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Quesito di diritto nel giudizio di Cassazione: ammissibilità e formulazione

Rassegna della giurisprudenza più recente in tema di art. 366 bis del codice di procedura civile

L’art. 6 del Decreto Legislativo 2 febbraio 2006 n. 40 ha introdotto l’art. 366 bis del codice di procedura civile, che, nel giudizio avanti la Corte di Cassazione, impone l’obbligo di concludere l’illustrazione di ciascun motivo (ad esclusione del caso previsto dall’art. 360, primo comma n. 5, del codice di procedura civile) con la formulazione di un quesito di diritto, a pena di inammissibilità del ricorso medesimo.

La norma in esame, tuttavia, non ha specificato quali siano le caratteristiche alle quali il quesito debba rispondere, né quale debba essere il suo contenuto. Gli operatori del diritto, nel fare i conti con questa novità, nel silenzio della legge hanno perciò inizialmente formulato i quesiti nella maniera più svariata e ritenuta, all’occorrenza, più acconcia al caso specifico.

A distanza di due anni circa dall’entrata in vigore dell’art. 366 bis del codice di procedura civile, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, spesso giudicando a Sezioni Unite, ha consolidato alcuni orientamenti che possiamo dire fungano ormai a tutti gli effetti da “guida” per una corretta formulazione dei quesiti di diritto. Senza pretesa di completezza, nel presente scritto si prenderanno in considerazione le pronunce maggiormente significative.

Innanzitutto, la disamina della questione deve prendere le mosse da un dato di base: bisogna comprendere in che cosa consista il quesito di diritto e quale sia la sua funzione.

In proposito la Suprema Corte ha precisato che “con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 il legislatore, in linea con il disposto del secondo comma dell’art. 111 Cost. (introdotto con L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2), s’è dimostrato consapevole che all’esaltazione (o al recupero) della funzione c.d. nomofilattica della Corte di Cassazione non è estranea la considerazione del tempo entro il quale sopravviene la decisione ed ha, a questo scopo, dettato norme volte a rendere possibili percorsi procedimentali diversi in relazione al tipo ed alla difficoltà delle questioni sottoposte allo scrutinio del giudice di legittimità, cui è rimessa la scelta di incanalare il ricorso per la decisione in camera di consiglio ovvero in pubblica udienza e l’onere di predisporre i necessari strumenti organizzativi. Al fine di consentire che tale scelta possa essere compiuta senza inutile spreco di energie ed in tempi il più possibile rapidi e che, al contempo, il ricorrente possa egli stesso verificare se il ricorso effettivamente ponga questioni suscettibili di essere trasfuse in un quesito di diritto, il legislatore ha quindi dettato la norma di cui all’art. 366-bis c.p.c., prevedendo che, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si debba concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Tale quesito non può perciò consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’ interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di Cassazione in grado di rispondere con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” [1].

Il quesito di diritto in assoluto considerato, pertanto, altro non è che una domanda in punto di stretto diritto che si rivolge alla Corte di Cassazione, affinché quest’ultima possa essere posta in condizione di enunciare un corrispondente principio di diritto. Quanto alla sua natura, esso assolve ad una triplice funzione: una prima, di carattere generale, volta a garantire il recupero ed il mantenimento della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione; una seconda, di carattere pratico, ispirata al principio di economia del giudizio, volta a snellire il procedimento, garantendo la definizione dei giudizi pendenti in maniera più rapida; ed una terza orientata al versante del ricorrente e anch’essa di carattere pratico, che vota il quesito ad assolvere il compito di “prova del nove” delle censure mosse alla sentenza e della loro effettiva plausibilità e sostenibilità. Come osserva la dottrina, scopo del quesito è “operare una selezione naturale di ricorsi, evitando che possano trovare ingresso innanzi alla Corte quelle impugnazioni che dietro apparenti censure di diritto nascondono, in realtà, l’intento di sottoporre alla cognizione del Giudice di legittimità questioni di fatto, spesso già oggetto del giudizio di appello” [2].

Ma proprio perché il quesito deve soddisfare tutte le ora esposte esigenze, dovrà anche possedere specifiche caratteristiche, prima fra tutte quella della specificità. Non sono perciò ammissibili i quesiti che, come rammenta la sopra richiamata pronuncia della Corte di Cassazione, si palesino come mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata. Il quesito, invece, deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di Cassazione in grado di rispondere con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata; ovvero di provvedere, ictu oculi, a dichiarare inammissibile il ricorso, perché proposto su argomentazioni manifestamente infondate.

Sempre in tema di specificità si era già espressa la Corte a Sezioni Unite, rammentando che “ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione che si concluda con la formulazione di un quesito di diritto in alcun modo riferibile alla fattispecie o che sia comunque assolutamente generico” [3]. Addirittura la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha ritenuto inesistente il quesito di diritto che sia privo di specificità per avere dato per scontati alcuni elementi di diritto: “in tema di ricorso per cassazione, è privo di specificità, ed è quindi inesistente, con conseguente inammissibilità del relativo motivo, il quesito di diritto, prescritto dall’art. 366-bis cod. proc. civ., che si limiti ad affermare come debbano essere distinti civilisticamente gli interessi (in una controversia tributaria ove si discuta del regime ad essi applicabile), dando per scontato che nella specie si tratti di interessi compensativi, qualificazione costituente, invece, il cuore del problema "sub iudice". La condivisione o non condivisione della pretesa differenza ontologica tra interessi, come evidenziata, non conduce, invero, ad alcuna conseguenza rispetto al caso di specie, perchè ove pure si condivida l’affermazione, il "quesito" non indica le ragioni per le quali nel caso di specie gli intereressi avrebbero natura compensativa e perché sarebbero sottratti alla ritenuta alla fonte” [4].

Nemmeno, in ossequio al principio di specificità, il quesito può essere la pedissequa riproduzione delle conclusioni o di altre indicazioni già contenute nel motivo cui accede: “a norma dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 6 del d.lgs. n. 40 del 2006 - il cui disposto si applica anche ai ricorsi contro le decisioni dei giudici speciali per motivi attinenti alla giurisdizione - deve essere dichiarato inammissibile il ricorso nel quale il quesito di diritto si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, poiché la citata disposizione è finalizzata a porre il giudice della legittimità in condizione di comprendere - in base alla sola sua lettura - l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e di rispondere al quesito medesimo enunciando una regula iuris" [5].

La specificità del quesito, precisa diffusamente la Corte di Cassazione nelle pronunce in tema, dovrebbe perciò consentire di dare una risposta positiva o negativa alla questione di legittimità avanzata con il motivo di censura: ove la specificità difetti, la Corte non sarebbe posta in grado di decidere in modo univoco la questione sottoposta, né pronunciarsi per il rigetto o per l’accoglimento del motivo medesimo [6].

Una seconda caratteristica che il quesito di diritto deve possedere è la conferenza con il motivo al quale fa riferimento. Appare infatti di logica evidenza che un quesito inconferente con il motivo al quale accede non consenta alla Corte di pronunciarsi positivamente o negativamente su quel particolare motivo. Sul punto la Corte si è pronunciata con una recentissima sentenza a Sezioni Unite: “il quesito di diritto, richiesto dall’art. 366 bis c.p.c., è inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non è conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia” [7], richiamando il proprio consolidato orientamento (sempre espresso a Sezioni Unite), secondo il quale “il principio di diritto che, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., la parte ha l’onere di formulare espressamente nel ricorso per cassazione a pena di inammissibilità, deve consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta - negativa od affermativa - che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame. Ne consegue che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico” [8].

La conferenza del quesito è perciò un’altra importante caratteristica, che completa il quadro. Infatti non servirebbe a nulla la formulazione di un quesito specifico che non abbia tuttavia attinenza con il motivo al quale è connesso, perché anche in questo caso - come nel difetto di specificità - la Corte di Cassazione non potrebbe enunciare un adeguato principio di diritto (perché non corrispondente al motivo), né valutare, in limine litis, l’ammissibilità del ricorso stesso.

I principi ora esposti, ossia specificità e conferenza, hanno inevitabile connessione anche con la collocazione grafica del quesito all’interno del ricorso per cassazione. Appare infatti di logica evidenza che se il quesito di diritto accede al motivo di censura, al quale è intimamente connesso, debba essere logicamente collocato immediatamente al termine del motivo medesimo. Qualcuno si è domandato, però, se sia possibile anticipare il quesito rispetto al motivo cui accede, oppure se sia possibile raggruppare tutti i quesiti alla fine, magari adoperando locuzioni del tipo “in relazione al primo motivo si formula il seguente quesito di diritto...” senza incorrere nel rischio di una pronuncia di inammissibilità del ricorso.

Ciò non sembrerebbe essere possibile in ragione del tenore letterale dell’art. 366 bis del codice di procedura civile, il quale prescrive che il motivo “si deve concludere” con il quesito. Tuttavia, la Corte di Cassazione, in una recente ordinanza sul tema ha statuito che “il quesito di diritto che, nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3) e 4), c.p.c., va formulato a conclusione di ciascun motivo del ricorso per cassazione così come richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366-bis, primo comma, c.p.c., può anche difettare di una particolare evidenza grafica o essere collocato non al termine del motivo ma al suo inizio o nelle conclusioni del ricorso (se pur con richiamo al motivo al quale è pertinente), non essendo decisiva la sua collocazione tipografica, ma deve comunque risultare come frutto di un’intenzionale articolazione di interpello alla Corte di legittimità sulla sintesi dialettica illustrata nel singolo motivo, atteso che la novità della riforma sta proprio nel porre a requisito fondamentale di ciascuna censura di violazione di legge la sintesi logico-giuridica della questione, onerando l’avvocato patrocinante in Cassazione di una formulazione consapevole, espressa e diretta di tale sintesi” [9].

Inoltre, in ragione della ora richiamata pronuncia, non sembrano sussistere nemmeno particolari prescrizioni con riferimento alla veste grafica del quesito all’interno del ricorso, purché sia ravvisabile “la chiara ed intenzionale articolazione di un quesito di diritto, in mancanza del quale il ricorso può essere trattato in camera di consiglio e dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 375, n. 5), c.p.c.” [vedasi nota 9]. Non è perciò rilevante un eccessivo formalismo ed una eccessiva aderenza al dettato normativo in tema di collocazione tipografica del quesito, purché questi risulti essere una coerente sintesi logico-giuridica della questione e possa, ovviamente, risalirsi al motivo di censura cui accede, ove non sia posto immediatamente al termine del motivo stesso.

Un’altra questione che la Corte di Cassazione ha affrontato in tema di quesito di diritto riguarda i cosiddetti “quesiti multipli”, ossia quelli mediante i quali alla Corte sia richiesto di formulare, contemporaneamente, più principi di diritto. La giurisprudenza si è perciò consolidata ritenendoli inammissibili: “il quesito di diritto imposto dalla D.Lgs. n. 40/2006, costituendo una forma di collaborazione alla funzione nomofilattica del giudice di legittimità, deve essere formulato in maniera tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un "si" o un "no. Quindi sono inammissibili i quesiti multipli che richiederebbero un intervento interpretativo della Corte che sconfinerebbe facilmente nella manipolazione o nella correzione, e che sarebbe volto, in primo luogo, a sciogliere il quesito multiplo in più questi semplici, per procedere, poi, alle singole risposte, che potrebbero essere tra loro diversificate” [10]; “nella proposizione del ricorso per cassazione il quesito di diritto deve essere formulato in modo tale che la Corte di Cassazione possa rispondere semplicemente con un sì o con un no alla sua vigenza e alla sua rilevanza. La formulazione di quesiti multipli, invece, rende probabile che il giudice si debba sostituire al ricorrente in una preventiva opera di semplificazione, per procedere, poi, alle singole risposte, che potrebbero essere tra loro diversificate. Ne deriva che il quesito multiplo è inammissibile perché richiede che l’attività della parte, di osservanza del suo onere di formulare il quesito di diritto, sia integrata con un intervento interpretativo della Corte, che sconfinerebbe facilmente nella manipolazione o nella correzione. Inoltre, l’inammissibilità sarebbe ancor più evidente quando i quesiti semplici, nei quali la Corte sciogliesse la complessità formulativa del quesito multiplo, richiedessero risposte differenziate” [11].

Ritengo che l’orientamento in questo senso adottato dalla Suprema Corte sia coerente con i principi di specificità e conferenza del quesito di diritto: infatti, le funzioni che il legislatore ha riservato al quesito stesso non potrebbero essere pienamente attuate laddove sia consentita la formulazione di quesiti multipli. Se questi ultimi fossero ammissibili, infatti, si aprirebbe la via all’interpretazione, con buona pace del principio di specificità. Si può allora convenire che il divieto di porre quesiti di diritto multipli altro non sia che un necessario corollario del rispetto del principio di specificità dei medesimi.

Un ultimo problema che la Corte di Cassazione ha affrontato riguarda, infine, il dubbio circa il dovere di formulare i quesiti di diritto nei casi di ricorso contemplati dall’art. 362 del codice di procedura civile (avverso le decisioni in grado di appello o in unico grado di giudice speciale per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso, ovvero conflitti positivi o negativi). Questione di non poco conto, essendo la posta in gioco l’eventuale inammissibilità del ricorso medesimo. Orbene, il tenore delle decisioni sinora adottate opera un importante distinguo, a seconda che si tratti di ricorso proposto ai sensi dell’art. 362, comma primo, del codice di procedura civile ovvero dell’art. 362, comma secondo, del codice di procedura civile.

Quanto al caso di ricorso proposto ai sensi del comma primo dell’art. 362 del codice di procedura civile “va dichiarato inammissibile, per violazione dell’art. 366-bis c.p.c., introdotto dall’art. 6, D.Lgs. n. 40 del 2006, il ricorso che per motivi di giurisdizione non reca in modo esplicito, per ciascun motivo, la formulazione di un quesito di diritto. Tale prescrizione non incontra ostacolo nel rilievo che la norma dell’art. 366-bis c.p.c. non contempli anche il caso previsto dall’art. 362 c.p.c., e cioè il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione contro le decisioni dei giudici speciali, non potendosi ritenere preclusa l’interpretazione estensiva di una norma che, per la sua formulazione, non consente di individuare le ragioni per le quali un siffatto ricorso debba trovare una diversa disciplina a secondo si rivolga contro una decisione del giudice ordinario ovvero contro una decisione del giudice speciale, sicché il mancato richiamo all’art. 362 c.p.c. va considerato frutto di un difetto di coordinamento dovuto a mera dimenticanza del legislatore” [12].

Diversamente avviene per i ricorso proposti ai sensi del secondo comma dell’art. 362 del codice di procedura civile: “nel ricorso in cassazione per conflitto di giurisdizione di cui all’art. 362, secondo comma, cod. proc. civ., non trova applicazione l’art. 366 bis dello stesso codice, che impone, a pena di inammissibilità, la formulazione di un quesito di diritto, atteso che tale norma fa esclusivo riferimento ai casi di ricorso previsti dall’art. 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4) cod. proc. civ. e che nel ricorso per conflitto di giurisdizione - il quale non costituisce mezzo di impugnazione - il quesito chiesto alla Corte risulta implicitamente formulato” [13].

Pertanto, la formulazione dei quesiti di diritto è esclusa in quest’ultimo caso perché, secondo l’opinione della Suprema Corte, il ricorso per conflitto di giurisdizione non costituisce mezzo di impugnazione.

Ragionando per esclusione e riassumendo, allora, dalla rassegna delle ora citate norme del codice di procedura civile e delle pronunce intervenute, emerge che i quesiti di diritto dovranno sempre essere formulati in maniera specifica, conferente al motivo e non in forma multipla, salvo che si tratti del caso previsto dall’art. 360, primo comma, n. 5) del codice di procedura civile, ovvero del caso contemplato dall’art. 362, comma secondo, del codice di procedura civile.

Sul tema dei quesiti, infine, si è pronunciata nuovamente la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza 9 maggio 2008, n. 11535, ritenendo inammissibile un ricorso ed enunciando il seguente principio: "i quesiti di diritto imposti dall’articolo 366 bis c.p.c., introdotto dall’articolo 6, comma 1, del Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità, rispondono alla esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie. Il quesito di diritto costituisce pertanto il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi non ammissibile, l’investitura stessa del giudice di legittimità” [14].

Possiamo perciò concludere che, a distanza di circa due anni dalla riforma, la Corte di Cassazione ha ormai tracciato i principi guida in materia di concreta formulazione dei quesiti di diritto, ai quali sarà opportuno attenersi onde evitare di incappare in una pronuncia di inammissibilità.

[1] Cass. civ. Sez. Unite, 05-02-2008, n. 2658.

[2] Silvia Rusciano, Il contenuto del ricorso per cassazione dopo il D.Lgs. 40/2006.La formulazione dei motivi: il quesito di diritto, in Corriere Giuridico 2007, 3, 436; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 529.

[3] Cass. civ. Sez. Unite, 05-01-2007, n. 36.

[4] Cass. civ. Sez. V, Sent. 21-05-2007, n. 11682.

[5] Cass. civ. Sez. Unite, Ord. 05-02-2008, n. 2658

[6] Si veda per tutte Cass. civ. Sez. Unite Sent., 28-09-2007, n. 20360.

[7] Cass. civ. Sez. Unite 2 aprile 2008, n. 8466.

[8] Cass. civ. Sez. Unite Sent. 28-09-2007, n. 20360.

[9] Cass. civ. Sez. I Ord. 07-06-2007, n. 13329.

[10] Cass. civ. Sez. V, 15-02-2008, n. 3896.

[11] Cass. civ. Sez. V, Sent. 29-01-2008, n. 1906.

[12] Cass. civ. Sez. Unite, 26-03-2007, n. 7258.

[13] Cass. civ. Sez. Unite Sent. 31-01-2008, n. 2280.

[14] Cass. civ. Sez. III, Sent. 09-05-2008, n. 11535.

L’art. 6 del Decreto Legislativo 2 febbraio 2006 n. 40 ha introdotto l’art. 366 bis del codice di procedura civile, che, nel giudizio avanti la Corte di Cassazione, impone l’obbligo di concludere l’illustrazione di ciascun motivo (ad esclusione del caso previsto dall’art. 360, primo comma n. 5, del codice di procedura civile) con la formulazione di un quesito di diritto, a pena di inammissibilità del ricorso medesimo.

La norma in esame, tuttavia, non ha specificato quali siano le caratteristiche alle quali il quesito debba rispondere, né quale debba essere il suo contenuto. Gli operatori del diritto, nel fare i conti con questa novità, nel silenzio della legge hanno perciò inizialmente formulato i quesiti nella maniera più svariata e ritenuta, all’occorrenza, più acconcia al caso specifico.

A distanza di due anni circa dall’entrata in vigore dell’art. 366 bis del codice di procedura civile, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, spesso giudicando a Sezioni Unite, ha consolidato alcuni orientamenti che possiamo dire fungano ormai a tutti gli effetti da “guida” per una corretta formulazione dei quesiti di diritto. Senza pretesa di completezza, nel presente scritto si prenderanno in considerazione le pronunce maggiormente significative.

Innanzitutto, la disamina della questione deve prendere le mosse da un dato di base: bisogna comprendere in che cosa consista il quesito di diritto e quale sia la sua funzione.

In proposito la Suprema Corte ha precisato che “con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 il legislatore, in linea con il disposto del secondo comma dell’art. 111 Cost. (introdotto con L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2), s’è dimostrato consapevole che all’esaltazione (o al recupero) della funzione c.d. nomofilattica della Corte di Cassazione non è estranea la considerazione del tempo entro il quale sopravviene la decisione ed ha, a questo scopo, dettato norme volte a rendere possibili percorsi procedimentali diversi in relazione al tipo ed alla difficoltà delle questioni sottoposte allo scrutinio del giudice di legittimità, cui è rimessa la scelta di incanalare il ricorso per la decisione in camera di consiglio ovvero in pubblica udienza e l’onere di predisporre i necessari strumenti organizzativi. Al fine di consentire che tale scelta possa essere compiuta senza inutile spreco di energie ed in tempi il più possibile rapidi e che, al contempo, il ricorrente possa egli stesso verificare se il ricorso effettivamente ponga questioni suscettibili di essere trasfuse in un quesito di diritto, il legislatore ha quindi dettato la norma di cui all’art. 366-bis c.p.c., prevedendo che, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si debba concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Tale quesito non può perciò consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’ interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di Cassazione in grado di rispondere con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” [1].

Il quesito di diritto in assoluto considerato, pertanto, altro non è che una domanda in punto di stretto diritto che si rivolge alla Corte di Cassazione, affinché quest’ultima possa essere posta in condizione di enunciare un corrispondente principio di diritto. Quanto alla sua natura, esso assolve ad una triplice funzione: una prima, di carattere generale, volta a garantire il recupero ed il mantenimento della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione; una seconda, di carattere pratico, ispirata al principio di economia del giudizio, volta a snellire il procedimento, garantendo la definizione dei giudizi pendenti in maniera più rapida; ed una terza orientata al versante del ricorrente e anch’essa di carattere pratico, che vota il quesito ad assolvere il compito di “prova del nove” delle censure mosse alla sentenza e della loro effettiva plausibilità e sostenibilità. Come osserva la dottrina, scopo del quesito è “operare una selezione naturale di ricorsi, evitando che possano trovare ingresso innanzi alla Corte quelle impugnazioni che dietro apparenti censure di diritto nascondono, in realtà, l’intento di sottoporre alla cognizione del Giudice di legittimità questioni di fatto, spesso già oggetto del giudizio di appello” [2].

Ma proprio perché il quesito deve soddisfare tutte le ora esposte esigenze, dovrà anche possedere specifiche caratteristiche, prima fra tutte quella della specificità. Non sono perciò ammissibili i quesiti che, come rammenta la sopra richiamata pronuncia della Corte di Cassazione, si palesino come mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata. Il quesito, invece, deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di Cassazione in grado di rispondere con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata; ovvero di provvedere, ictu oculi, a dichiarare inammissibile il ricorso, perché proposto su argomentazioni manifestamente infondate.

Sempre in tema di specificità si era già espressa la Corte a Sezioni Unite, rammentando che “ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione che si concluda con la formulazione di un quesito di diritto in alcun modo riferibile alla fattispecie o che sia comunque assolutamente generico” [3]. Addirittura la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha ritenuto inesistente il quesito di diritto che sia privo di specificità per avere dato per scontati alcuni elementi di diritto: “in tema di ricorso per cassazione, è privo di specificità, ed è quindi inesistente, con conseguente inammissibilità del relativo motivo, il quesito di diritto, prescritto dall’art. 366-bis cod. proc. civ., che si limiti ad affermare come debbano essere distinti civilisticamente gli interessi (in una controversia tributaria ove si discuta del regime ad essi applicabile), dando per scontato che nella specie si tratti di interessi compensativi, qualificazione costituente, invece, il cuore del problema "sub iudice". La condivisione o non condivisione della pretesa differenza ontologica tra interessi, come evidenziata, non conduce, invero, ad alcuna conseguenza rispetto al caso di specie, perchè ove pure si condivida l’affermazione, il "quesito" non indica le ragioni per le quali nel caso di specie gli intereressi avrebbero natura compensativa e perché sarebbero sottratti alla ritenuta alla fonte” [4].

Nemmeno, in ossequio al principio di specificità, il quesito può essere la pedissequa riproduzione delle conclusioni o di altre indicazioni già contenute nel motivo cui accede: “a norma dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 6 del d.lgs. n. 40 del 2006 - il cui disposto si applica anche ai ricorsi contro le decisioni dei giudici speciali per motivi attinenti alla giurisdizione - deve essere dichiarato inammissibile il ricorso nel quale il quesito di diritto si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, poiché la citata disposizione è finalizzata a porre il giudice della legittimità in condizione di comprendere - in base alla sola sua lettura - l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e di rispondere al quesito medesimo enunciando una regula iuris" [5].

La specificità del quesito, precisa diffusamente la Corte di Cassazione nelle pronunce in tema, dovrebbe perciò consentire di dare una risposta positiva o negativa alla questione di legittimità avanzata con il motivo di censura: ove la specificità difetti, la Corte non sarebbe posta in grado di decidere in modo univoco la questione sottoposta, né pronunciarsi per il rigetto o per l’accoglimento del motivo medesimo [6].

Una seconda caratteristica che il quesito di diritto deve possedere è la conferenza con il motivo al quale fa riferimento. Appare infatti di logica evidenza che un quesito inconferente con il motivo al quale accede non consenta alla Corte di pronunciarsi positivamente o negativamente su quel particolare motivo. Sul punto la Corte si è pronunciata con una recentissima sentenza a Sezioni Unite: “il quesito di diritto, richiesto dall’art. 366 bis c.p.c., è inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non è conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia” [7], richiamando il proprio consolidato orientamento (sempre espresso a Sezioni Unite), secondo il quale “il principio di diritto che, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., la parte ha l’onere di formulare espressamente nel ricorso per cassazione a pena di inammissibilità, deve consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta - negativa od affermativa - che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame. Ne consegue che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico” [8].

La conferenza del quesito è perciò un’altra importante caratteristica, che completa il quadro. Infatti non servirebbe a nulla la formulazione di un quesito specifico che non abbia tuttavia attinenza con il motivo al quale è connesso, perché anche in questo caso - come nel difetto di specificità - la Corte di Cassazione non potrebbe enunciare un adeguato principio di diritto (perché non corrispondente al motivo), né valutare, in limine litis, l’ammissibilità del ricorso stesso.

I principi ora esposti, ossia specificità e conferenza, hanno inevitabile connessione anche con la collocazione grafica del quesito all’interno del ricorso per cassazione. Appare infatti di logica evidenza che se il quesito di diritto accede al motivo di censura, al quale è intimamente connesso, debba essere logicamente collocato immediatamente al termine del motivo medesimo. Qualcuno si è domandato, però, se sia possibile anticipare il quesito rispetto al motivo cui accede, oppure se sia possibile raggruppare tutti i quesiti alla fine, magari adoperando locuzioni del tipo “in relazione al primo motivo si formula il seguente quesito di diritto...” senza incorrere nel rischio di una pronuncia di inammissibilità del ricorso.

Ciò non sembrerebbe essere possibile in ragione del tenore letterale dell’art. 366 bis del codice di procedura civile, il quale prescrive che il motivo “si deve concludere” con il quesito. Tuttavia, la Corte di Cassazione, in una recente ordinanza sul tema ha statuito che “il quesito di diritto che, nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3) e 4), c.p.c., va formulato a conclusione di ciascun motivo del ricorso per cassazione così come richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366-bis, primo comma, c.p.c., può anche difettare di una particolare evidenza grafica o essere collocato non al termine del motivo ma al suo inizio o nelle conclusioni del ricorso (se pur con richiamo al motivo al quale è pertinente), non essendo decisiva la sua collocazione tipografica, ma deve comunque risultare come frutto di un’intenzionale articolazione di interpello alla Corte di legittimità sulla sintesi dialettica illustrata nel singolo motivo, atteso che la novità della riforma sta proprio nel porre a requisito fondamentale di ciascuna censura di violazione di legge la sintesi logico-giuridica della questione, onerando l’avvocato patrocinante in Cassazione di una formulazione consapevole, espressa e diretta di tale sintesi” [9].

Inoltre, in ragione della ora richiamata pronuncia, non sembrano sussistere nemmeno particolari prescrizioni con riferimento alla veste grafica del quesito all’interno del ricorso, purché sia ravvisabile “la chiara ed intenzionale articolazione di un quesito di diritto, in mancanza del quale il ricorso può essere trattato in camera di consiglio e dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 375, n. 5), c.p.c.” [vedasi nota 9]. Non è perciò rilevante un eccessivo formalismo ed una eccessiva aderenza al dettato normativo in tema di collocazione tipografica del quesito, purché questi risulti essere una coerente sintesi logico-giuridica della questione e possa, ovviamente, risalirsi al motivo di censura cui accede, ove non sia posto immediatamente al termine del motivo stesso.

Un’altra questione che la Corte di Cassazione ha affrontato in tema di quesito di diritto riguarda i cosiddetti “quesiti multipli”, ossia quelli mediante i quali alla Corte sia richiesto di formulare, contemporaneamente, più principi di diritto. La giurisprudenza si è perciò consolidata ritenendoli inammissibili: “il quesito di diritto imposto dalla D.Lgs. n. 40/2006, costituendo una forma di collaborazione alla funzione nomofilattica del giudice di legittimità, deve essere formulato in maniera tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un "si" o un "no. Quindi sono inammissibili i quesiti multipli che richiederebbero un intervento interpretativo della Corte che sconfinerebbe facilmente nella manipolazione o nella correzione, e che sarebbe volto, in primo luogo, a sciogliere il quesito multiplo in più questi semplici, per procedere, poi, alle singole risposte, che potrebbero essere tra loro diversificate” [10]; “nella proposizione del ricorso per cassazione il quesito di diritto deve essere formulato in modo tale che la Corte di Cassazione possa rispondere semplicemente con un sì o con un no alla sua vigenza e alla sua rilevanza. La formulazione di quesiti multipli, invece, rende probabile che il giudice si debba sostituire al ricorrente in una preventiva opera di semplificazione, per procedere, poi, alle singole risposte, che potrebbero essere tra loro diversificate. Ne deriva che il quesito multiplo è inammissibile perché richiede che l’attività della parte, di osservanza del suo onere di formulare il quesito di diritto, sia integrata con un intervento interpretativo della Corte, che sconfinerebbe facilmente nella manipolazione o nella correzione. Inoltre, l’inammissibilità sarebbe ancor più evidente quando i quesiti semplici, nei quali la Corte sciogliesse la complessità formulativa del quesito multiplo, richiedessero risposte differenziate” [11].

Ritengo che l’orientamento in questo senso adottato dalla Suprema Corte sia coerente con i principi di specificità e conferenza del quesito di diritto: infatti, le funzioni che il legislatore ha riservato al quesito stesso non potrebbero essere pienamente attuate laddove sia consentita la formulazione di quesiti multipli. Se questi ultimi fossero ammissibili, infatti, si aprirebbe la via all’interpretazione, con buona pace del principio di specificità. Si può allora convenire che il divieto di porre quesiti di diritto multipli altro non sia che un necessario corollario del rispetto del principio di specificità dei medesimi.

Un ultimo problema che la Corte di Cassazione ha affrontato riguarda, infine, il dubbio circa il dovere di formulare i quesiti di diritto nei casi di ricorso contemplati dall’art. 362 del codice di procedura civile (avverso le decisioni in grado di appello o in unico grado di giudice speciale per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso, ovvero conflitti positivi o negativi). Questione di non poco conto, essendo la posta in gioco l’eventuale inammissibilità del ricorso medesimo. Orbene, il tenore delle decisioni sinora adottate opera un importante distinguo, a seconda che si tratti di ricorso proposto ai sensi dell’art. 362, comma primo, del codice di procedura civile ovvero dell’art. 362, comma secondo, del codice di procedura civile.

Quanto al caso di ricorso proposto ai sensi del comma primo dell’art. 362 del codice di procedura civile “va dichiarato inammissibile, per violazione dell’art. 366-bis c.p.c., introdotto dall’art. 6, D.Lgs. n. 40 del 2006, il ricorso che per motivi di giurisdizione non reca in modo esplicito, per ciascun motivo, la formulazione di un quesito di diritto. Tale prescrizione non incontra ostacolo nel rilievo che la norma dell’art. 366-bis c.p.c. non contempli anche il caso previsto dall’art. 362 c.p.c., e cioè il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione contro le decisioni dei giudici speciali, non potendosi ritenere preclusa l’interpretazione estensiva di una norma che, per la sua formulazione, non consente di individuare le ragioni per le quali un siffatto ricorso debba trovare una diversa disciplina a secondo si rivolga contro una decisione del giudice ordinario ovvero contro una decisione del giudice speciale, sicché il mancato richiamo all’art. 362 c.p.c. va considerato frutto di un difetto di coordinamento dovuto a mera dimenticanza del legislatore” [12].

Diversamente avviene per i ricorso proposti ai sensi del secondo comma dell’art. 362 del codice di procedura civile: “nel ricorso in cassazione per conflitto di giurisdizione di cui all’art. 362, secondo comma, cod. proc. civ., non trova applicazione l’art. 366 bis dello stesso codice, che impone, a pena di inammissibilità, la formulazione di un quesito di diritto, atteso che tale norma fa esclusivo riferimento ai casi di ricorso previsti dall’art. 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4) cod. proc. civ. e che nel ricorso per conflitto di giurisdizione - il quale non costituisce mezzo di impugnazione - il quesito chiesto alla Corte risulta implicitamente formulato” [13].

Pertanto, la formulazione dei quesiti di diritto è esclusa in quest’ultimo caso perché, secondo l’opinione della Suprema Corte, il ricorso per conflitto di giurisdizione non costituisce mezzo di impugnazione.

Ragionando per esclusione e riassumendo, allora, dalla rassegna delle ora citate norme del codice di procedura civile e delle pronunce intervenute, emerge che i quesiti di diritto dovranno sempre essere formulati in maniera specifica, conferente al motivo e non in forma multipla, salvo che si tratti del caso previsto dall’art. 360, primo comma, n. 5) del codice di procedura civile, ovvero del caso contemplato dall’art. 362, comma secondo, del codice di procedura civile.

Sul tema dei quesiti, infine, si è pronunciata nuovamente la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza 9 maggio 2008, n. 11535, ritenendo inammissibile un ricorso ed enunciando il seguente principio: "i quesiti di diritto imposti dall’articolo 366 bis c.p.c., introdotto dall’articolo 6, comma 1, del Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità, rispondono alla esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie. Il quesito di diritto costituisce pertanto il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi non ammissibile, l’investitura stessa del giudice di legittimità” [14].

Possiamo perciò concludere che, a distanza di circa due anni dalla riforma, la Corte di Cassazione ha ormai tracciato i principi guida in materia di concreta formulazione dei quesiti di diritto, ai quali sarà opportuno attenersi onde evitare di incappare in una pronuncia di inammissibilità.

[1] Cass. civ. Sez. Unite, 05-02-2008, n. 2658.

[2] Silvia Rusciano, Il contenuto del ricorso per cassazione dopo il D.Lgs. 40/2006.La formulazione dei motivi: il quesito di diritto, in Corriere Giuridico 2007, 3, 436; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 529.

[3] Cass. civ. Sez. Unite, 05-01-2007, n. 36.

[4] Cass. civ. Sez. V, Sent. 21-05-2007, n. 11682.

[5] Cass. civ. Sez. Unite, Ord. 05-02-2008, n. 2658

[6] Si veda per tutte Cass. civ. Sez. Unite Sent., 28-09-2007, n. 20360.

[7] Cass. civ. Sez. Unite 2 aprile 2008, n. 8466.

[8] Cass. civ. Sez. Unite Sent. 28-09-2007, n. 20360.

[9] Cass. civ. Sez. I Ord. 07-06-2007, n. 13329.

[10] Cass. civ. Sez. V, 15-02-2008, n. 3896.

[11] Cass. civ. Sez. V, Sent. 29-01-2008, n. 1906.

[12] Cass. civ. Sez. Unite, 26-03-2007, n. 7258.

[13] Cass. civ. Sez. Unite Sent. 31-01-2008, n. 2280.

[14] Cass. civ. Sez. III, Sent. 09-05-2008, n. 11535.