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Rinnovazione del licenziamento, reiterazione, rilicenziamento

Un pò di chiarezza sulle facoltà datoriali di comminare un secondo atto di recesso nei confronti dello stesso lavoratore

1. Rinnovazione

2. Reiterazione

3. Rilicenziamento

1. Secondo la giurisprudenza dominante il licenziamento che presenti un vizio formale- procedurale, salvo rare eccezioni*1, è inidoneo ad incidere sulla continuità del rapporto, che quindi rimane giuridicamente in vita.

Ciò comporta la possibilità per il datore di lavoro di rinnovare il licenziamento originariamente viziato, sulla base degli stessi motivi addotti in precedenza, rispettando però le prescritte formalità e modalità omesse nell’ intimazione del primo recesso.

Ovviamente tale rinnovazione non potrà mai configurarsi come convalida volta a sanare con efficacia ex tunc i vizi che gravano il recesso già intimato, in quanto una simile previsione sarebbe contraria al principio generale sancito dall’art. 1423 cod. civ., il quale, rubricato “Inammissibilità della convalida”, prevede che «il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente».

Più semplicemente, allora, la rinnovazione costituirà un atto diverso dal precedente: un nuovo licenziamento che, seppur dovuto ai medesimi motivi del primo recesso, non presenta né i vizi né l’efficacia di quest’ultimo, essendo perfetto dal punto di vista formale e decorrendo ex nunc dal momento in cui è portato a conoscenza del lavoratore (così, recentemente, Cass., 6 novembre 2006, n. 23641, in Dir. mercato lav., 2006, 622, e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Reggio Calabria, 26 aprile 2006, in Giur. merito, 2007, 2, 375).

Si può dunque affermare che il successivo licenziamento basato sugli stessi motivi posti a fondamento del precedente ha, rispetto a quest’ultimo, una propria autonomia sia strutturale, non risolvendosi in un richiamo per relationem, sia funzionale, non essendo diretto a dare al precedente recesso un’efficacia ex tunc (R. TRIVELLINI, Rinnovazione del licenziamento e “rilicenziamento”, in Dir. e prat. lav., 2004, 2610).

Vi è però un elemento, pur sempre inerente ai presupposti formali del licenziamento, che, per la sua natura irreversibile, non può essere rinnovato, e la cui mancanza in occasione del primo recesso determina automaticamente, oltre all’invalidità di questo, anche quella del successivo: si tratta della tempestività della contestazione dell’addebito, ovviamente in ipotesi di licenziamento di natura disciplinare.

È intuitivo, infatti, che una contestazione non tempestiva in relazione al primo recesso, per l’ovvia difficoltà di ricordare fatti assai risalenti nel tempo, impedisca il pieno e corretto esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, e che, essendo il secondo recesso cronologicamente successivo al primo, la rinnovata contestazione disciplinare non potrà che porsi ad una maggiore distanza temporale dai fatti contestati, essere intempestiva e viziare il nuovo licenziamento.

Da ultimo, resta da considerare che pare ormai superato quell’orientamento giurisprudenziale, peraltro minoritario, secondo il quale la rinnovazione di un licenziamento viziato sotto il profilo formale sarebbe possibile soltanto in caso di avvenuta ricostituzione del rapporto di lavoro, conseguente alla revoca del precedente provvedimento (C. App. Roma, 28 maggio 2001, in Nuovo dir., 2001, 1004) o ad una pronuncia di invalidità da parte del giudice (Pret. Roma, 19 novembre 1997, in Giur. lav. Lazio, 1998, 198), in quanto il licenziamento reiterato prima di tale momento sarebbe nullo per inesistenza dell’oggetto.

È invece pacifico che la rinnovazione del recesso in base agli stessi motivi sostanziali, ma con le dovute formalità, sia possibile anche se la questione della validità del primo recesso sia ancora sub iudice*2, giacché non è la persistenza di fatto del rapporto, bensì la sua esistenza giuridica a costituire il presupposto indispensabile per l’ intimazione di un secondo licenziamento.

Naturalmente, se la rinnovazione interviene quando il primo recesso è ancora sub iudice, essa vale ad interrompere con efficacia ex nunc il rapporto che si verrebbe eventualmente a ricostituire per effetto della sentenza che rilevi l’invalidità, nonché a limitare i danni dovuti alle sole retribuzioni maturate tra il primo ed il secondo licenziamento, salvo il limite minimo delle cinque mensilità qualora sia applicabile l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

2. Ad esiti completamente differenti si giungerà, invece, laddove il giudice affermi la piena legittimità del primo licenziamento: in tale caso dovrà infatti ritenersi che il potere di rilicenziare sussistente in capo al datore si sia “consumato” con l’intimazione del primo recesso, e, pertanto, il secondo sia inefficace perché privo di ragione e funzione (G. MANNACIO, La reiterazione del licenziamento. Un problema di rilevanza pratica, in Lav. giur., 1995, 748).

In altri termini si verifica in siffatta ipotesi, più che una rinnovazione del licenziamento, una mera reiterazione dello stesso, che ricorre in tutti i casi in cui, per l’appunto, il datore di lavoro senza revocare il precedente recesso reiteri un provvedimento espulsivo in sé valido dal punto di vista formale e sostanziale, incorrendo conseguentemente nel divieto del ne bis in idem (R. TRIVELLINI, Rinnovazione del licenziamento e “rilicenziamento”, in Dir. e prat. lav., 2004, 2616).

3. Ancora diversa è l’ipotesi del “rilicenziamento”, termine con il quale si indica la possibilità per il datore di lavoro, che abbia già licenziato un proprio dipendente sulla base di determinate ragioni, di intimargli un secondo licenziamento fondato però su ragioni giustificatrici diverse.

Come per la rinnovazione, l’ammissibilità del rilicenziamento è riconosciuta laddove l’illegittimità del primo recesso renda quest’ultimo inidoneo ad incidere sulla continuità giuridica del rapporto. Considerata la natura sostanziale del vizio del primo recesso, il rilicenziamento sarà possibile soltanto nell’ area di applicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Si deve però segnalare che nell’ ultimo decennio alcune decisioni giurisprudenziali hanno ritenuto il secondo licenziamento privo di oggetto (o di causa o di interesse), avendo già il primo raggiunto l’effetto di far estinguere il rapporto di lavoro*3.

Un nuovo licenziamento, pertanto, potrebbe essere validamente intimato soltanto a seguito della sentenza giudiziale che accerti l’illegittimità del primo e disponga in ragione di ciò la reintegrazione del lavoratore ai sensi dell’art. 18 St. lav., oltre al risarcimento del danno.

Alla base di tale conclusione vi è una complessa interpretazione della struttura dell’art. 18, il quale, pur prevedendo le medesime conseguenze sanzionatorie, ossia la ricostruzione integrale degli effetti del rapporto lavorativo, qualifica come annullabile il licenziamento privo di giustificazione, inefficace quello intimato in violazione dell’art. 2 l. n. 604 del 1966 e nullo quello discriminatorio.

Secondo tale interpretazione, mentre un licenziamento nullo/inefficace, non producendo effetti, non è idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro, potendo quindi essere seguito da un successivo efficace recesso, un licenziamento annullabile ex art. 18 St. lav. «produce regolarmente l’effetto di far cessare il rapporto», e la retroattività della sentenza di annullamento non potrebbe riguardare gli atti datoriali successivi a tale recesso, che sono «da ritenersi disattivati perché svoltisi nell’arco di tempo in cui il rapporto era ormai estinto» (Cass., 5 aprile 2001, n. 5092, in Foro it., 2001, I, 2528) e dunque incapaci di adempiere la loro funzione, compresa quella estintiva del rapporto medesimo.

Si tratta, comunque, di un orientamento minoritario in giurisprudenza*4 e avversato dalla dottrina.

Esso, soffermandosi sulla circostanza che l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, a proposito della sanzione riconducibile al licenziamento privo di giustificazione, evoca la figura dell’annullamento, non allarga lo sguardo all’intera e complessa trama all’interno della quale la sanzione evocata si inserisce.

Difatti, non si può non dare rilevanza al fatto che l’art. 18 unifichi gli effetti delle tre diverse figure di invalidità del licenziamento, ossia inefficacia, annullabilità e nullità, situazioni che, nel diritto delle obbligazioni, producono effetti ben differenziati.

Il dato da cui muovere è quindi costituito dalla volontà legislativa di riunificazione delle conseguenze del licenziamento in senso lato invalido, e di conseguenza il problema consiste nel verificare se l’equiparazione degli effetti illegittimi sia stata operata, nell’ intenzione del legislatore, sul versante della nullità ovvero su quello dell’annullabilità.

La lettura del testo dell’ art. 18 non pare lasciare spazio a dubbi, considerato che il giudice deve condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno subito, stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il medesimo periodo: una più esplicita conferma della ricostruzione integrale degli effetti del rapporto, e quindi dell’ equiparazione degli effetti dei licenziamenti illegittimi sul versante della nullità, non potrebbe essere immaginata*5.

È stato inoltre considerato che l’ orientamento minoritario in giurisprudenza non può trovare conforto né sotto l’aspetto del diritto sostanziale né sotto quello tecnico-procedimentale.

A livello di diritto sostanziale, infatti, posto che il recesso è l’esercizio di un diritto potestativo, non è possibile sostenere che la sentenza emessa a seguito di impugnazione del licenziamento ricostituisce il rapporto di lavoro e, conseguentemente, i diritti ed obblighi nascenti dal rapporto, ma non il diritto di recesso, poiché, se tale diritto sussisteva, allora deve essere considerato valido anche il suo esercizio.

A livello tecnico-procedimentale è significativo il caso concernente la reiterabilità del licenziamento per motivi disciplinari diversi da quelli posti a fondamento di un primo licenziamento. Si pensi al lavoratore che, dopo aver già ricevuto la contestazione disciplinare, sottragga documenti aziendali riservati e li utilizzi nella propria difesa. A questo punto il datore di lavoro, per il principio di immodificabilità della contestazione, non può fondare il licenziamento disciplinare sul nuovo fatto della sottrazione di documenti aziendali. È allora evidente che, se la capacità contenutistica del procedimento disciplinare, per come è strutturato, è così ridotta da non consentire di valorizzare fatti diversi, allora non può esserci preclusione e il datore di lavoro deve poter effettuare una nuova contestazione ed esercitare nuovamente il potere disciplinare (D. BUONCRISTIANI, Tecnica procedimentale di formazione del licenziamento e tecnica impugnatoria: reiterazione del licenziamento, sottoposizione a condizione sospensiva e oggetto del giudicato, in Riv. it. dir. lav., 2003, 3, 600).

Vi è inoltre chi, in relazione all’orientamento che nega l’efficacia estintiva di un successivo licenziamento fondato su fatti diversi da quelli che stanno alla base del precedente non ancora dichiarato annullabile ex art. 18 St. lav., ha avanzato seri dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 24 e 41 Cost.*6, perché, in definitiva, tale orientamento da un lato nega rilevanza giuridica ai fatti fondanti il secondo recesso e di conseguenza, specie ove questi fatti costituiscano un giustificato motivo oggettivo, comprime in modo inammissibile la libertà d’impresa del datore di lavoro, dall’ altro impone a quest’ ultimo di rinunciare al giudizio sul primo licenziamento per poter intimare efficacemente un secondo recesso, venendo così a ledere il suo diritto di far valere i diversi fatti alla base dei due licenziamenti, e di difendere la validità di entrambi in sede giudiziale (Così G. FRANZA, Ancora confusione sul secondo licenziamento, in Mass. giur. lav., 2007, 51).

Si può pertanto concludere che anche prima della sentenza che accerti l’ assenza di giusta causa e di giustificato motivo di licenziamento nell’area dell’art. 18 St. lav. il datore di lavoro può validamente irrogare un secondo recesso fondato su fatti giustificativi diversi, in considerazione della continuità e della permanenza del rapporto che si avrebbero a seguito della suddetta sentenza.

Naturalmente, affinché il secondo licenziamento possa produrre il proprio effetto estintivo dovrà presentare tutti i requisiti a tal fine richiesti, sia sostanziali che formali, e, tra questi ultimi, particolare attenzione dovrà essere prestata al requisito della tempestività, nel caso di licenziamento disciplinare o per superamento del periodo di comporto.

Va da sé, ad ogni modo, che sarà onere del lavoratore “rilicenziato” impugnare il secondo recesso entro il termine di decadenza, che decorrerà dalla ricezione della comunicazione del licenziamento, o dei motivi se successiva, e non certo dalla sentenza che dichiari l’illegittimità del primo.

*1. Tali eccezioni consistono, in definitiva, nel caso del licenziamento del dirigente in forma orale o non accompagnato dalla comunicazione dei motivi richiesta dalla contrattazione collettiva, che non sanzioni espressamente tali vizi con la nullità/inefficacia dell’ atto, e nel caso di licenziamento disciplinare intimato senza l’ osservanza della procedura di cui all’art. 7 St. lav. e non rientrante nell’ area di tutela reale.

*2. In questo senso Cass., 7 aprile 2001, n. 5226, in Not. giur. lav., 2001, 748; Cass., 16 aprile 1994, n. 3633, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 209; Cass., 8 marzo 1990, n. 1861, in Dir. e prat. lav., 1990, 1295; Cass., 13 novembre 1986, n. 6673, in Not. giur. lav., 1987, 181. Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Treviso, 16 giugno 2009, in Rass. giur. lav. Veneto, 2009, 1, 124; Trib. Benevento, 4 luglio 2001, in Lavoro nelle p. a., 2001, 1061.

*3. Cass., 19 luglio 2006, n. 16540, in Mass. giur. lav., 2007, 46; Cass., 9 marzo 2006, n. 5125, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 117; Cass., 18 maggio 2005, n. 10394, in Riv. giur. lav., 2006, II, 286; Cass., 5 aprile 2001, n. 5092, in Foro it., 2001, I, 2528.

*4. Contrapposte a tale orientamento, ex multis, Cass., 22 ottobre 2008, n. 25573, in Riv. it. dir. lav., 2009, 313; Cass., 6 marzo 2008, n. 6055, in Giust. civ. mass., 2008, 3, 370; Cass., 6 novembre 2006, n. 23641, in Dir. mercato lav., 2006, 622; Cass., 4 novembre 2000, n. 14426, in Giust. civ., 2001, I, 1891; Cass., 27 giugno 2000, n. 8751, in Mass. giust. civ., 2000, 1418; Cass., 25 ottobre 1997, n. 10515, in Not. giur. lav., 1998, 63; Cass., 18 novembre 1994, n. 9773, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 662; Cass., 19 novembre 1987, n. 8540, in Mass. giur. lav., 1988, 101; Cass., 20 agosto 1987, n. 6983, in Orient. giur. lav., 1987, 1077.

*5. La ricostruzione è di O. MAZZOTTA, La « parola » del legislatore e il sistema della legge: a proposito del potere del datore di rilicenziare un lavoratore già licenziato, in Riv. it. dir. lav., 2009, 2, 313.

*6. Evidentemente, in particolare, con i primi due commi dell’ art. 24 e con il primo dell’ art. 41: il primo comma dell’ art. 24 prevede che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi», il secondo che «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento »; l’ art. 41, co. 1, stabilisce che «l’iniziativa economica privata è libera».

1. Rinnovazione

2. Reiterazione

3. Rilicenziamento

1. Secondo la giurisprudenza dominante il licenziamento che presenti un vizio formale- procedurale, salvo rare eccezioni*1, è inidoneo ad incidere sulla continuità del rapporto, che quindi rimane giuridicamente in vita.

Ciò comporta la possibilità per il datore di lavoro di rinnovare il licenziamento originariamente viziato, sulla base degli stessi motivi addotti in precedenza, rispettando però le prescritte formalità e modalità omesse nell’ intimazione del primo recesso.

Ovviamente tale rinnovazione non potrà mai configurarsi come convalida volta a sanare con efficacia ex tunc i vizi che gravano il recesso già intimato, in quanto una simile previsione sarebbe contraria al principio generale sancito dall’art. 1423 cod. civ., il quale, rubricato “Inammissibilità della convalida”, prevede che «il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente».

Più semplicemente, allora, la rinnovazione costituirà un atto diverso dal precedente: un nuovo licenziamento che, seppur dovuto ai medesimi motivi del primo recesso, non presenta né i vizi né l’efficacia di quest’ultimo, essendo perfetto dal punto di vista formale e decorrendo ex nunc dal momento in cui è portato a conoscenza del lavoratore (così, recentemente, Cass., 6 novembre 2006, n. 23641, in Dir. mercato lav., 2006, 622, e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Reggio Calabria, 26 aprile 2006, in Giur. merito, 2007, 2, 375).

Si può dunque affermare che il successivo licenziamento basato sugli stessi motivi posti a fondamento del precedente ha, rispetto a quest’ultimo, una propria autonomia sia strutturale, non risolvendosi in un richiamo per relationem, sia funzionale, non essendo diretto a dare al precedente recesso un’efficacia ex tunc (R. TRIVELLINI, Rinnovazione del licenziamento e “rilicenziamento”, in Dir. e prat. lav., 2004, 2610).

Vi è però un elemento, pur sempre inerente ai presupposti formali del licenziamento, che, per la sua natura irreversibile, non può essere rinnovato, e la cui mancanza in occasione del primo recesso determina automaticamente, oltre all’invalidità di questo, anche quella del successivo: si tratta della tempestività della contestazione dell’addebito, ovviamente in ipotesi di licenziamento di natura disciplinare.

È intuitivo, infatti, che una contestazione non tempestiva in relazione al primo recesso, per l’ovvia difficoltà di ricordare fatti assai risalenti nel tempo, impedisca il pieno e corretto esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, e che, essendo il secondo recesso cronologicamente successivo al primo, la rinnovata contestazione disciplinare non potrà che porsi ad una maggiore distanza temporale dai fatti contestati, essere intempestiva e viziare il nuovo licenziamento.

Da ultimo, resta da considerare che pare ormai superato quell’orientamento giurisprudenziale, peraltro minoritario, secondo il quale la rinnovazione di un licenziamento viziato sotto il profilo formale sarebbe possibile soltanto in caso di avvenuta ricostituzione del rapporto di lavoro, conseguente alla revoca del precedente provvedimento (C. App. Roma, 28 maggio 2001, in Nuovo dir., 2001, 1004) o ad una pronuncia di invalidità da parte del giudice (Pret. Roma, 19 novembre 1997, in Giur. lav. Lazio, 1998, 198), in quanto il licenziamento reiterato prima di tale momento sarebbe nullo per inesistenza dell’oggetto.

È invece pacifico che la rinnovazione del recesso in base agli stessi motivi sostanziali, ma con le dovute formalità, sia possibile anche se la questione della validità del primo recesso sia ancora sub iudice*2, giacché non è la persistenza di fatto del rapporto, bensì la sua esistenza giuridica a costituire il presupposto indispensabile per l’ intimazione di un secondo licenziamento.

Naturalmente, se la rinnovazione interviene quando il primo recesso è ancora sub iudice, essa vale ad interrompere con efficacia ex nunc il rapporto che si verrebbe eventualmente a ricostituire per effetto della sentenza che rilevi l’invalidità, nonché a limitare i danni dovuti alle sole retribuzioni maturate tra il primo ed il secondo licenziamento, salvo il limite minimo delle cinque mensilità qualora sia applicabile l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

2. Ad esiti completamente differenti si giungerà, invece, laddove il giudice affermi la piena legittimità del primo licenziamento: in tale caso dovrà infatti ritenersi che il potere di rilicenziare sussistente in capo al datore si sia “consumato” con l’intimazione del primo recesso, e, pertanto, il secondo sia inefficace perché privo di ragione e funzione (G. MANNACIO, La reiterazione del licenziamento. Un problema di rilevanza pratica, in Lav. giur., 1995, 748).

In altri termini si verifica in siffatta ipotesi, più che una rinnovazione del licenziamento, una mera reiterazione dello stesso, che ricorre in tutti i casi in cui, per l’appunto, il datore di lavoro senza revocare il precedente recesso reiteri un provvedimento espulsivo in sé valido dal punto di vista formale e sostanziale, incorrendo conseguentemente nel divieto del ne bis in idem (R. TRIVELLINI, Rinnovazione del licenziamento e “rilicenziamento”, in Dir. e prat. lav., 2004, 2616).

3. Ancora diversa è l’ipotesi del “rilicenziamento”, termine con il quale si indica la possibilità per il datore di lavoro, che abbia già licenziato un proprio dipendente sulla base di determinate ragioni, di intimargli un secondo licenziamento fondato però su ragioni giustificatrici diverse.

Come per la rinnovazione, l’ammissibilità del rilicenziamento è riconosciuta laddove l’illegittimità del primo recesso renda quest’ultimo inidoneo ad incidere sulla continuità giuridica del rapporto. Considerata la natura sostanziale del vizio del primo recesso, il rilicenziamento sarà possibile soltanto nell’ area di applicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Si deve però segnalare che nell’ ultimo decennio alcune decisioni giurisprudenziali hanno ritenuto il secondo licenziamento privo di oggetto (o di causa o di interesse), avendo già il primo raggiunto l’effetto di far estinguere il rapporto di lavoro*3.

Un nuovo licenziamento, pertanto, potrebbe essere validamente intimato soltanto a seguito della sentenza giudiziale che accerti l’illegittimità del primo e disponga in ragione di ciò la reintegrazione del lavoratore ai sensi dell’art. 18 St. lav., oltre al risarcimento del danno.

Alla base di tale conclusione vi è una complessa interpretazione della struttura dell’art. 18, il quale, pur prevedendo le medesime conseguenze sanzionatorie, ossia la ricostruzione integrale degli effetti del rapporto lavorativo, qualifica come annullabile il licenziamento privo di giustificazione, inefficace quello intimato in violazione dell’art. 2 l. n. 604 del 1966 e nullo quello discriminatorio.

Secondo tale interpretazione, mentre un licenziamento nullo/inefficace, non producendo effetti, non è idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro, potendo quindi essere seguito da un successivo efficace recesso, un licenziamento annullabile ex art. 18 St. lav. «produce regolarmente l’effetto di far cessare il rapporto», e la retroattività della sentenza di annullamento non potrebbe riguardare gli atti datoriali successivi a tale recesso, che sono «da ritenersi disattivati perché svoltisi nell’arco di tempo in cui il rapporto era ormai estinto» (Cass., 5 aprile 2001, n. 5092, in Foro it., 2001, I, 2528) e dunque incapaci di adempiere la loro funzione, compresa quella estintiva del rapporto medesimo.

Si tratta, comunque, di un orientamento minoritario in giurisprudenza*4 e avversato dalla dottrina.

Esso, soffermandosi sulla circostanza che l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, a proposito della sanzione riconducibile al licenziamento privo di giustificazione, evoca la figura dell’annullamento, non allarga lo sguardo all’intera e complessa trama all’interno della quale la sanzione evocata si inserisce.

Difatti, non si può non dare rilevanza al fatto che l’art. 18 unifichi gli effetti delle tre diverse figure di invalidità del licenziamento, ossia inefficacia, annullabilità e nullità, situazioni che, nel diritto delle obbligazioni, producono effetti ben differenziati.

Il dato da cui muovere è quindi costituito dalla volontà legislativa di riunificazione delle conseguenze del licenziamento in senso lato invalido, e di conseguenza il problema consiste nel verificare se l’equiparazione degli effetti illegittimi sia stata operata, nell’ intenzione del legislatore, sul versante della nullità ovvero su quello dell’annullabilità.

La lettura del testo dell’ art. 18 non pare lasciare spazio a dubbi, considerato che il giudice deve condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno subito, stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il medesimo periodo: una più esplicita conferma della ricostruzione integrale degli effetti del rapporto, e quindi dell’ equiparazione degli effetti dei licenziamenti illegittimi sul versante della nullità, non potrebbe essere immaginata*5.

È stato inoltre considerato che l’ orientamento minoritario in giurisprudenza non può trovare conforto né sotto l’aspetto del diritto sostanziale né sotto quello tecnico-procedimentale.

A livello di diritto sostanziale, infatti, posto che il recesso è l’esercizio di un diritto potestativo, non è possibile sostenere che la sentenza emessa a seguito di impugnazione del licenziamento ricostituisce il rapporto di lavoro e, conseguentemente, i diritti ed obblighi nascenti dal rapporto, ma non il diritto di recesso, poiché, se tale diritto sussisteva, allora deve essere considerato valido anche il suo esercizio.

A livello tecnico-procedimentale è significativo il caso concernente la reiterabilità del licenziamento per motivi disciplinari diversi da quelli posti a fondamento di un primo licenziamento. Si pensi al lavoratore che, dopo aver già ricevuto la contestazione disciplinare, sottragga documenti aziendali riservati e li utilizzi nella propria difesa. A questo punto il datore di lavoro, per il principio di immodificabilità della contestazione, non può fondare il licenziamento disciplinare sul nuovo fatto della sottrazione di documenti aziendali. È allora evidente che, se la capacità contenutistica del procedimento disciplinare, per come è strutturato, è così ridotta da non consentire di valorizzare fatti diversi, allora non può esserci preclusione e il datore di lavoro deve poter effettuare una nuova contestazione ed esercitare nuovamente il potere disciplinare (D. BUONCRISTIANI, Tecnica procedimentale di formazione del licenziamento e tecnica impugnatoria: reiterazione del licenziamento, sottoposizione a condizione sospensiva e oggetto del giudicato, in Riv. it. dir. lav., 2003, 3, 600).

Vi è inoltre chi, in relazione all’orientamento che nega l’efficacia estintiva di un successivo licenziamento fondato su fatti diversi da quelli che stanno alla base del precedente non ancora dichiarato annullabile ex art. 18 St. lav., ha avanzato seri dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 24 e 41 Cost.*6, perché, in definitiva, tale orientamento da un lato nega rilevanza giuridica ai fatti fondanti il secondo recesso e di conseguenza, specie ove questi fatti costituiscano un giustificato motivo oggettivo, comprime in modo inammissibile la libertà d’impresa del datore di lavoro, dall’ altro impone a quest’ ultimo di rinunciare al giudizio sul primo licenziamento per poter intimare efficacemente un secondo recesso, venendo così a ledere il suo diritto di far valere i diversi fatti alla base dei due licenziamenti, e di difendere la validità di entrambi in sede giudiziale (Così G. FRANZA, Ancora confusione sul secondo licenziamento, in Mass. giur. lav., 2007, 51).

Si può pertanto concludere che anche prima della sentenza che accerti l’ assenza di giusta causa e di giustificato motivo di licenziamento nell’area dell’art. 18 St. lav. il datore di lavoro può validamente irrogare un secondo recesso fondato su fatti giustificativi diversi, in considerazione della continuità e della permanenza del rapporto che si avrebbero a seguito della suddetta sentenza.

Naturalmente, affinché il secondo licenziamento possa produrre il proprio effetto estintivo dovrà presentare tutti i requisiti a tal fine richiesti, sia sostanziali che formali, e, tra questi ultimi, particolare attenzione dovrà essere prestata al requisito della tempestività, nel caso di licenziamento disciplinare o per superamento del periodo di comporto.

Va da sé, ad ogni modo, che sarà onere del lavoratore “rilicenziato” impugnare il secondo recesso entro il termine di decadenza, che decorrerà dalla ricezione della comunicazione del licenziamento, o dei motivi se successiva, e non certo dalla sentenza che dichiari l’illegittimità del primo.

*1. Tali eccezioni consistono, in definitiva, nel caso del licenziamento del dirigente in forma orale o non accompagnato dalla comunicazione dei motivi richiesta dalla contrattazione collettiva, che non sanzioni espressamente tali vizi con la nullità/inefficacia dell’ atto, e nel caso di licenziamento disciplinare intimato senza l’ osservanza della procedura di cui all’art. 7 St. lav. e non rientrante nell’ area di tutela reale.

*2. In questo senso Cass., 7 aprile 2001, n. 5226, in Not. giur. lav., 2001, 748; Cass., 16 aprile 1994, n. 3633, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 209; Cass., 8 marzo 1990, n. 1861, in Dir. e prat. lav., 1990, 1295; Cass., 13 novembre 1986, n. 6673, in Not. giur. lav., 1987, 181. Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Treviso, 16 giugno 2009, in Rass. giur. lav. Veneto, 2009, 1, 124; Trib. Benevento, 4 luglio 2001, in Lavoro nelle p. a., 2001, 1061.

*3. Cass., 19 luglio 2006, n. 16540, in Mass. giur. lav., 2007, 46; Cass., 9 marzo 2006, n. 5125, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 117; Cass., 18 maggio 2005, n. 10394, in Riv. giur. lav., 2006, II, 286; Cass., 5 aprile 2001, n. 5092, in Foro it., 2001, I, 2528.

*4. Contrapposte a tale orientamento, ex multis, Cass., 22 ottobre 2008, n. 25573, in Riv. it. dir. lav., 2009, 313; Cass., 6 marzo 2008, n. 6055, in Giust. civ. mass., 2008, 3, 370; Cass., 6 novembre 2006, n. 23641, in Dir. mercato lav., 2006, 622; Cass., 4 novembre 2000, n. 14426, in Giust. civ., 2001, I, 1891; Cass., 27 giugno 2000, n. 8751, in Mass. giust. civ., 2000, 1418; Cass., 25 ottobre 1997, n. 10515, in Not. giur. lav., 1998, 63; Cass., 18 novembre 1994, n. 9773, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 662; Cass., 19 novembre 1987, n. 8540, in Mass. giur. lav., 1988, 101; Cass., 20 agosto 1987, n. 6983, in Orient. giur. lav., 1987, 1077.

*5. La ricostruzione è di O. MAZZOTTA, La « parola » del legislatore e il sistema della legge: a proposito del potere del datore di rilicenziare un lavoratore già licenziato, in Riv. it. dir. lav., 2009, 2, 313.

*6. Evidentemente, in particolare, con i primi due commi dell’ art. 24 e con il primo dell’ art. 41: il primo comma dell’ art. 24 prevede che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi», il secondo che «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento »; l’ art. 41, co. 1, stabilisce che «l’iniziativa economica privata è libera».