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Al lavoratore disabile si può applicare il periodo di comporto previsto dal CCNL?

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Al lavoratore disabile si può applicare il periodo di comporto previsto dal CCNL?

L'applicazione al lavoratore disabile dell'ordinario periodo di comporto rappresenta una discriminazione indiretta. Pertanto, il licenziamento intimato al lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto di cui al CCNL è da considerarsi illegittimo in quanto discriminatorio.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9095 del 31 marzo 2023.


Al lavoratore disabile si può applicare il periodo di comporto previsto dal CCNL? – il fatto

La società datrice di lavoro aveva proceduto al licenziamento del dipendente per superamento del periodo di comporto.

Avverso detto provvedimento il lavoratore aveva proposto ricorso avanti il Tribunale di Milano. Il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso del dipendente riconoscendo la nullità del licenziamento intimato in quanto discriminatorio. In particolare, il Tribunale di Milano aveva ravvisato una discriminazione diretta correlata alle condizioni di disabile del lavoratore, riconosciuto portatore di handicap ai sensi dell'art. 3, comma 1, legge n. 104/1992, con capacità lavorativa ridotta del 75%, inidoneo a diverse mansioni sulla base degli accertamenti sanitari. La discriminazione si era manifestata nell’applicare il periodo di comporto al lavoratore disabile, posto che le assenze per malattia erano riconducibili alla situazione di disabilità del lavoratore per l'assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute.

Avverso detta sentenza la società datrice di lavoro proponeva ricorso rigettato dalla Corte d’Appello di Milano che confermava la sentenza di primo grado dovendo ritenersi nella fattispecie “sussistente una discriminazione di natura indiretta, Immagine rimossa.che era consistita, alla luce del grave quadro patologico del lavoratore qualificabile come disabilità ai sensi della direttiva 2000/78/CE, nell'avere la società applicato l'art. 42 CCNL Federambiente al lavoratore licenziato, trascurando di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità, in contrasto con i principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia UE con sentenza del 18/1/2018 in causa C-270/16.

Avverso detta sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione per due diversi motivi: in primo luogo deduceva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 comma 1 lett. b d.lgs 216/2003 e dell’art. 42 del CCNL Federambiente ritenendo, che contrariamente a quanto asserito alla Corte d’Appello, tale norma non fosse in alcun modo discriminatoria nei confronti dei lavoratori disabili. In secondo luogo, la società datrice di lavoro deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c. in relazione all'art. 42 CCNL Federambiente evidenziando come nel caso di specie il datore di lavoro avesse preannunciato al dipendente l’imminente superamento del periodo di comporto e avesse concesso 7 giorni per far giungere osservazioni in merito, osservazioni mai giunte.

La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso, confermando la sentenza impugnata.
 

Al lavoratore disabile si può applicare il periodo di comporto previsto dal CCNL? – La motivazione

La Cassazione, prima di esaminare nel dettaglio il caso di specie, ricostruisce, anche alla luce della normativa comunitaria, la definizione di discriminazione indiretta e di disabilità o handicap.  

In particolare, la Cassazione inizia il proprio iter argomentativo richiamando l’art. 2 comma 1 lett b del d.lgs 216/2003 (norma di recepimento della direttiva 2000/78/CE) che stabilisce che vi è discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione          o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Una volta chiarito il concetto di discriminazione indiretta, la Cassazione si concentra sulla definizione del concetto di “disabilità”.

In merito ricorda come la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE con la sentenza 11 aprile 2013 nelle cause riunite C-335/11 e C.337/11, HK Danmark, abbia chiarito che per disabilità o handicap si debba intendere “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione”.

La sentenza della Corte di Giustizia prosegue ricordando come la direttiva 2000/78 non contenga alcuna definizione di handicap e la Convenzione dell’ONU del 2006, ratificata dall’UE nel novembre 2009, ribadisce che il concetto di disabilità è in costante evoluzione ed è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali o ambientali, che impediscono la loro piena partecipazione alla società.

La Corte di Cassazione prosegue il proprio iter argomentativo, rilevando come la sentenza HK abbia osservato che un lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare il periodo di preavviso ridotto (rilevante secondo la legislazione danese in materia) rispetto ad un lavoratore non disabile, perché, rispetto ad un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap.

Pertanto, il dipendente con una disabilità corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per malattia, con la conseguenza che la normativa in discussione è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, dunque, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sull'handicap ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78. Occorre perciò esaminare se tale disparità di trattamento sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, se i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e se essi   non   vadano   al   di   là   di quanto necessario per conseguire l'obiettivo perseguito dal legislatore.

La Suprema Corte conclude poi l’iter argomentativo preliminare ricordando come con la sentenza 18 gennaio 2018, in causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero, “la CGUE ha, appunto, affermato che la definizione di discriminazione indiretta contenuta nella direttiva UE osta a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro giustificate e dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, salva verifica di quanto necessario per raggiungere l'obiettivo legittimo di lotta contro l'assenteismo”.

Alla luce, pertanto di tale ricostruzione, la Cassazione passa all’esame del caso di specie.

In primo luogo, la Cassazione precisa che “se è vero che la nozione di handicap/disabilità non è coincidente con lo stato di malattia, oggetto della regolazione contrattuale collettiva applicata al rapporto ai fini del computo del periodo di comporto rilevante ai sensi dell'art. 2110 c.c., ciò non significa che essa sia contrapposta a tale stato, che può esserne tanto causa quanto effetto, e le cui interazioni devono essere tenute in considerazione nella gestione del rapporto di lavoro”.

Partendo da questo presupposto rileva come la Corte d’Appello non abbia potuto far altro che ritenere che l'applicazione al lavoratore dell'ordinario periodo di comporto abbia rappresentato una discriminazione indiretta. Ciò perché – ribadisce la Suprema Corte - rispetto a un lavoratore non disabile, il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente.

La Corte sottolinea poi come “l'evidenziato profilo di discriminatorietà prescinde dalle peculiarità e dai meccanismi previsti dalle normative danese e spagnola esaminati nelle citate sentenze della CGUE, e dalla fonte legislativa o contrattuale collettiva della regolazione del comporto o di meccanismi similari. Quel che rileva è l'approdo interpretativo, necessitato dalla normativa europea trasposta in quella domestica, secondo il quale il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell'assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata”.

La Cassazione precisa poi che ciò non significa che non possa essere fissato un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile, ma tale legittima finalità deve essere tutelata con mezzi appropriati e proporzionali.

Pertanto, la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, in conseguenza della disabilità, trasforma un criterio apparentemente neutro (computo del periodo di comporto breve) in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.

Il necessario bilanciamento tra la tutela del lavoratore disabile da un lato e dall’altro delle ragioni occupazionali in ottica datoriale, impone, invece, l'individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall'art. 5 della direttiva 2000/78/CE. E tale non è la prospettiva seguita in concreto nel caso in esame.

Infine la Cassazione affronta due questioni relative rispettivamente all’onere della prova e alla rilevanza o meno della conoscenza da parte del datore di lavoro del motivo delle assenze del lavoratore in punto discriminatorietà della misura.

Quanto al profilo dell'onere della prova, la Corte richiama il consolidato orientamento secondo cui, “in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa” (Cass. n. 23338/2018, in tema di recesso).

In merito al secondo profilo, la Cassazione rileva come la discriminazione operi in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo dell'autore.  Non è dunque decisivo l'assunto della società datrice di lavoro di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell'assenza. La discriminazione infatti, diversamente dal motivo illecito, opera obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass. n. 6575/2016).


Al lavoratore disabile si può applicare il periodo di comporto previsto dal CCNL? – La decisione

Alla luce pertanto della motivazione, la Cassazione conclude respingendo il ricorso promosso dalla società datrice di lavoro, statuendo che l'applicazione al lavoratore disabile dell'ordinario periodo di comporto rappresenta una discriminazione indiretta. Pertanto, il licenziamento intimato al lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto di cui al CCNL è da considerarsi illegittimo in quanto discriminatorio.


Al lavoratore disabile si può applicare il periodo di comporto previsto dal CCNL? – Un breve commento

La sentenza in esame offre diversi spunti di interesse e affronta un tema sul quale si era generato un contrasto giurisprudenziale, contrasto che allo stato la pronuncia dovrebbe risolvere.

Da un lato, ci sono infatti pronunce che hanno accolto i ricorsi dei lavoratori, chiarendo come l’esercizio del potere datoriale di recedere dal contratto per superamento del periodo di comporto costituisca applicazione di una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto), che, però, si rivela idonea a penalizzare il prestatore con disabilità, ove le assenze siano collegate a questa sua caratteristica personale. (cfr., ex multis, Trib. Milano, 28 ottobre 2016, n. 2875, Trib. Verona, 22 marzo 2021 e Trib. Mantova, 22 settembre 2021, n. 126, Corte d’Appello Napoli n. 168/2023).

Peraltro, altre pronunce hanno ritenuto che le norme della contrattazione collettiva in materia di comporto dovessero prevedere un contemperamento perequativo, contemplando una disciplina particolare e di maggior favore per i lavoratori con disabilità, in modo da evitare discriminazioni indirette in danno a questi ultimi (Corte d’Appello Milano, 9 dicembre 2022, n. 1128).

Un secondo orientamento ha escluso invece la natura discriminatoria del licenziamento intimato al lavoratore disabile sulla base di diverse argomentazioni: secondo una pronuncia di merito l’assenza di una norma di legge che preveda un intervallo di comporto più ampio per i lavoratori disabili è elemento che conduce a escludere la natura discriminatoria del licenziamento e a tale vuoto normativo non possa supplire il giudice (Ordinanza Trib. Parma, 17 agosto 2018); il Tribunale di Bologna ha ritenuto che la tutela antidiscriminatoria dovrebbe essere esclusa nei casi in cui il dipendente sia già adibito a mansioni compatibili con la sua ridotta capacità lavorativa, in base a una ragionevole scelta organizzativa del datore [cfr. Trib. Bologna, 19 maggio 2022, n. 230].

Altra giurisprudenza, inseritasi lungo questo filone, ha, poi, rilevato come sussisterebbe una discriminazione indiretta solo se il contratto collettivo prevedesse, per i lavoratori disabili che si assentano a causa di una malattia connessa al loro “status”, un trattamento di minor favore rispetto a quello applicato ai colleghi non disabili (cfr. Trib. Lodi, 12 settembre 2022, n. 19). Vi sono, poi, decisioni in cui la magistratura ha ritenuto che l’ordinamento disponga già un apparato di garanzia del diritto al lavoro dei disabili e che esso compensi la mancata inclusione delle assenze per malattie connesse alla disabilità nel periodo di comporto (cfr. Corte d’Appello Torino, 3 novembre 2021, n. 604), o in cui è stata affermata l’inesigibilità di tale condotta datoriale, ove il prestatore non abbia preventivamente comunicato le patologie invalidanti nelle apposite caselle apposte sul certificato medico (cfr. Trib. Vicenza, 27 aprile 2022, n. 181).

Ultima sentenza che respinge il ricorso di un lavoratore è la sentenza della Corte d’Appello di Venezia 21.12.2022 che chiarisce come rientra nella nozione di handicap solo la malattia cronica che compromette la partecipazione del dipendente alla vita professionale e lavorativa in modo duraturo. Non solo, i giudici d’appello evidenziano come peraltro il datore di lavoro non fosse stato mai reso edotto della condizione di disabilità del dipendente e tale circostanza rendesse inesigibile un diverso comportamento da parte della società.

La sentenza della Cassazione si inserisce chiaramente nel solco del primo filone giurisprudenziale, andando però a chiarire il concetto di disabilità o handicap. Infatti, per la Cassazione (che richiama il consolidato orientamento della Corte di Giustizia UE) non ogni malattia può essere considerata handicap ma solamente la patologia di lunga durata, che in correlazione con barriere di diversa natura comporti una limitazione alla vita professionale del lavoratore in relazione a quella dei propri colleghi.

E da una simile definizione, si può facilmente desumere, come non sia necessario un accertamento da parte dell’INPS (o di un ente terzo) dello stato di invalidità o di handicap: la disabilità è infatti un fatto oggettivo che prescinde da formali accertamenti di organi previdenziali.

La Cassazione aderisce invece all’orientamento più rigorista e più tutelante per il dipendente, laddove precisa che la mancata conoscenza da parte del datore di lavoro della motivazione delle assenza è irrilevante ai fini della natura discriminatoria della misura. Infatti, in tal senso, rileva solo l’esistenza di un trattamento deteriore a causa della appartenenza del lavoratore a una categoria protetta.

Tale statuizione risulta discutibile: chi scrive ritiene infatti che sia più corretto quanto statuito dal Tribunale di Vicenza, laddove si riconosce l’inesigibilità della condotta datoriale, laddove il prestatore non abbia preventivamente comunicato le patologie invalidanti nelle apposite caselle. Se infatti al fine di valutare la natura discriminatoria di un comportamento rileva solo il fatto oggettivo in sé e non l’intento soggettivo dell’autore, dall’altro lato è evidente che nella qualificazione oggettiva del fatto la condotta deve essere quanto meno esigibile. In difetto di tale requisito viene a mancare uno dei fattori che costituiscono l’elemento oggettivo.

A detta di chi scrive peraltro l’elemento più interessante della sentenza è la riflessione che la Cassazione sviluppa laddove statuisce che non è vietato individuare un periodo di comporto anche per il lavoratore disabile, ma semplicemente che non è possibile applicare lo stesso periodo di comporto al lavoratore con disabilità e al lavoratore privo di disabilità.

In tal senso una possibile soluzione in grado di conciliare le reciproche esigenze potrebbe essere quella di prevedere nei diversi CCNL (come in caso di malattie oncologiche) prevedere un periodo di comporto più lungo per il lavoratore disabile. In questo modo si arriverebbe a detta di chi scrive a conciliare e bilanciare i due interessi contrapposti.

Un’altra possibile soluzione è stata suggerita dalla Corte d’Appello di Napoli con la sentenza 168/2023, laddove invita il datore di lavoro a valutare il licenziamento per sopravvenuta impossibilità della prestazione.