deposito del ricorso, fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti di fronte a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto.

Tale udienza, ai sensi del nuovo articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile, si svolge oggi secondo le forme del procedimento camerale di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.

Su questo punto possono già effettuarsi alcune considerazioni critiche, che traggono spunto dall’evidente incompatibilità tra le disposizioni sul procedimento camerale e la natura e la funzione dell’udienza di comparizione innanzi al giudice dell’esecuzione: basti pensare alle norme relative al collegio e all’audizione del pubblico ministero, ex art. 738, 1° e 2° comma, del codice di procedura civile; ovvero alla disciplina del decreto emesso a definizione del procedimento in camera di consiglio, ex articolo 739 del codice di procedura civile.

Si può, quindi, ritenere che il richiamo operato dall’articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura ha come unici e modesti risultati di imporre una cognizione sommaria, ex articolo 738, 3° comma, del codice di procedura civile per cui il giudice può assumere sommarie informazioni; è poi possibile affermare che all’udienza di cui si tratta si debba applicare il principio del contraddittorio, come la Cassazione ha più volte sostenuto (tra le tante si può fare riferimento alla pronuncia del 7 febbraio 1996 n. 986) in materia di procedimenti camerali.

Da quanto detto, quindi, emege che un legislatore più consapevole della materia che trattava, se proprio voleva modificare l’articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile, avrebbe più opportunamente richiamato l’articolo 669-sexies, in materia di procedimento cautelare.

5. I provvedimenti opportuni ed indilazionabili: la sospensione.

L’articolo 618 del codice di procedura civile prevede, poi, che il giudice dell’esecuzione possa, nei casi urgenti, adottare, col decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, i provvedimenti ritenuti opportuni e, nel corso dell’udienza stessa, pronunciare i provvedimenti indilazionabili.

Bisogna, peraltro, dire che tra i provvedimenti indilazionabili che possono essere adottati in udienza rientra oggi espressamente la sospensione del processo esecutivo.

A questo punto va detto, tuttavia, che suscita molte perplessità la nuova disciplina in materia di sospensione prevista all’articolo 624 del codice di procedura civile.

Dalla norma si ricava, in primo luogo, che il legislatore ha voluto assimilare il provvedimento sulla sospensione ai c.d. provvedimenti cautelari anticipatori: ciò si riscontra non solo dalla regola della reclamabilità del provvedimento ai sensi dell’articolo 669-terdecies del codice processuale civile, ma anche dal fatto che al provvedimento sulla sospensione possa seguire la conclusione del procedimento esecutivo.

Quest’ultima conseguenza la si ricava dal nuovo 3° comma dell’articolo 624 del codice di procedura civile: tale norma prevede, infatti, che l’opponente che abbia ottenuto la sospensione (non reclamata, ovvero disposta o confermata in sede di reclamo) può scegliere tra l’instaurazione del giudizio di merito e la richiesta al giudice di pronunciare l’estinzione del pignoramento con ordinanza non impugnabile, previa eventuale cauzione e con salvezza degli atti compiuti.

Una prima osservazione può essere fatta considerando come in una disposizione collocata in parte generale si faccia riferimento al pignoramento, ignorando i processi esecutivi diversi dall’espropriazione forzata.

Ma soprattutto la norma appare criticabile per i gravissimi esiti che può condurre: la sospensione, infatti, da una semplice stasi del processo esecutivo si trasforma in qualcosa di molto più dirompente, come la cancellazione del pignoramento, seguita da tutti i suoi effetti conservativi.

A tutto ciò si aggiunga che il creditore procedente non ha alcuno strumento per far controllare o revocare la dichiarazione di estinzione, che, come detto, è pronunciata con “ordinanza non impugnabile”.

Non è chiaro, poi, come il debitore possa effettuare la scelta tra instaurazione del procedimento di merito e richiesta di estinzione: in particolare la norma non fissa alcun termine per effettuare tale scelta.

E’ pur vero che si può ritenere che la parte dovrà provvedere entro il termine previsto per l’instaurazione del procedimento di opposizione, poiché in mancanza la stessa opposizione si estinguerebbe, potendosi in questo caso riattivare la procedura esecutiva; ma è grave allora che lo stesso termine debba attribuirsi al creditore per esercitare la facoltà, prevista dal 3° comma dell’articolo 624 del codice processuale civile, di promuovere il processo dopo l’istanza di estinzione del pignoramento depositata dall’opponente e accolta dal giudice.

Tale unica possibilità rischia, infatti, di morire sul nascere, visto che l’opponente potrebbe depositare l’istanza di estinzione poco prima dello spirare del termine, impedendo, in questo modo, che il creditore, una volta venutone a conoscenza, possa essere effettivamente ancora in grado di introdurre il processo di cognizione.

Peraltro la norma non prevede né che l’istanza di estinzione debba essere portata a conoscenza del creditore, né che il giudice debba fissare un’udienza apposita.

Per tutti questi motivi si realizza una violazione molto grave del diritto di difesa del creditore procedente, in virtù della quale è lecito dubitare della legittimità costituzionale di tale disciplina, che consente al debitore, attraverso un meccanismo processuale, di diminuire la garanzia patrimoniale dei crediti, costituita dai beni del debitore ex articolo 2740 del codice civile.

Infine va ricordato l’ultimo periodo del nuovo 3° comma dell’articolo 624 del codice di procedura civile, in cui si prevede che l’autorità dell’ordinanza di estinzione pronunciata ai sensi dello stesso comma non è invocabile in un altro processo.

Si tratta, evidentemente, di una norma di difficile interpretazione e applicazione.

Non è chiaro, infatti, che efficacia potrebbe avere l’ordinanza di estinzione del pignoramento in un altro processo, né in che senso la norma parli di “autorità” in relazione ad un’ordinanza che non decide sull’esistenza di un diritto, ma semplicemente cancella il pignoramento.

Forse il legislatore ha pensato al caso di un nuovo processo espropriativo e di una opposizione instaurata in tale sede.

Tuttavia in questo ambito non ha alcun rilievo l’estinzione del primo pignoramento, che non pregiudica la possibilità di compiere un nuovo pignoramento.

6. Lo svolgimento del processo di opposizione agli atti esecutivi.

Il legislatore della riforma sembra, poi, aver accolto l’orientamento prevalente della Cassazione (molto importante al riguardo è pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite del 21 luglio 1998 n. 7128), affermatosi in presenza della disciplina previgente, secondo il quale il giudizio di opposizione agli atti esecutivi, proposta successivamente all’inizio dell’esecuzione, presentava una divisione in due fasi: la prima, di competenza del giudice dell’esecuzione, volta all’adozione di un eventuale provvedimento di sospensione, all’individuazione del giudice competente per il merito e alla fissazione del termine per l’instaurazione del giudizio di merito; la seconda, di competenza del giudice dell’opposizione, consistente in un ordinario giudizio di cognizione.

L’attuale testo dell’articolo 618 del codice di procedura civile adotta, infatti, una decisa scansione tra queste due fasi del procedimento: una volta conclusa la prima fase con l’accoglimento o il rigetto dell’istanza di sospensione si instaura dinanzi al giudice competente (individuato dallo stesso giudice dell’esecuzione) il “giudizio di merito”, disciplinato secondo le norme del processo di cognizione ordinario.

Dunque, se si tratterà di una controversia soggetta al rito ordinario, dovrà osservarsi quanto disposto dall’articolo 163 del codice di procedura civile, per cui dovrà notificarsi un atto di citazione, nel quale sarà anche fissata l’udienza di comparizione e trattazione ex articolo 183 del codice di procedura civile, nel rispetto dei termini a comparire stabiliti dall’articolo 163-bis del codice di procedura civile, o altri, se previsti, ridotti della metà, (così come oggi previsto dall’articolo 618 del codice di procedura civile)

Qualora, invece, alla lite si deve applicare un rito speciale di cognizione (ex articolo 618-bis codice di procedura civile) l’instaurazione avverrà con ricorso, da depositare in cancelleria, e successiva notifica di copia dello stesso e del decreto del giudice di fissazione dell’udienza.

Peraltro va precisato che, anche se nella nuova disciplina si parla di “introduzione del giudizio di merito” deve ritenersi che gli effetti processuali e sostanziali della domanda (in primis la litispendenza) si producono dal deposito del ricorso davanti al giudice dell’esecuzione, e non dalla successiva notificazione dell’atto di citazione (o deposito del ricorso).

Va poi detto che lo stesso articolo 618 del codice di procedura civile prevede che l’instaurazione del giudizio di cognizione deve avvenire entro il termine perentorio fissato dal giudice e tuttavia il legislatore non ha stabilito alcuna sanzione per il caso di mancato rispetto del termine stesso.

Ragionando in via analogica, potrebbe applicarsi l’art. 307, 3° comma, codice di procedura civile che prevede l’estinzione del procedimento, qualora le parti non provvedano alla riassunzione o prosecuzione del giudizio entro il termine stabilito dalla legge o dal giudice.

Un’altra soluzione potrebbe essere fornita dal 1° comma, dello stesso articolo, che, nel caso di inattività delle parti che non si siano costituite, dispone che il processo resta quiescente per un anno, per poi estinguersi se nessuna delle parti lo riassume.

Quest’ultima tesi potrebbe trovare fondamento nel fatto che l’articolo 618 del codice di procedura civile parla di iscrizione a ruolo; tuttavia è preferibile fornire un’interpretazione che tiene conto del principio di ragionevole durata del processo, ex articolo 111 della Costituzione, e quindi propendere per la prima soluzione.

Risulta, infine, contraddittoria la disposizione secondo la quale l’iscrizione a ruolo deve essere “previa” rispetto all’instaurazione del giudizio.

Normalmente, infatti, nel caso della citazione la causa deve essere iscritta entro i dieci giorni successivi alla notificazione; nel caso dei processi instaurati con ricorso, invece, l’iscrizione è contestuale al deposito in cancelleria.

ABSTRACT

L’opposizione agli atti esecutivi costituisce un’istituto di garanzia di fondamentale importanza all’interno del processo esecutivo.

Non a caso, fin dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile del 1942, sono state numerose le discussioni dottrinali e giurisprudenziali relative ad alcuni aspetti di fondamentale importanza quali la natura, l’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire.

Nel corso della trattazione, pertanto, si cercherà in primo luogo di ricostruire i risultati a cui la giurisprudenza è giunta, e si presterà particolare attenzione alle importanti novità che sono state introdotte in materia di opposizione agli atti esecutivi dalle recente riforma del processo civile (legge 80/2005 e successive modifiche).

SOMMARIO:

1. L’opposizione agli atti esecutivi nell’impostazione originaria del legislatore del 1942.

2. L’opera giurisprudenziale di ricostruzione dell’opposizione agli atti esecutivi.

3. Opposizione agli atti esecutivi e controversie distributive.

4. Il procedimento: l’udienza dinanzi al giudice dell’esecuzione ex articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile.

5. I provvedimenti opportuni ed indilazionabili: la sospensione.

6. Lo svolgimento del processo di opposizione agli atti esecutivi.

1. L’opposizione agli atti esecutivi nell’impostazione originaria del legislatore del 1942.

Il Codice di procedura civile del 1940 dedica al tema delle Opposizioni nel processo esecutivo l’intero Titolo V del libro III, al cui interno si rinviene una distinzione tra opposizione all’esecuzione (articolo 615), opposizione agli atti esecutivi (articolo 617) e opposizione di terzo all’esecuzione (articolo 619).

Limitatamente all’espropriazione forzata, poi, il codice di procedura civile disciplina una particolare forma di opposizione c.d. distributiva (articoli 511, 2° comma e 512), diretta a risolvere le contestazioni che possono sorgere nella fase di distribuzione del ricavato.

Tradizionalmente si afferma che l’opposizione agli atti esecutivi costituisce lo strumento attraverso il quale controllare il corretto svolgimento del processo di esecuzione (il cosiddetto quomodo), mentre l’opposizione all’esecuzione e l’opposizione di terzo costituiscono opposizioni di merito, dirette, cioè, a contestare la legittimità dell’esecuzione (l’an).

Peraltro, nell’impostazione originaria del legislatore del 1940, l’opposizione agli atti esecutivi avrebbe dovuto consentire un controllo limitato alla mera regolarità formale della procedura, da effettuarsi in un giudizio in unico grado definito con sentenza non impugnabile.

Ciò lo si ricava non solo dalla lettera dell’articolo 617 del codice di procedura civile, nel quale si dispone che l’opposizione si rivolge “alla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto” e “alla notificazione del titolo esecutivo e del precetto e ai singoli atti di esecuzione”; ma anche e soprattutto dal sottofondo ideologico che ha accompagnato la redazione della nuova disciplina del procedimento esecutivo: la volontà del legislatore era quella di isolare la fase esecutiva dalle forme e dai problemi di natura cognitiva; questi, infatti, si presumevano risolti in via pregiudiziale dal titolo esecutivo, per questo nella fase di esecuzione, diretta unicamente ad attuare un diritto già accertato, l’elemento centrale è costituito dal rispetto delle forme imposte dalla legge al creditore procedente e al giudice.

In realtà il disegno del legislatore non trovò mai una concreta attuazione, poiché la dottrina offrì immediatamente una lettura estensiva dell’istituto: si affermò, infatti, che l’opposizione agli atti esecutivi fosse esperibile non solo dal debitore o dal terzo assoggettato alla procedura esecutiva, ma anche dai creditori e dai terzi verso i quali è stato posto in essere un atto esecutivo, e che il suo oggetto riguardasse non solo la regolarità formale dell’atto esecutivo, come lasciava, invece, intendere la lettera della norma, ma anche l’opportunità e la congruenza dello stesso.

2. L’opera giurisprudenziale di ricostruzione dell’opposizione agli atti esecutivi.

La questione non tardò a porsi all’attenzione della giurisprudenza, che agli inizi degli anni ’50 fissò quei caratteri fondamentali dell’opposizione agli atti esecutivi che ancora oggi sono generalmente ritenuti dei punti fermi in materia.

Un primo passo è costituito dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione civile, del 29 febbraio 1952 n. 558, che, rilevando come il secondo e il terzo comma dell’art. 618 del codice di procedura civile dovessero essere considerati abrogati per incompatibilità con l’art. 111, 2° (oggi 7°) comma della Costituzione, ammise la possibilità di esercitare il ricorso straordinario avverso la sentenza con la quale il giudice si pronuncia sull’opposizione agli atti esecutivi.

Di poco successiva è la sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha compiuto una vera e propria ricostruzione dell’opposizione agli atti esecutivi, aderendo sostanzialmente agli spunti messi in luce dalla precedente dottrina ed ampliandone, pertanto, l’ambito di operatività.

Nell’ipotesi in questione erano in discussione tutti i principali aspetti dell’istituto poiché si trattava di stabilire quali fossero i soggetti legittimati ad esercitare l’opposizione agli atti esecutivi, verso quali atti l’opposizione potesse essere rivolta e quali motivi potessero fondarla; si trattava, in particolare, di scegliere se aderire ad una lettura restrittiva della norma, configurando l’opposizione agli atti esecutivi come uno strumento di controllo della mera regolarità formale del processo esecutivo, esperibile unicamente dal soggetto che subisce la procedura stessa; ovvero riconoscere all’opposizione agli atti esecutivi la veste di rimedio generale interno al procedimento esecutivo, riconosciuto anche a soggetti diversi dal debitore e dal terzo assoggettato ad esecuzione, e al quale ricorrere per denunciare non solo le irregolarità formali, ma anche l’incongruenza e l’inopportunità degli atti del giudice e delle parti.

Su tutti questi aspetti la sentenza n. 3005 del 1953 della Cassazione civile si pronuncia in modo chiaro, rilevando, da un lato, che tutti i provvedimenti del giudice dell’esecuzione debbano essere considerati soggetti al rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi, salvo che la legge non preveda espressamente il contrario; dall’altro, che la legittimazione ad agire spetta non solo all’esecutato, ma a tutte le parti, nel momento in cui si lamenti un’irregolarità formale o un vizio sostanziale dell’atto; infine, relativamente ai motivi dell’opposizione accanto all’ipotesi dell’irregolarità formale, si limita a citare quella del vizio sostanziale di un atto.

Quest’ultimo è sicuramente il punto meno approfondito dalla Cassazione nella sentenza 3005/53, anche se in successive pronunce (Cassazione 19 gennaio 1965 n. 102 e Cassazione 19 agosto 1971 n. 2566). è stato messo in luce come, mentre con riferimento al titolo esecutivo e al precetto l’art. 617, 1° comma, del codice di procedura civile parla di “irregolarità”, per gli altri atti del procedimento esecutivo non è indicato alcun motivo specifico che legittimerebbe l’esercizio dell’opposizione agli atti; ragion per cui se ne è dedotto che con l’opposizione agli atti esecutivi può essere contestato qualsiasi vizio dell’atto.

Volendo, quindi, ricapitolare i caratteri dell’istituto in esame, fissati dalla giurisprudenza nel biennio 1953-1954, si può dire che:

• la legittimazione attiva spetta, non solo al debitore e al terzo assoggettato ad esecuzione, ma ad ogni soggetto che partecipi al procedimento esecutivo verso il quale sia rivolto un atto del giudice o di parte;

• motivo dell’opposizione non è solo la irregolarità formale dell’atto, e quindi la sua difformità dal modello legislativo, ma anche la violazione di norme processuali e sostanziali da parte del giudice dell’esecuzione;

• tutti i provvedimenti del giudice dell’esecuzione sono opponibili ex articolo 617 codice di procedura civile;

• la sentenza con la quale il giudice si pronuncia sull’opposizione agli atti esecutivi è soggetta a ricorso in Cassazione ex art. 111, 7°comma della Costituzione.

Così caratterizzata l’opposizione agli atti esecutivi, ancora oggi, costituisce un fondamentale mezzo di tutela per tutti i soggetti che operano all’interno del processo di esecuzione, al punto che, con riferimento all’esecuzione esattoriale, non sono rari i dubbi di incostituzionalità nella parte in cui sono escluse, senza alcuna limitazione, le opposizioni agli atti esecutivi.

In questo modo, infatti, il debitore e gli altri soggetti interessati risultano privati di ogni rimedio contro le ordinanze del giudice dell’esecuzione esattoriale che siano processualmente illegittime, e pertanto sono lasciate completamente sfornite di tutela giudiziaria le situazioni soggettive sulle quali il provvedimento esplica i suoi effetti, in violazione dell’art. 24, 1° comma, della Costituzione.

3. Opposizione agli atti esecutivi e controversie distributive.

Una prima importante novità che ha riguardato l’opposizione agli esecutivi in seguito alla riforma del processo civile apportata con la legge 14 maggio 2005 n. 80 (e successive modifiche), consiste nell’aver individuato in tale istituto il mezzo di impugnazione dell’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione si pronuncia in sede di controversie distributive.

Con la riforma, infatti, il legislatore ha attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di decidere le controversie distributive sulla base di un’indagine sommaria, rispetto alla quale la cognizione ordinaria, realizzata nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi, è soltanto eventuale.

Questa disciplina differisce notevolmente da quanto previsto dal vecchio articolo 512 del codice di procedura civile, in base al quale le contestazioni tra creditori concorrenti o tra creditore e soggetto esecutato circa la sussistenza, l’ammontare del credito ovvero l’esistenza di diritti di prelazione davano necessariamente luogo ad un giudizio di cognizione, destinato a svolgersi nelle forme del rito ordinario ed a concludersi con sentenza appellabile.

Questa nuova scelta legislativa impone alcune importanti considerazioni.

Si deve ritenere, infatti, codificato l’ampliamento delle questioni prospettabili attraverso l’opposizione agli atti esecutivi, che, in questo modo, diventa uno strumento destinato non solo al controllo sulla regolarità formale degli atti del processo esecutivo, ma anche all’esame del contenuto dei diritti vantati dalle parti nell’ambito dell’ambito della procedura esecutiva.

Al tempo stesso, risulta criticabile che la riforma, volta al perseguimento di un obiettivo di semplificazione delle forme, si sia spinta sino al punto di prevedere un unico grado di giudizio per la fase cognitiva delle controversie distributive: la sentenza conclusiva dell’opposizione agli atti esecutivi - come previsto dall’art. 618 del codice di procedura civile – non è impugnabile (fermo restando l’esperibilità del ricorso in Cassazione ex art. 111, 7° comma, della Costituzione).

Tuttavia, mentre l’unico grado di giudizio per i procedimenti di opposizione agli atti esecutivi è giustificato dal fatto che il giudice della cognizione normalmente affronta questioni attinenti la legittimità e l’opportunità di un atto del processo, tale giustificazione viene meno in sede di controversia distributiva, dove il giudice di cognizione è chiamato a pronunciarsi sulla sostanza del diritto vantato dalle parti.

4. Il procedimento: l’udienza dinanzi al giudice dell’esecuzione ex articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile.

Il legislatore della riforma ha, poi, modificato profondamente l’aspetto procedimentale dell’opposizione agli atti esecutivi.

In primo luogo va detto che è stato elevato da cinque a venti giorni il termine perentorio di cui all’articolo 617 del codice di procedura civile entro il quale proporre l’opposizione agli atti.

Si tratta di un’innovazione molto importante, poiché spesso, nella prassi, il vecchio termine di cinque giorni era risultato eccessivamente ristretto per un efficace esercizio del diritto di azione delle parti del processo esecutivo.

Bisogna ricordare, infatti, che l’inosservanza di tale termine comporta l’inammissibilità dell’opposizione proposta, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità proposta nel corso del processo di esecuzione (vedi Cassazione 20 febbraio 2004 n. 3404; Cassazione 1 marzo 1994 n. 2024).

Le novità più importanti, tuttavia, riguardano la nuova disciplina dettata con riguardo all’opposizione agli atti esecutivi proposta nel corso dell’esecuzione.

Innanzitutto l’articolo 618 del codice di procedura civile prevede che il giudice, in seguito al deposito del ricorso, fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti di fronte a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto.

Tale udienza, ai sensi del nuovo articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile, si svolge oggi secondo le forme del procedimento camerale di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.

Su questo punto possono già effettuarsi alcune considerazioni critiche, che traggono spunto dall’evidente incompatibilità tra le disposizioni sul procedimento camerale e la natura e la funzione dell’udienza di comparizione innanzi al giudice dell’esecuzione: basti pensare alle norme relative al collegio e all’audizione del pubblico ministero, ex art. 738, 1° e 2° comma, del codice di procedura civile; ovvero alla disciplina del decreto emesso a definizione del procedimento in camera di consiglio, ex articolo 739 del codice di procedura civile.

Si può, quindi, ritenere che il richiamo operato dall’articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura ha come unici e modesti risultati di imporre una cognizione sommaria, ex articolo 738, 3° comma, del codice di procedura civile per cui il giudice può assumere sommarie informazioni; è poi possibile affermare che all’udienza di cui si tratta si debba applicare il principio del contraddittorio, come la Cassazione ha più volte sostenuto (tra le tante si può fare riferimento alla pronuncia del 7 febbraio 1996 n. 986) in materia di procedimenti camerali.

Da quanto detto, quindi, emege che un legislatore più consapevole della materia che trattava, se proprio voleva modificare l’articolo 185 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile, avrebbe più opportunamente richiamato l’articolo 669-sexies, in materia di procedimento cautelare.

5. I provvedimenti opportuni ed indilazionabili: la sospensione.

L’articolo 618 del codice di procedura civile prevede, poi, che il giudice dell’esecuzione possa, nei casi urgenti, adottare, col decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, i provvedimenti ritenuti opportuni e, nel corso dell’udienza stessa, pronunciare i provvedimenti indilazionabili.

Bisogna, peraltro, dire che tra i provvedimenti indilazionabili che possono essere adottati in udienza rientra oggi espressamente la sospensione del processo esecutivo.

A questo punto va detto, tuttavia, che suscita molte perplessità la nuova disciplina in materia di sospensione prevista all’articolo 624 del codice di procedura civile.

Dalla norma si ricava, in primo luogo, che il legislatore ha voluto assimilare il provvedimento sulla sospensione ai c.d. provvedimenti cautelari anticipatori: ciò si riscontra non solo dalla regola della reclamabilità del provvedimento ai sensi dell’articolo 669-terdecies del codice processuale civile, ma anche dal fatto che al provvedimento sulla sospensione possa seguire la conclusione del procedimento esecutivo.

Quest’ultima conseguenza la si ricava dal nuovo 3° comma dell’articolo 624 del codice di procedura civile: tale norma prevede, infatti, che l’opponente che abbia ottenuto la sospensione (non reclamata, ovvero disposta o confermata in sede di reclamo) può scegliere tra l’instaurazione del giudizio di merito e la richiesta al giudice di pronunciare l’estinzione del pignoramento con ordinanza non impugnabile, previa eventuale cauzione e con salvezza degli atti compiuti.

Una prima osservazione può essere fatta considerando come in una disposizione collocata in parte generale si faccia riferimento al pignoramento, ignorando i processi esecutivi diversi dall’espropriazione forzata.

Ma soprattutto la norma appare criticabile per i gravissimi esiti che può condurre: la sospensione, infatti, da una semplice stasi del processo esecutivo si trasforma in qualcosa di molto più dirompente, come la cancellazione del pignoramento, seguita da tutti i suoi effetti conservativi.

A tutto ciò si aggiunga che il creditore procedente non ha alcuno strumento per far controllare o revocare la dichiarazione di estinzione, che, come detto, è pronunciata con “ordinanza non impugnabile”.

Non è chiaro, poi, come il debitore possa effettuare la scelta tra instaurazione del procedimento di merito e richiesta di estinzione: in particolare la norma non fissa alcun termine per effettuare tale scelta.

E’ pur vero che si può ritenere che la parte dovrà provvedere entro il termine previsto per l’instaurazione del procedimento di opposizione, poiché in mancanza la stessa opposizione si estinguerebbe, potendosi in questo caso riattivare la procedura esecutiva; ma è grave allora che lo stesso termine debba attribuirsi al creditore per esercitare la facoltà, prevista dal 3° comma dell’articolo 624 del codice processuale civile, di promuovere il processo dopo l’istanza di estinzione del pignoramento depositata dall’opponente e accolta dal giudice.

Tale unica possibilità rischia, infatti, di morire sul nascere, visto che l’opponente potrebbe depositare l’istanza di estinzione poco prima dello spirare del termine, impedendo, in questo modo, che il creditore, una volta venutone a conoscenza, possa essere effettivamente ancora in grado di introdurre il processo di cognizione.

Peraltro la norma non prevede né che l’istanza di estinzione debba essere portata a conoscenza del creditore, né che il giudice debba fissare un’udienza apposita.

Per tutti questi motivi si realizza una violazione molto grave del diritto di difesa del creditore procedente, in virtù della quale è lecito dubitare della legittimità costituzionale di tale disciplina, che consente al debitore, attraverso un meccanismo processuale, di diminuire la garanzia patrimoniale dei crediti, costituita dai beni del debitore ex articolo 2740 del codice civile.

Infine va ricordato l’ultimo periodo del nuovo 3° comma dell’articolo 624 del codice di procedura civile, in cui si prevede che l’autorità dell’ordinanza di estinzione pronunciata ai sensi dello stesso comma non è invocabile in un altro processo.

Si tratta, evidentemente, di una norma di difficile interpretazione e applicazione.

Non è chiaro, infatti, che efficacia potrebbe avere l’ordinanza di estinzione del pignoramento in un altro processo, né in che senso la norma parli di “autorità” in relazione ad un’ordinanza che non decide sull’esistenza di un diritto, ma semplicemente cancella il pignoramento.

Forse il legislatore ha pensato al caso di un nuovo processo espropriativo e di una opposizione instaurata in tale sede.

Tuttavia in questo ambito non ha alcun rilievo l’estinzione del primo pignoramento, che non pregiudica la possibilità di compiere un nuovo pignoramento.

6. Lo svolgimento del processo di opposizione agli atti esecutivi.

Il legislatore della riforma sembra, poi, aver accolto l’orientamento prevalente della Cassazione (molto importante al riguardo è pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite del 21 luglio 1998 n. 7128), affermatosi in presenza della disciplina previgente, secondo il quale il giudizio di opposizione agli atti esecutivi, proposta successivamente all’inizio dell’esecuzione, presentava una divisione in due fasi: la prima, di competenza del giudice dell’esecuzione, volta all’adozione di un eventuale provvedimento di sospensione, all’individuazione del giudice competente per il merito e alla fissazione del termine per l’instaurazione del giudizio di merito; la seconda, di competenza del giudice dell’opposizione, consistente in un ordinario giudizio di cognizione.

L’attuale testo dell’articolo 618 del codice di procedura civile adotta, infatti, una decisa scansione tra queste due fasi del procedimento: una volta conclusa la prima fase con l’accoglimento o il rigetto dell’istanza di sospensione si instaura dinanzi al giudice competente (individuato dallo stesso giudice dell’esecuzione) il “giudizio di merito”, disciplinato secondo le norme del processo di cognizione ordinario.

Dunque, se si tratterà di una controversia soggetta al rito ordinario, dovrà osservarsi quanto disposto dall’articolo 163 del codice di procedura civile, per cui dovrà notificarsi un atto di citazione, nel quale sarà anche fissata l’udienza di comparizione e trattazione ex articolo 183 del codice di procedura civile, nel rispetto dei termini a comparire stabiliti dall’articolo 163-bis del codice di procedura civile, o altri, se previsti, ridotti della metà, (così come oggi previsto dall’articolo 618 del codice di procedura civile)

Qualora, invece, alla lite si deve applicare un rito speciale di cognizione (ex articolo 618-bis codice di procedura civile) l’instaurazione avverrà con ricorso, da depositare in cancelleria, e successiva notifica di copia dello stesso e del decreto del giudice di fissazione dell’udienza.

Peraltro va precisato che, anche se nella nuova disciplina si parla di “introduzione del giudizio di merito” deve ritenersi che gli effetti processuali e sostanziali della domanda (in primis la litispendenza) si producono dal deposito del ricorso davanti al giudice dell’esecuzione, e non dalla successiva notificazione dell’atto di citazione (o deposito del ricorso).

Va poi detto che lo stesso articolo 618 del codice di procedura civile prevede che l’instaurazione del giudizio di cognizione deve avvenire entro il termine perentorio fissato dal giudice e tuttavia il legislatore non ha stabilito alcuna sanzione per il caso di mancato rispetto del termine stesso.

Ragionando in via analogica, potrebbe applicarsi l’art. 307, 3° comma, codice di procedura civile che prevede l’estinzione del procedimento, qualora le parti non provvedano alla riassunzione o prosecuzione del giudizio entro il termine stabilito dalla legge o dal giudice.

Un’altra soluzione potrebbe essere fornita dal 1° comma, dello stesso articolo, che, nel caso di inattività delle parti che non si siano costituite, dispone che il processo resta quiescente per un anno, per poi estinguersi se nessuna delle parti lo riassume.

Quest’ultima tesi potrebbe trovare fondamento nel fatto che l’articolo 618 del codice di procedura civile parla di iscrizione a ruolo; tuttavia è preferibile fornire un’interpretazione che tiene conto del principio di ragionevole durata del processo, ex articolo 111 della Costituzione, e quindi propendere per la prima soluzione.

Risulta, infine, contraddittoria la disposizione secondo la quale l’iscrizione a ruolo deve essere “previa” rispetto all’instaurazione del giudizio.

Normalmente, infatti, nel caso della citazione la causa deve essere iscritta entro i dieci giorni successivi alla notificazione; nel caso dei processi instaurati con ricorso, invece, l’iscrizione è contestuale al deposito in cancelleria.