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Riconoscimento giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con effetto ex tunc: il lavoratore è obbligato a restituire la NASPI?

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Riconoscimento giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con effetto ex tunc: il lavoratore è obbligato a restituire la NASPI?
 

La sentenza con la quale il Giudice abbia accertato la sussistenza con effetto ex tunc, ossia fin dal periodo a partire dal quale il lavoratore ha iniziato a percepire la NASPI, di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, non ha l’effetto di cancellare l’illecito commesso dal datore di lavoro – e cioè l’illegittima reiterazione dei contratti a termine – che aveva generato il presupposto – perdita del lavoro – per l’erogazione della NASPI stessa. Di conseguenza non vi sono i presupposti affinchè l’INPS possa richiedere, a seguito della conversione giudiziale del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, la restituzione di quanto erogato.

The sentence with which the Judge has ascertained the existence with ex tunc effect, i.e. from the period from which the worker began to receive the NASPI, of a permanent employment contract, does not have the effect of canceling the the offense committed by the employer - namely the illegitimate reiteration of fixed-term contracts - which had generated the prerequisite - loss of job - for the provision of the NASPI itself. Consequently, there are no conditions for INPS to be able to request, following the judicial conversion of the employment relationship from fixed-term to permanent, the repayment of the amount paid.

La Corte di Cassazione Sezione Lavoro, con ordinanza interlocutoria n. 22985 del 21.08.2024, ha disposto, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la trasmissione del ricorso alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della seguente questione: se, nel caso della cessazione di un contratto di lavoro a termine la quale abbia causato la perdita del posto di lavoro e la conseguente erogazione dell’indennità di disoccupazione involontaria (NASPI), a fronte di una sentenza la quale abbia accertato l’illegittimità della reiterazione del contratto a termine ed abbia quindi stabilito la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con effetto ex tunc, e cioè fin dal momento dell’erogazione della NASPI, il lavoratore sia tenuto a restituire quest’ultima all’INPS.

L’indennità di disoccupazione involontaria (di seguito “NASPI”) – introdotta dal D.lgs. n. 22 del 04.03.2015 (di seguito “D.lgs.”) – ha “la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione” (art. 1).

La questione è la seguente: nel caso in cui nei confronti del lavoratore vi sia stata un’abusiva reiterazione di contratti a termine e, a seguito di ciò, il Giudice abbia accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, riconoscendo altresì al lavoratore l’indennità risarcitoria prevista, quest’ultimo è tenuto a restituire all’INPS la NASPI percepita nel periodo dei contratti a termine?

Nel caso di specie, la NASPI era stata percepita per il periodo 15.6.2010 - 16.6.2011, e la sentenza, la quale aveva riconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, era stata emessa nel 2014. La Corte d’Appello aveva respinto la richiesta di restituzione avanzata dall’INPS proprio perché soltanto dal 2014 si era determinato il ripristino effettivo del rapporto con obbligo di erogare le retribuzioni.

L’INPS, proponendo ricorso per Cassazione, ha invece evidenziato che il riconoscimento giudiziale dell’esistenza del rapporto indeterminato, seppur avvenuto successivamente al periodo di corresponsione della NASPI, aveva prodotto effetti ex tunc (e quindi anche per il passato), cancellando quindi lo stato di disoccupazione il quale costituisce il presupposto per l’erogazione della NASPI stessa.

INPS, inoltre, segnalava che ad eventuali carenze di tutela del lavoratore si sopperisce già con l’indennità risarcitoria di cui all’art. 32 comma 5 Legge 183/2010, appositamente riconosciuta al lavoratore per il periodo c.d. intermedio a seguito della conversione del contratto di lavoro a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

La Cassazione, nell’ordinanza in commento, ha richiamato l’orientamento secondo cui, per effetto della ricostituzione ex tunc del rapporto subordinato a tempo indeterminato, viene meno la condizione di disoccupazione che determina l’erogazione dell’indennità di mobilità (così come dell’indennità di disoccupazione involontaria) che sia stata corrisposta nel periodo temporale coperto dalla sentenza (e dall'indennità risarcitoria ex art. 32 della l. n. 183 del 2010) e che pertanto sia configurabile un indebito previdenziale, ripetibile - ai sensi dell'art. 2033 c.c. - entro il limite temporale della prescrizione (cfr. Cass. 16/08/2023 n. 24645). Tuttavia, la Cassazione, nella medesima ordinanza, dà atto di un altro suo orientamento (sentenze nn. 24950/2021, 17793/2020 e 28295/2019) secondo cui il presupposto dell’inattività conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro, che non sia riconducibile alla volontà del lavoratore e che dipenda da ragioni obiettive e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro, deve ritenersi sussistente anche nel caso di scadenza del termine contrattuale, in cui la cessazione del rapporto non sia derivata da iniziativa del lavoratore.

Per quanto attiene all’efficacia (ex nunc oppure ex tunc) della sentenza con cui viene dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si osserva quanto segue.

L’erogazione della NASPI viene stabilita dalla legge in presenza di un presupposto ben preciso: la perdita del lavoro per causa non imputabile al lavoratore. Tale perdita, nel caso di specie, è stata determinata dal fatto che il datore di lavoro non ha ottemperato all’obbligo normativo della conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato. Quindi il pagamento della NASPI è derivato dalla violazione, da parte del datore di lavoro, di un obbligo di legge: se egli avesse stabilizzato il lavoratore (e quindi se avesse rispettato la legge), quest’ultimo avrebbe mantenuto il lavoro e quindi non avrebbe richiesto il pagamento stesso. Tale violazione è stata accertata con sentenza.

Se la sentenza, con la quale è stata accertata la suddetta violazione, avesse come effetto indiretto quello di far sì che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato debba considerarsi come instaurato dall’inizio, e quindi anche nel lasso di tempo in cui il lavoratore ha percepito la NASPI, si avrebbe questo risultato: da un lato, si condanna il datore di lavoro ad attivare tale rapporto e quindi lo si riconosce colpevole di aver violato una norma, dall’altro però si va a “sanare” la violazione stessa appunto perché è come se questa non ci fosse mai stata e ciò dovrebbe comportare, da parte del lavoratore il quale dalla violazione aveva subìto un danno, l’obbligo della restituzione di quanto la legge gli aveva riconosciuto a seguito della violazione medesima (infatti, ricordiamolo, la perdita del lavoro è stata causata proprio da quest’ultima). Quale sarebbe il risultato di tutto ciò? Che il Giudice, con la sentenza, va sostanzialmente ad “annullare” (vedi obbligo restitutorio) un beneficio che la legge aveva attribuito a seguito di un comportamento del soggetto (datore di lavoro) giudicato da egli stesso colpevole. Tale sentenza, dapprima riconosce il datore come colpevole e quindi lo sanziona costringendolo ad assumere definitivamente il lavoratore, e poi, proprio sulla base del riconoscimento della colpevolezza dello stesso datore, ordina al lavoratore di restituire una somma che a quest’ultimo era stata erogata in base ad una previsione di legge.

Ora, si potrebbe sostenere che l’obbligo restitutorio è fondato in quanto il Giudice, con la sentenza, ripristina il principio di legalità in due modi: con il primo, riconosce al lavoratore un diritto che in precedenza il datore di lavoro, non assumendolo stabilmente, gli aveva negato; con il secondo, proprio a seguito del riconoscimento di tale diritto, obbliga il lavoratore a restituire la NASPI, perché è stato accertato che questa in realtà non era dovuta, poiché è come se il lavoratore non avesse mai perso il lavoro e quindi una mancata restituzione configurerebbe, in capo al lavoratore, un arricchimento ingiustificato, ossia “senza una giusta causa” (art. 2041 c.c.). In questo caso, l’assenza di una giusta causa risiederebbe nel fatto che la norma (quella sulla conversione da rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato) è come se non fosse mai stata violata, in quanto appunto il lavoratore viene considerato – ex tunc, e cioè già al momento in cui la NASPI gli è stata data – quale titolare di un contratto a tempo indeterminato, e quindi adesso egli, se non restituisse quanto percepito, si tratterrebbe una somma che, già a quel tempo (ossia quando gli è stata data), non gli era dovuta per legge, dovendo egli considerarsi quale “lavoratore a tutti gli effetti”.

Tuttavia, il principio di legalità – al quale si ispira la tesi della fondatezza dell’obbligo restitutorio (vedi arricchimento senza giusta causa) – è così disciplinato dall’art. 2 c.p.:nessuno può essere punito per un fatto  che, secondo  una  legge posteriore, non costituisce reato”. La norma non dice che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una “sentenza posteriore”, non costituisce più un illecito. Tale principio, applicato al caso di specie, che cosa comporta? Che la sentenza la quale accerta la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non ha il “potere” di stabilire che il precedente illecito – ossia quello caratterizzato dalla illegittima reiterazione di contratti a termine e quindi dalla perdita del posto di lavoro – deve intendersi cancellato con effetti retroattivi, e quindi non ha il potere di stabilire che la violazione non vi è mai stata. E’ soltanto una “legge” posteriore a poter stabilire che quella determinata condotta non costituisce più un illecito.

Per quanto attiene all’azione di ripetizione d’indebito ex art. 2033 c.c., tale norma prevede che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”. La “non debenza” del pagamento è sempre un qualcosa che viene accertato successivamente a quest’ultimo, e quindi il fatto che la conoscenza del mancato obbligo di pagamento sopravvenga al medesimo è del tutto naturale, anche perché se questa conoscenza la si avesse nel momento stesso in cui si paga, il pagamento non verrebbe eseguito e quindi il problema neanche si porrebbe. Anche nel caso in cui venga emessa una sentenza la quale accerti, ora per allora (effetto ex tunc), che sussisteva un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e che quindi non esisteva, già a tale data, il presupposto per l’erogazione della NASPI (ossia la mancanza di lavoro), siamo in presenza di una situazione in cui chi ha pagato (in tal caso l’INPS) viene a sapere – solo successivamente al pagamento – che quest’ultimo non era dovuto.

Però va osservato quanto segue.

Nel caso dell’art. 2033 c.c. il pagamento era “non dovuto” in quanto nessuna norma di legge lo prevedeva e quindi adesso chi lo ha eseguito chiede la restituzione, perché altrimenti chi lo ha ricevuto conseguirebbe un arricchimento che sarebbe ingiustificato, non trovando quest’ultimo rispondenza nella legge.

Nel caso della NASPI il pagamento era, invece, “dovuto” in quanto derivante da una norma in base alla quale, nel caso di perdita del lavoro per causa non imputabile al lavoratore, quest’ultimo ha diritto ad un sussidio economico nell’attesa di trovare un nuovo lavoro. Si potrà obiettare che una sentenza ha, successivamente, accertato che mancava il presupposto – ossia assenza di un rapporto lavorativo – previsto per il pagamento, e che quindi il pagamento era comunque “non dovuto”, ragion per cui adesso la somma va comunque restituita. Tuttavia, che cosa in concreto ha accertato questa sentenza? Che, in base ad una norma di legge, il datore di lavoro avrebbe dovuto provvedere a stabilizzare il lavoratore mediante il riconoscimento formale di un rapporto a tempo indeterminato, e che egli però ha violato tale norma: se il datore di lavoro avesse provveduto a ciò, il lavoratore si sarebbe visto contrattualizzare il suddetto rapporto e quindi non avrebbe chiesto all’INPS di erogare la NASPI. Quest’ultima, quindi, costituiva la prestazione prevista dalla legge a seguito di un’inadempienza del datore di lavoro. Di conseguenza, il pagamento della NASPI era “dovuto per legge”, in quanto diretta conseguenza di un comportamento contrattualmente scorretto del datore di lavoro, il quale ha generato il presupposto – assenza di lavoro – al quale la legge ricollega un determinato effetto, che è appunto quello del suddetto pagamento. Quindi, mentre nel caso dell’art. 2033 c.c., si tratta di un pagamento che la legge non prevedeva (appunto “non dovuto”), nel caso della NASPI siamo in presenza di un pagamento che la legge stabilisce a favore di chi ha perso il lavoro, laddove tale perdita si è verificata a seguito dell’inadempimento del datore di lavoro ad una norma di legge (quella sulla conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato a lavoro a tempo indeterminato).

Non si può mettere sullo stesso piano chi (art. 2033 c.c.) ha pagato senza essere a ciò vincolato da nessuna norma e senza neanche aver violato alcuna norma, e chi (INPS) ha pagato a causa della violazione, da parte del datore di lavoro, di un obbligo (vedi conversione del rapporto) stabilito da una norma: è solo nel primo caso che il pagamento può effettivamente considerarsi quale “non dovuto”, poiché nel secondo caso il medesimo è stato determinato dalla violazione di una norma, e cioè da un qualcosa che giuridicamente era “dovuto”.

Per le ragioni sopra esposte, deve quindi ritenersi che la sentenza con la quale il Giudice abbia accertato la sussistenza con effetto ex tunc, ossia fin dal periodo a partire dal quale il lavoratore ha iniziato a percepire la NASPI, non ha l’effetto di cancellare l’illecito – e cioè illegittima reiterazione dei contratti a termine – che aveva generato il presupposto – perdita del lavoro – per l’erogazione della NASPI stessa. Di conseguenza non vi sono i presupposti affinchè l’INPS possa richiedere, a seguito della conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, la restituzione di quanto erogato.

Semmai, considerato che l’inadempienza è imputabile non all’INPS – ossia a chi materialmente ha eseguito il pagamento – bensì ad un soggetto diverso, e cioè il datore di lavoro, appaiono esservi tutti i presupposti per l’esercizio di un’azione di regresso da parte di INPS stessa nei confronti di quest’ultimo.