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Licenziamento orale o dimissioni?

1. La questione

2. Le (discordanti) risposte fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza

3. Il fugace intervento legislativo del 2007

1. Nell’ambito della disciplina limitativa dei licenziamenti, che con riferimento al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ha oramai acquisito i tratti dell’universalità, fatta eccezione per le residuali ipotesi di recesso ad nutum (lavoratori in prova, lavoratori domestici, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto e sportivi professionisti), assume particolare rilievo il problema della ripartizione dell’onere probatorio sul quomodo della risoluzione del rapporto di lavoro.

Va infatti preliminarmente considerato che in tale ambito, ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 604 del 1966, il licenziamento deve rivestire la forma scritta, mentre nulla è previsto per le dimissioni del lavoratore o per la risoluzione consensuale del rapporto, che pertanto sono valide ed efficaci anche se comunicate oralmente.

L’interrogativo sorge allora spontaneo: quid iuris se il lavoratore, in giudizio, sostiene l’illegittimità del licenziamento intimatogli oralmente, mentre il datore di lavoro afferma che non vi è stato alcun licenziamento, ma che la risoluzione del rapporto è avvenuta in seguito a dimissioni oppure consensualmente?

In siffatta ipotesi verrebbe difatti a mancare qualsiasi riscontro formale delle affermazioni delle parti: risulta così di notevole importanza la ripartizione dell’onere probatorio, ossia stabilire precisamente “chi” debba provare “cosa”.

2. Diversi sono gli orientamenti che si sono formati, in dottrina come in giurisprudenza.

Un primo orientamento, più risalente nonché più rigoroso, richiede al lavoratore la prova dell’esistenza di un atto estintivo posto in essere dal datore di lavoro, e non la mera circostanza della cessazione di fatto del rapporto[1].

Questo filone sembra applicare fedelmente il principio generale, ricavabile dal primo comma dell’articolo 2697 del codice civile[2], in base al quale l’onere della prova incumbit ei qui dicitur: poiché è il lavoratore che si fa attore in giudizio contestando la legittimità del licenziamento orale, spetta a lui il pur difficile compito di provarlo, dimostrando così che non si è trattato, come invece asserisce il datore, di dimissioni. Qualora il lavoratore riesca ad assolvere il proprio onere probatorio toccherà al datore di lavoro produrre un atto di recesso avente forma scritta, mentre qualora non vi riesca l’esito processuale non potrà che essere, a rigore, la soccombenza dell’attore ed il rigetto del ricorso: actore non probante reus absolvitur.

Tuttavia una tale impostazione è stata criticata sotto vari aspetti.

Con riguardo alle sue implicazioni sostanziali si è sostenuto che «in via di paradosso ma non troppo, al datore potrebbe convenire intimare un licenziamento orale in assenza di testimoni per riuscire ad allontanare il lavoratore in modo arbitrario» (L. LAZZERONI, Oralità del licenziamento, convalida dell’atto e onere della prova circa l’esistenza dell’atto medesimo, in Riv. it. dir. lav., 2008, 2, 439).

Da un punto di vista più prettamente giuridico si è osservato che nel caso in cui manchi, oltre alla prova del licenziamento orale da parte del lavoratore, la prova datoriale del fatto interruttivo del rapporto, il vincolo negoziale finirebbe per essere comunque ritenuto validamente sciolto, ad evidente svantaggio del lavoratore. Una tale conclusione non sarebbe però condivisibile: l’allegazione, non sufficientemente provata, di contrapposte cause di risoluzione dovrebbe infatti indurre a ritenere che il rapporto non si sia mai risolto.

In altri termini poiché non vi è sufficiente prova né di un licenziamento né di dimissioni, al giudice non resterebbe che constatare la mera non esecuzione del rapporto, con la conseguenza che, qualora il lavoratore si sia ripresentato con sufficiente tempestività al lavoro, il datore che abbia rifiutato di ricevere la prestazione lavorativa dovrebbe essere considerato in una situazione di mora credendi[3].

Anche questa tesi, tuttavia, è stata a sua volta sottoposta ad alcuni rilievi critici (in particolare da G. FRUS, Sulla ripartizione dell’onere della prova in ordine all’inefficacia del licenziamento ex art. 2 della l. n. 604 del 1966 e alla tempestività della sua impugnazione, in Riv. giur. lav., 1983, I, 427).

In primo luogo si è dubitato della sua compatibilità con il principio processuale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato sancito dall’articolo 112 cod. proc. civ., interrogandosi su come il giudice possa accertare la prosecuzione del rapporto quando tale richiesta non è stata formulata da nessuno dei contendenti, che hanno, al contrario, fondato entrambi le proprie domande sull’altrui recesso. Si è rilevato che l’affermazione circa la continuazione del rapporto non potrebbe formare oggetto di statuizione giudiziale, trovando al più collocazione, quale corollario logico, nella parte motiva della sentenza, e pertanto non sarebbe coperta da giudicato.

In secondo luogo la tesi sopra delineata si allontanerebbe ulteriormente dalla verità materiale, giungendo a considerare accertata proprio quella circostanza, ossia la pacifica prosecuzione del rapporto, che la logica vuole esclusa.

La soluzione del problema interpretativo andrebbe ricercata, secondo quest’altra impostazione, nel fenomeno delle “presunzioni giurisprudenziali”, fondate su massime d’esperienza, principi equitativi e di ragionevolezza, evitando un’applicazione troppo rigida dell’onere della prova.

È stato infatti evidenziato che «non sembra azzardato, nell’attuale situazione del mercato del lavoro, caratterizzata da una notevole sproporzione tra domanda e offerta, ritenere che, ove si controverta fra le parti sull’imputabilità della causa estintiva del rapporto sia più ragionevole, verosimile e probabile che nella realtà sia stato il datore di lavoro a licenziare, piuttosto che il lavoratore a dimettersi» (G. FRUS, op. cit., 434). In pratica, quindi, dovrebbe operare la presunzione che la cessazione del rapporto di lavoro derivi da un licenziamento, con la conseguenza che sarebbe il datore di lavoro, convenuto, a dover provare una causa estintiva diversa.

Sia pure attraverso altre argomentazioni, è sostanzialmente questo il risultato a cui è pervenuto l’orientamento giurisprudenziale prevalente, secondo il quale è sufficiente che il lavoratore provi il fatto dell’interruzione del rapporto, cioè la mancata accettazione, da parte del datore, della prestazione lavorativa messagli a disposizione, e non anche il licenziamento, ricadendo a quel punto sul datore di lavoro la prova che il rapporto si sia estinto per dimissioni, per mutuo consenso o con atto di recesso intimato in forma scritta[4].

Questo orientamento sposta l’accento dal primo al secondo comma dell’art. 2697 cod. civ., che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi, estintivi o impeditivi del diritto fatto valere dalla parte attrice.

Per quanto concerne il contenuto della prova sarà così sufficiente che il lavoratore provi la mancata accettazione della prestazione lavorativa da parte del datore.

Laddove invece, seguendo l’orientamento più rigoroso, si faccia gravare sul lavoratore la prova del licenziamento orale, fortemente sintomatiche possono essere considerate, oltre alla mancata accettazione della prestazione, l’impugnazione proposta immediatamente dopo la cessazione di fatto del rapporto nonché la richiesta dei motivi di tale cessazione (Cass., 8 giugno 2000, n. 7839, in Mass., 2000), la successiva assenza dal lavoro protratta per alcuni giorni (Cass., 11 marzo 1995, n. 2853, in Mass. giur. lav., 1995, 406), la proposta del datore di lavoro di continuare il rapporto, anche con modalità diverse (Cass., 16 maggio 2001, n. 6727, in Mass. giur. lav., 2001, 893).

Una volta che il lavoratore abbia soddisfatto il proprio onere probatorio, più o meno gravoso che fosse, spetterà al datore di lavoro fornire la prova delle asserite dimissioni.

Relativamente ad essa si ritiene che, in considerazione della gravità delle conseguenze dell’accertamento, incidenti su beni giuridici che formano oggetto di tutela privilegiata da parte dell’ordinamento, l’indagine del giudice di merito sul significato della dichiarazione o del comportamento concludente del lavoratore da cui si pretenda di desumere il valore negoziale di recesso debba essere particolarmente rigorosa e tener adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in modo tale che la reale volontà del lavoratore di porre fine al rapporto possa essere desunta con certezza (tra le tante Cass., 6 dicembre 2004, n. 22852, in Mass., 2004).

Comunque, uno specifico rilevo dovrebbe essere assegnato al tempo intercorso tra l’episodio in contestazione e la reazione del lavoratore, indipendentemente dal fatto che si tratti di impugnazione del licenziamento o di offerta della prestazione lavorativa, giacché al comportamento di chi, dopo essersene andato, per diversi mesi non si presenta sul luogo di lavoro non può che assegnarsi un forte valore confermativo della reale volontà di dimettersi (A. VALLEBONA, Un caso di scuola prima del divieto, in Mass. giur. lav., 2008, 3, 158).

Bisogna tuttavia considerare che, essendo le dimissioni un atto recettizio, il comportamento concludente, oltre che non equivoco, deve anche risultare posto in essere con modalità tali da renderlo conoscibile al destinatario, e produce effetti a partire da questo momento.

Nella particolare ipotesi in cui clausole del contratto collettivo o individuale assegnino a determinati comportamenti del lavoratore il significato di dimissioni[5], la giurisprudenza rileva come alle parti non sia consentito introdurre un terzo genere di recesso unilaterale: esse, pertanto, non possono attribuire valore di dimissioni ad un comportamento che sia svincolato dall’effettiva volontà della parte e che non ammetta la possibilità di prova contraria. Qualora lo facciano, il patto non sarebbe una legittima espressione dell’autonomia negoziale, ma costituirebbe in realtà un’inammissibile ed invalida clausola risolutiva espressa del rapporto di lavoro.

È ben possibile, invece, che le parti nel contratto collettivo o individuale prevedano espressamente, per le dimissioni, la forma scritta[6], la quale, a norma del disposto dell’art. 1352 del codice civile[7], si presume voluta per la validità dell’atto. Una tale previsione è anzi auspicabile, perché semplifica notevolmente il quadro probatorio, posto che, evidentemente, in difetto di documento scritto le dimissioni non potrebbero essere considerate valide.

3. Non si può non rilevare che nel 2007 era intervenuto il legislatore a generalizzare l’obbligo della forma scritta per le dimissioni.

La legge 17 ottobre 2007, n. 188, aveva infatti dettato nuove «disposizioni in materia di modalità per la risoluzione del contratto di lavoro per dimissioni volontarie», escludendo qualsiasi efficacia per quelle rassegnate oralmente.

L’intento perseguito era in realtà quello di contrastare l’odiosa pratica delle dimissioni “in bianco”, sintetizzabile così: al momento dell’assunzione, in cui è notevole lo squilibrio tra la posizione contrattuale delle parti, viene fatta firmare al lavoratore una lettera di dimissioni priva di data, che il datore di lavoro potrà utilizzare al momento in cui vorrà liberarsi del dipendente sgradito. In questo modo quello che nella sostanza è un licenziamento viene ad assumere la forma di un atto di dimissioni, a tutto vantaggio, ovviamente, del datore di lavoro.

È chiaro che questa pratica sia illecita, ma la sua dimostrazione è assai difficile e ricade sul lavoratore: se riesce a provarla le dimissioni sono nulle, altrimenti sono valide.

Al fine di bandirla la legge n. 188 del 2007[8] prevedeva che le dimissioni volontarie dovessero essere presentate dal lavoratore, a pena di nullità, su appositi moduli aventi la validità di quindici giorni dalla data di emissione, disponibili sul sito del Ministero del Lavoro o presso la sede di uno dei soggetti abilitati.

Sebbene imperfetta la nuova disciplina aveva il merito, oltre ad incidere sulla pratica delle dimissioni in bianco, di rendere più semplice ed immediato l’accertamento sull’effettiva causa di estinzione del rapporto.

Difatti, durante il periodo di vigenza della legge, per affermare che un rapporto di lavoro fosse cessato per dimissioni era indefettibilmente necessario accertarsi dell’avvenuto rispetto, da parte del lavoratore, della forma tipica prescritta: in mancanza, sicuramente il rapporto di lavoro non avrebbe potuto considerarsi cessato per iniziativa unilaterale del lavoratore.

Vero è che tertium datur: era ben possibile che il rapporto potesse cessare, oltre che per iniziativa datoriale, per mutuo consenso, per il quale continuavano a non essere richiesti oneri formali.

Ad ogni modo il decreto legge 25 giugno del 2008, n. 112, convertito in legge n. 133 del 2008, anziché estendere il vincolo formale alla risoluzione consensuale del contratto di lavoro ha, nell’ottica di snellire gli «adempimenti di natura formale nella gestione dei rapporti di lavoro»[9], abrogato integralmente la legge.

Dopo meno di un anno, quindi, tutto è tornato come prima: il lavoratore nel momento in cui intenda rassegnare le dimissioni non è tenuto al rispetto di nessuna formalità e di conseguenza si fa maggiormente complesso l’accertamento della causa estintiva del rapporto.



[1] In giurisprudenza, fra le prime, Cass., 22 marzo 1963, n. 701, in Mass. Foro it., 1963, 168. Più recentemente: Cass., 25 febbraio 2000, n. 2162, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 175; Cass., 25 ottobre 2004, n. 20700, in Mass. giur. lav., 2005, 212; Cass., 16 ottobre 2007, n. 21607, in Lav. e prev. oggi, 2008, 810; Trib. Milano, 9 dicembre 2008, in Orient. giur. lav., 2008, I, 1033. In dottrina a sostegno di tale orientamento, tra gli altri, G. PERA, La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, 129; A. VALLEBONA, L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, 62; F. MAZZIOTTI, I licenziamenti dopo la l. 11 maggio 1990, n. 108, Torino, 1991, 167.

[2] Che stabilisce: « Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento ».

[3] P. G. ALLEVA, L’onere della prova nel dilemma giudiziario tra dimissioni orali e licenziamento orale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 349. In giurisprudenza v. Cass., 16 maggio 2001, n. 6727, in Mass. giur. lav., 2001, 893.

[4] V., fra le tante, Cass., 8 gennaio 2009, n. 155, in Riv. giur. lav., 2009, II, 579; Cass., 27 agosto 2007, n. 18087, in Not. giur. lav., 2008, 108; Cass., 20 maggio 2005, n. 10651, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 454; Cass., 13 aprile 2005, n. 7614, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 537; Cass., 26 ottobre 1998, n. 10648, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 693.

[5] È il caso, ad esempio, del comma 8 dell’art. 60 c. c. n. l. alimentari-industria, secondo cui, qualora all’atto dell’assunzione sia stata espressamente prevista la facoltà dell’azienda di trasferire il lavoratore, la mancata accettazione « verrà considerata come dimissioni ».

[6] Nella contrattazione collettiva non è infrequente: si vedano, ad esempio, l’art. 96, comma 1, c. c. n. l. tessili-industria; l’art. 72 c. c. n. l. alimentari-industria; l’art. 63 c. c. n. l. credito.

[7] L’art. 1352 cod. civ. stabilisce che « Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo ».

[8] Specificata con decreto interministeriale del 21 gennaio 2008 emanato dal Ministero del Lavoro di concerto con il Ministero delle Riforme e le Innovazioni nella pubblica amministrazione, e resa oggetto dei chiarimenti forniti con le circolari del 4 e 25 marzo e con il decreto ministeriale del 31 marzo emanati dal dicastero del Welfare.

[9] È il titolo della rubrica dell’art. 39 del decreto legge 112 del 2008.

1. La questione

2. Le (discordanti) risposte fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza

3. Il fugace intervento legislativo del 2007

1. Nell’ambito della disciplina limitativa dei licenziamenti, che con riferimento al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ha oramai acquisito i tratti dell’universalità, fatta eccezione per le residuali ipotesi di recesso ad nutum (lavoratori in prova, lavoratori domestici, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto e sportivi professionisti), assume particolare rilievo il problema della ripartizione dell’onere probatorio sul quomodo della risoluzione del rapporto di lavoro.

Va infatti preliminarmente considerato che in tale ambito, ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 604 del 1966, il licenziamento deve rivestire la forma scritta, mentre nulla è previsto per le dimissioni del lavoratore o per la risoluzione consensuale del rapporto, che pertanto sono valide ed efficaci anche se comunicate oralmente.

L’interrogativo sorge allora spontaneo: quid iuris se il lavoratore, in giudizio, sostiene l’illegittimità del licenziamento intimatogli oralmente, mentre il datore di lavoro afferma che non vi è stato alcun licenziamento, ma che la risoluzione del rapporto è avvenuta in seguito a dimissioni oppure consensualmente?

In siffatta ipotesi verrebbe difatti a mancare qualsiasi riscontro formale delle affermazioni delle parti: risulta così di notevole importanza la ripartizione dell’onere probatorio, ossia stabilire precisamente “chi” debba provare “cosa”.

2. Diversi sono gli orientamenti che si sono formati, in dottrina come in giurisprudenza.

Un primo orientamento, più risalente nonché più rigoroso, richiede al lavoratore la prova dell’esistenza di un atto estintivo posto in essere dal datore di lavoro, e non la mera circostanza della cessazione di fatto del rapporto[1].

Questo filone sembra applicare fedelmente il principio generale, ricavabile dal primo comma dell’articolo 2697 del codice civile[2], in base al quale l’onere della prova incumbit ei qui dicitur: poiché è il lavoratore che si fa attore in giudizio contestando la legittimità del licenziamento orale, spetta a lui il pur difficile compito di provarlo, dimostrando così che non si è trattato, come invece asserisce il datore, di dimissioni. Qualora il lavoratore riesca ad assolvere il proprio onere probatorio toccherà al datore di lavoro produrre un atto di recesso avente forma scritta, mentre qualora non vi riesca l’esito processuale non potrà che essere, a rigore, la soccombenza dell’attore ed il rigetto del ricorso: actore non probante reus absolvitur.

Tuttavia una tale impostazione è stata criticata sotto vari aspetti.

Con riguardo alle sue implicazioni sostanziali si è sostenuto che «in via di paradosso ma non troppo, al datore potrebbe convenire intimare un licenziamento orale in assenza di testimoni per riuscire ad allontanare il lavoratore in modo arbitrario» (L. LAZZERONI, Oralità del licenziamento, convalida dell’atto e onere della prova circa l’esistenza dell’atto medesimo, in Riv. it. dir. lav., 2008, 2, 439).

Da un punto di vista più prettamente giuridico si è osservato che nel caso in cui manchi, oltre alla prova del licenziamento orale da parte del lavoratore, la prova datoriale del fatto interruttivo del rapporto, il vincolo negoziale finirebbe per essere comunque ritenuto validamente sciolto, ad evidente svantaggio del lavoratore. Una tale conclusione non sarebbe però condivisibile: l’allegazione, non sufficientemente provata, di contrapposte cause di risoluzione dovrebbe infatti indurre a ritenere che il rapporto non si sia mai risolto.

In altri termini poiché non vi è sufficiente prova né di un licenziamento né di dimissioni, al giudice non resterebbe che constatare la mera non esecuzione del rapporto, con la conseguenza che, qualora il lavoratore si sia ripresentato con sufficiente tempestività al lavoro, il datore che abbia rifiutato di ricevere la prestazione lavorativa dovrebbe essere considerato in una situazione di mora credendi[3].

Anche questa tesi, tuttavia, è stata a sua volta sottoposta ad alcuni rilievi critici (in particolare da G. FRUS, Sulla ripartizione dell’onere della prova in ordine all’inefficacia del licenziamento ex art. 2 della l. n. 604 del 1966 e alla tempestività della sua impugnazione, in Riv. giur. lav., 1983, I, 427).

In primo luogo si è dubitato della sua compatibilità con il principio processuale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato sancito dall’articolo 112 cod. proc. civ., interrogandosi su come il giudice possa accertare la prosecuzione del rapporto quando tale richiesta non è stata formulata da nessuno dei contendenti, che hanno, al contrario, fondato entrambi le proprie domande sull’altrui recesso. Si è rilevato che l’affermazione circa la continuazione del rapporto non potrebbe formare oggetto di statuizione giudiziale, trovando al più collocazione, quale corollario logico, nella parte motiva della sentenza, e pertanto non sarebbe coperta da giudicato.

In secondo luogo la tesi sopra delineata si allontanerebbe ulteriormente dalla verità materiale, giungendo a considerare accertata proprio quella circostanza, ossia la pacifica prosecuzione del rapporto, che la logica vuole esclusa.

La soluzione del problema interpretativo andrebbe ricercata, secondo quest’altra impostazione, nel fenomeno delle “presunzioni giurisprudenziali”, fondate su massime d’esperienza, principi equitativi e di ragionevolezza, evitando un’applicazione troppo rigida dell’onere della prova.

È stato infatti evidenziato che «non sembra azzardato, nell’attuale situazione del mercato del lavoro, caratterizzata da una notevole sproporzione tra domanda e offerta, ritenere che, ove si controverta fra le parti sull’imputabilità della causa estintiva del rapporto sia più ragionevole, verosimile e probabile che nella realtà sia stato il datore di lavoro a licenziare, piuttosto che il lavoratore a dimettersi» (G. FRUS, op. cit., 434). In pratica, quindi, dovrebbe operare la presunzione che la cessazione del rapporto di lavoro derivi da un licenziamento, con la conseguenza che sarebbe il datore di lavoro, convenuto, a dover provare una causa estintiva diversa.

Sia pure attraverso altre argomentazioni, è sostanzialmente questo il risultato a cui è pervenuto l’orientamento giurisprudenziale prevalente, secondo il quale è sufficiente che il lavoratore provi il fatto dell’interruzione del rapporto, cioè la mancata accettazione, da parte del datore, della prestazione lavorativa messagli a disposizione, e non anche il licenziamento, ricadendo a quel punto sul datore di lavoro la prova che il rapporto si sia estinto per dimissioni, per mutuo consenso o con atto di recesso intimato in forma scritta[4].

Questo orientamento sposta l’accento dal primo al secondo comma dell’art. 2697 cod. civ., che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi, estintivi o impeditivi del diritto fatto valere dalla parte attrice.

Per quanto concerne il contenuto della prova sarà così sufficiente che il lavoratore provi la mancata accettazione della prestazione lavorativa da parte del datore.

Laddove invece, seguendo l’orientamento più rigoroso, si faccia gravare sul lavoratore la prova del licenziamento orale, fortemente sintomatiche possono essere considerate, oltre alla mancata accettazione della prestazione, l’impugnazione proposta immediatamente dopo la cessazione di fatto del rapporto nonché la richiesta dei motivi di tale cessazione (Cass., 8 giugno 2000, n. 7839, in Mass., 2000), la successiva assenza dal lavoro protratta per alcuni giorni (Cass., 11 marzo 1995, n. 2853, in Mass. giur. lav., 1995, 406), la proposta del datore di lavoro di continuare il rapporto, anche con modalità diverse (Cass., 16 maggio 2001, n. 6727, in Mass. giur. lav., 2001, 893).

Una volta che il lavoratore abbia soddisfatto il proprio onere probatorio, più o meno gravoso che fosse, spetterà al datore di lavoro fornire la prova delle asserite dimissioni.

Relativamente ad essa si ritiene che, in considerazione della gravità delle conseguenze dell’accertamento, incidenti su beni giuridici che formano oggetto di tutela privilegiata da parte dell’ordinamento, l’indagine del giudice di merito sul significato della dichiarazione o del comportamento concludente del lavoratore da cui si pretenda di desumere il valore negoziale di recesso debba essere particolarmente rigorosa e tener adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in modo tale che la reale volontà del lavoratore di porre fine al rapporto possa essere desunta con certezza (tra le tante Cass., 6 dicembre 2004, n. 22852, in Mass., 2004).

Comunque, uno specifico rilevo dovrebbe essere assegnato al tempo intercorso tra l’episodio in contestazione e la reazione del lavoratore, indipendentemente dal fatto che si tratti di impugnazione del licenziamento o di offerta della prestazione lavorativa, giacché al comportamento di chi, dopo essersene andato, per diversi mesi non si presenta sul luogo di lavoro non può che assegnarsi un forte valore confermativo della reale volontà di dimettersi (A. VALLEBONA, Un caso di scuola prima del divieto, in Mass. giur. lav., 2008, 3, 158).

Bisogna tuttavia considerare che, essendo le dimissioni un atto recettizio, il comportamento concludente, oltre che non equivoco, deve anche risultare posto in essere con modalità tali da renderlo conoscibile al destinatario, e produce effetti a partire da questo momento.

Nella particolare ipotesi in cui clausole del contratto collettivo o individuale assegnino a determinati comportamenti del lavoratore il significato di dimissioni[5], la giurisprudenza rileva come alle parti non sia consentito introdurre un terzo genere di recesso unilaterale: esse, pertanto, non possono attribuire valore di dimissioni ad un comportamento che sia svincolato dall’effettiva volontà della parte e che non ammetta la possibilità di prova contraria. Qualora lo facciano, il patto non sarebbe una legittima espressione dell’autonomia negoziale, ma costituirebbe in realtà un’inammissibile ed invalida clausola risolutiva espressa del rapporto di lavoro.

È ben possibile, invece, che le parti nel contratto collettivo o individuale prevedano espressamente, per le dimissioni, la forma scritta[6], la quale, a norma del disposto dell’art. 1352 del codice civile[7], si presume voluta per la validità dell’atto. Una tale previsione è anzi auspicabile, perché semplifica notevolmente il quadro probatorio, posto che, evidentemente, in difetto di documento scritto le dimissioni non potrebbero essere considerate valide.

3. Non si può non rilevare che nel 2007 era intervenuto il legislatore a generalizzare l’obbligo della forma scritta per le dimissioni.

La legge 17 ottobre 2007, n. 188, aveva infatti dettato nuove «disposizioni in materia di modalità per la risoluzione del contratto di lavoro per dimissioni volontarie», escludendo qualsiasi efficacia per quelle rassegnate oralmente.

L’intento perseguito era in realtà quello di contrastare l’odiosa pratica delle dimissioni “in bianco”, sintetizzabile così: al momento dell’assunzione, in cui è notevole lo squilibrio tra la posizione contrattuale delle parti, viene fatta firmare al lavoratore una lettera di dimissioni priva di data, che il datore di lavoro potrà utilizzare al momento in cui vorrà liberarsi del dipendente sgradito. In questo modo quello che nella sostanza è un licenziamento viene ad assumere la forma di un atto di dimissioni, a tutto vantaggio, ovviamente, del datore di lavoro.

È chiaro che questa pratica sia illecita, ma la sua dimostrazione è assai difficile e ricade sul lavoratore: se riesce a provarla le dimissioni sono nulle, altrimenti sono valide.

Al fine di bandirla la legge n. 188 del 2007[8] prevedeva che le dimissioni volontarie dovessero essere presentate dal lavoratore, a pena di nullità, su appositi moduli aventi la validità di quindici giorni dalla data di emissione, disponibili sul sito del Ministero del Lavoro o presso la sede di uno dei soggetti abilitati.

Sebbene imperfetta la nuova disciplina aveva il merito, oltre ad incidere sulla pratica delle dimissioni in bianco, di rendere più semplice ed immediato l’accertamento sull’effettiva causa di estinzione del rapporto.

Difatti, durante il periodo di vigenza della legge, per affermare che un rapporto di lavoro fosse cessato per dimissioni era indefettibilmente necessario accertarsi dell’avvenuto rispetto, da parte del lavoratore, della forma tipica prescritta: in mancanza, sicuramente il rapporto di lavoro non avrebbe potuto considerarsi cessato per iniziativa unilaterale del lavoratore.

Vero è che tertium datur: era ben possibile che il rapporto potesse cessare, oltre che per iniziativa datoriale, per mutuo consenso, per il quale continuavano a non essere richiesti oneri formali.

Ad ogni modo il decreto legge 25 giugno del 2008, n. 112, convertito in legge n. 133 del 2008, anziché estendere il vincolo formale alla risoluzione consensuale del contratto di lavoro ha, nell’ottica di snellire gli «adempimenti di natura formale nella gestione dei rapporti di lavoro»[9], abrogato integralmente la legge.

Dopo meno di un anno, quindi, tutto è tornato come prima: il lavoratore nel momento in cui intenda rassegnare le dimissioni non è tenuto al rispetto di nessuna formalità e di conseguenza si fa maggiormente complesso l’accertamento della causa estintiva del rapporto.



[1] In giurisprudenza, fra le prime, Cass., 22 marzo 1963, n. 701, in Mass. Foro it., 1963, 168. Più recentemente: Cass., 25 febbraio 2000, n. 2162, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 175; Cass., 25 ottobre 2004, n. 20700, in Mass. giur. lav., 2005, 212; Cass., 16 ottobre 2007, n. 21607, in Lav. e prev. oggi, 2008, 810; Trib. Milano, 9 dicembre 2008, in Orient. giur. lav., 2008, I, 1033. In dottrina a sostegno di tale orientamento, tra gli altri, G. PERA, La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, 129; A. VALLEBONA, L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, 62; F. MAZZIOTTI, I licenziamenti dopo la l. 11 maggio 1990, n. 108, Torino, 1991, 167.

[2] Che stabilisce: « Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento ».

[3] P. G. ALLEVA, L’onere della prova nel dilemma giudiziario tra dimissioni orali e licenziamento orale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 349. In giurisprudenza v. Cass., 16 maggio 2001, n. 6727, in Mass. giur. lav., 2001, 893.

[4] V., fra le tante, Cass., 8 gennaio 2009, n. 155, in Riv. giur. lav., 2009, II, 579; Cass., 27 agosto 2007, n. 18087, in Not. giur. lav., 2008, 108; Cass., 20 maggio 2005, n. 10651, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 454; Cass., 13 aprile 2005, n. 7614, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 537; Cass., 26 ottobre 1998, n. 10648, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 693.

[5] È il caso, ad esempio, del comma 8 dell’art. 60 c. c. n. l. alimentari-industria, secondo cui, qualora all’atto dell’assunzione sia stata espressamente prevista la facoltà dell’azienda di trasferire il lavoratore, la mancata accettazione « verrà considerata come dimissioni ».

[6] Nella contrattazione collettiva non è infrequente: si vedano, ad esempio, l’art. 96, comma 1, c. c. n. l. tessili-industria; l’art. 72 c. c. n. l. alimentari-industria; l’art. 63 c. c. n. l. credito.

[7] L’art. 1352 cod. civ. stabilisce che « Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo ».

[8] Specificata con decreto interministeriale del 21 gennaio 2008 emanato dal Ministero del Lavoro di concerto con il Ministero delle Riforme e le Innovazioni nella pubblica amministrazione, e resa oggetto dei chiarimenti forniti con le circolari del 4 e 25 marzo e con il decreto ministeriale del 31 marzo emanati dal dicastero del Welfare.

[9] È il titolo della rubrica dell’art. 39 del decreto legge 112 del 2008.