x

x

L’uomo che diede il pollo all’Italia: partì dal mulino (e dalle bambole) per arrivare all’Aia

aia
aia

Se ne andò dieci anni fa, quando si avviava a compierne 99 e pareva fatto per oltrepassare i 100. Era il 5 aprile 2010. Il destino, cinico e baro solo con chi se lo merita, gli ha risparmiato una pandemia vera. L’ultima volta che lo incontrai, a ottobre del 2005, combatteva una pandemia inventata, quella dell’influenza aviaria, che lui reputava più che altro un pandemonio. Non si sbagliava. Alla fine l’Organizzazione mondiale della sanità presentò il conto: 249 morti nel mondo intero, un bilancio che, di questi tempi, qualsiasi provincia della Lombardia accetterebbe come una benedizione.

La lezione che Apollinare Veronesi ne trasse resta drammaticamente attuale: «Lo tsunami è colpa nostra, gli uragani sono colpa nostra, le epidemie sono colpa nostra, le guerre, la fame, la delinquenza... Non c’è disgrazia al mondo che non sia colpa nostra. Io ormai resterò fregato di poco, sa? Ma voi finirete in depressione, vi butterete giù dai ponti per la paura di vivere». Una profezia che gli sgorgava dai geni di famiglia.

Nel suo paese natale, Lugo, in Valpantena, la peste manzoniana del 1630 aveva mietuto 280 abitanti su 603, il 46 per cento della popolazione, ma non per questo la gente si era disperata o aveva smesso di fare figli. Per una nemesi alla rovescia, nel 2020, con il coronavirus dilagante, ai nipoti di Veronesi, nel frattempo saliti al comando della holding agroalimentare, tocca la missione di sostentare l’Italia barricata in casa, sperando che la catena distributiva non abbia a interrompersi.

Alle loro spalle, vegliano i genitori Carlo, Giordano, Bruno, Marcella e Luisa, avendo per la testa gli stessi pensieri che incupivano il loro leggendario papà. Così come rappresenta una nemesi alla rovescia questa storia del Covid-19 trasmesso all’umanità da animali che nessun occidentale si sognerebbe mai di considerare commestibili e che invece vengono cucinati dai cinesi come prelibatezze dello «yewei», il «sapore selvatico».

I Veronesi sono talmente certi della salute dei loro maiali, accuditi 24 ore su 24 da una quarantina di veterinari, che per entrare nella porcilaia dell’allevamento di Pegognaga, nel Mantovano, bisogna prima farsi la doccia e poi indossare tute spaziali e mascherine protettive, onde evitare che qualche germe umano possa infettare le 2.000 scrofe, assistite con ecografi per monitorare le gravidanze, microchip per regolare la somministrazione del cibo, pali antistress in abete naturale, refrigeratori ambientali.

«Sono nato al fronte, ho vissuto al fronte, mi toccherà morire al fronte», scuoteva la testa il commendator Apollinare, con le galline che quel giorno gli zampettavano sulla scrivania a favor di fotografo. Credeva di averle viste tutte: la Grande guerra, le dittature, l’arruolamento nel 1931, i tre richiami alle armi fra il 1935 e il 1941, la partenza per la Russia, la ritirata dal Don, gli sbandati che nell’aprile 1945 volevano portargli via la farina e risuolarsi gli scarponi bucati con le cinghie del suo mulino.

Cominciò così, dal grano macinato, l’avventura imprenditoriale di Veronesi, nato il 28 agosto 1911, penultimo di dieci figli, battezzato Apollinare, come il patrono di Lugo, da un padre inconsapevolmente previdente, visto che in dialetto polinàr significa pollaio, «un nome talmente strambo da portarmi fortuna, perché rimaneva impresso nella memoria dei miei interlocutori», riconosceva il vegliardo.

Prima degli anni Cinquanta, in quella vallata stretta, dove il sole sorge troppo tardi e tramonta troppo presto, nemmeno sapevano che cosa fosse la carne. Le poche famiglie che potevano permettersela ne ordinavano due fettine a Silvino De Lai, generi alimentari e appalto tabacchi, il quale se le faceva portare l’indomani da un macellaio. Una statistica del tempo documenta questa frugalità forzosa: 20-25 chili di bovino a settimana per circa 1.000 abitanti. Il che significava una media di 25 grammi a testa, meno di 4 al giorno.

Con le sue industrie per l’estrazione e la lavorazione del marmo, oggi Lugo è fra i paesi più ricchi del Veronese. Ma a quei tempi la gente campava raccogliendo la folenda, la selce, utilizzata per fabbricare gli abrasivi, o cuocendo i sassi di calcare da cui si ricavava la calsìna, la calce per l’edilizia. Giordano, il secondogenito di Apollinare, ricorda ancora che nel 1949, seduto sul muretto della scuola elementare di Lugo, guardava i suoi coetanei che partivano per la Francia con la valigia di cartone da emigranti: «Vedere la miseria ti segna e ti fa capire le ragioni degli altri. Quando le rubavano una gallina, mia nonna Maria diceva: “Amen. Vorrà dire che stasera c’è qualcuno che mangia”».

Una sorte che non toccò ai Veronesi, proprietari fin dal 1440 di un mulino. «La prima infarinatura la ebbi a 12 anni, quando fui messo alla macina», raccontava il cavaliere del lavoro. «Due volte a settimana frequentavo le lezioni serali del professor Bartolazzi, che teneva una scuola ambulante di agraria a Marzana. La contabilità di famiglia non andava oltre un libro mastro con i soprannomi dei clienti. I crediti si annotavano su un calendario appeso dentro la madia. Quando si segnavano, perché la regola era fidarsi».

La notte di San Silvestro, mentre i suoi amici andavano a ballare, Veronesi compilava l’inventario sul tavolo da cucina. «Non finivo mai prima dell’alba. Il bilancio del primo anno fu di 12.000 lire, il secondo di 25.000. Il terzo raddoppiammo ancora: 50.000 lire. Era il 1929, l’anno del crollo di Wall Street. Corsi trionfante da mio padre Marcellino per mostrargli i conti. “Massa schèi, a che ci servono?”, borbottò».

Fu la moglie di Marcellino, Maria Petronilli, a farsi prestare da parenti e compaesani i quattrini per ammodernare il mulino di Lugo, perché allevare bachi da seta in casa non bastava. Ma per farlo marciare serviva l’energia elettrica. Venne costituita la Società anonima La Lucense, guidata da due preti, che illuminò le case di tutta la Valpantena, fino a quel momento rischiarate dalle candele. I Veronesi ne furono soci fondatori.

Subito dopo, la famiglia di mugnai s’impegnò in un’altra fantasiosa iniziativa del cooperativismo cattolico: la fabbrica delle bambole. L’idea venne al parroco, don Luigi Bodini, arrivato a Lugo nel 1943. Di ritorno da un pellegrinaggio a Roma per il Giubileo del 1950 indetto da Pio XII, in treno conobbe tale Enzo Balestra, milanese, commerciante di bambole. E capì che quello poteva diventare un mestiere a domicilio per le donne della sua vallata, impegnate nella rifinitura delle pezze provenienti dal lanificio Tiberghien di San Michele Extra.

Nacque così la Mabel (Manifattura artistica bambole eleganti Lugo), celebrata dal settimanale Oggi con un servizio pubblicato sul numero del 4 dicembre 1952, dal titolo «Il prete delle bambole». Le antenate di Barbie uscivano da un impasto di carta straccia e di farina fornita da Veronesi. «Ma quando, contro il mio stesso interesse, proposi l’acquisto di un macchinario per farle con il polistirolo», spiegava Apollinare, che della Mabel fu consigliere di amministrazione, «don Luigi mi disse no, perché la ristrutturazione avrebbe comportato il taglio dei posti di lavoro».

Nel frattempo un Fiat 626 aveva rimpiazzato il primo camion acquistato da Veronesi nel 1930, un residuato della guerra italo-turca combattuta vent’anni prima contro l’impero ottomano, rabberciato con pezzi di uno Spa, un motore Opel e una cabina in legno costruita da un falegname di Lugo. Girava la Pianura padana in cerca di frumento, mais e germe di granoturco.

La domenica era invece riservata a una gita con i figli. «Alle 6 li portavo a messa nella nostra chiesa. Poi via verso Erbezzo, dove il rito sacro terminava alle 8. Lì incontravo i montanari. Chiacchiere e affari. Altra corsa fino a Boscochiesanuova, giusto in tempo per l’“ite missa est” delle 11. Avevo un tavolo tutto mio nell’osteria di fianco al sagrato. Ci sistemavo sopra farina, farinaccio, crusca, cruschello. Quanti gòti mi toccava offrire ai malgari! E io dovevo bere con loro. Nel vino c’era più bisolfito che nettare d’uva. A stomaco vuoto, una tortura. Tornavo a casa per pranzo alle 15, sfinito, con un mal di testa da impazzire. Ma anche con le tasche gonfie di ordinazioni».

Durante queste escursioni festive, Veronesi ascoltava storie di rachitismo e di pellagra, di vitelli che non crescevano mai e di tacchini che morivano anzitempo. Decise perciò di assumere la concessionaria della Vitasol di Brescia, produttrice d’integratori alimentari. Si mise a mischiare il cruschello con il lievito di birra e le vitamine A e D. Cominciò l’epoca dei mangimi. Allora in Italia non si sapeva nemmeno che cosa fossero. Solo il Consorzio agrario di Milano ne importava qualche partita dall’America.

Dice Carlo, il primogenito che fin da giovane affiancò il padre in azienda: «Di animali da ingrassare in giro ce n’erano ben pochi. Quando un contadino tirava il collo a una gallina, i casi erano due: o aveva un malato in casa, o stava male la gallina. Papà doveva dimostrare che si poteva mangiare pollo tutti i giorni». L’illuminazione gli venne nel 1956, accompagnando a Leeuwarden, nei Paesi Bassi, un amico invaghitosi di un’olandese. Lì vide un palazzo immenso. Ospitava l’anagrafe delle vacche da latte. Era più grande del municipio dove si registravano i cristiani. Venendo da generazioni di polenta, afferrò subito il concetto: carne uguale prosperità. Cominciò a importare pulcini, meno costosi dei vitelli. E convinse gli agricoltori a crescerli con il suo mangime.

Nel 1958 sorse il mangimificio di Quinto, in Valpantena. Con il tempo se ne aggiunsero altri a San Pietro in Gu, Ospedaletto Euganeo, Acquanegra Cremonese, Fossano, San Polo di Torrile, fino all’ultimo di Putignano, in Puglia. È una filiera lunga quella che l’ex mugnaio ha creato: 3 miliardi di euro di fatturato annuo, 8.000 dipendenti cui si aggiungono i 7.000 delle piccole e medie industrie che lavorano per il gruppo, un’ottantina di Paesi dove vengono esportati i marchi della casa Aia, Negroni e Montorsi. Le regole aziendali le aveva apprese alla scuola del curato don Pompilio Zanella, che poi gli fece seguire da privatista i primi tre anni dell’avviamento commerciale.

Una svolta decisiva avvenne nel 1967 con la fondazione di Agricola italiana alimentare, è questo il significato dell’acronimo Aia, alla quale fin dall’apertura dello stabilimento di San Martino Buon Albergo ha dedicato un impegno appassionato il più giovane dei figli maschi di Apollinare, Bruno. Fu il primo a intuire l’importanza di Carosello. Arruolò come testimonial Ave Ninchi, che in tv decantava il tacchino come «il vitello a due zampe», sull’onda del refrain «Aia, carni di casa nostra. Sane, italiane», oggi sostituito dall’headline «Se c’è Aia, c’è gioia» negli spot che reclamizzano i vari prodotti della casa, dall’etereo Aequilibrium alla più ruspante Dakota, «la salsiccia già cotta». Che in veronese si sarebbe ben potuta chiamare Zacota.

Fino all’ultimo, Apollinare Veronesi si è recato in ufficio tutte le mattine, facilitato dal fatto che viveva con la moglie Cesira Girlanda, sposata nel 1937, in una casetta bianca dentro il mangimificio di Quinto. «La gente mi scambia per il custode», rideva. Non lo disturbavano né il frastuono delle presse cubettatrici, né il fragore delle tonnellate di mangime riversate dai silos nei cassoni degli autotreni, né i motori accesi tutta la notte, «anzi, mi conciliano il sonno», assicurava. Quando alle 5 della domenica gli impianti si fermavano «per rispettare il giorno del Signore» (avviene ancor oggi), si svegliava di soprassalto. «L’armonia», la definiva così, riprendeva solo alle 5 del lunedì. Fino a quel momento non aveva pace.

La giovane Cesira scendeva a Lugo dai monti Lessini per insegnare alla scuola di ricamo. Lui la sbirciava dalle feritoie del mulino. «Gran bela fióla», si commuoveva al ricordo della moglie. Se ne andò 11 anni prima di lui. Il loro mondo misurava appena 12 chilometri, la distanza che separa Lugo da Quinto. Se la domenica uscivano a cena, si facevano portare dall’autista alla Botte di San Felice Extra, oggi scomparsa, altri 3 chilometri in linea d’aria. Si tengono ancora compagnia nella tomba di famiglia del cimitero di Quinto.

Il geriatra Luigi Grezzana, che curò l’imprenditore fino all’ultimo, lo commemora con due aggettivi: «Sapiente e schivo». E testimonia: «L’arredatore Lino Squassabia arrivò a Quinto per consegnare alcuni mobili. Vide un operaio anzianotto in tuta che ramazzava le foglie secche sul piazzale dello stabilimento. “Ghelo Veronesi?”, gli chiese. “Ah, no so, adèsso vedémo”, si sentì rispondere. Per poi scoprire che era lui, Apollinare, lo spazzino. Lo stesso che soleva ripetere ai propri figli: “Ricordatevi di trattare sempre bene i collaboratori, perché il vostro futuro dipende da loro”». Ora si capisce meglio come mai, dieci anni fa, al funerale i suoi operai srotolarono un enorme lenzuolo preparato a insaputa dei familiari del defunto. Sopra c’era scritto: «Grazie, Apollinare».

L’Arena, 4 aprile 2020