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Licenziamenti disciplinari illegittimi per tardività della contestazione: ancora dubbi sulla sanzione applicabile

Nota a Ordinanza del 12.01.2022 emessa dal Tribunale di Ravenna, Sez. Lavoro
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Licenziamenti disciplinari illegittimi per tardività della contestazione: ancora dubbi sulla sanzione applicabile

L’inerzia del datore di lavoro può essere considerata quale dichiarazione implicita dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse

L’Ordinanza del 12.01.2022 emessa dal Tribunale di Ravenna, Sez. Lavoro riapre una importante discussione interpretativa pur dopo l’arresto della Cassazione S.U. del 27.12.2017 n. 30985.

Con la citata sentenza, recepita da numerose sentenze di legittimità successive (v. Cass. nn. 12231, 19089, 20163, 21162, 23769, 24360/2018 e n. 17428/2021) le Sezioni Unite avevano stabilito che «la dichiarazione giudiziale di illegittimità del licenziamento disciplinare conseguente all’accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso, ricadente ratione temporis nella disciplina dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, così come modificato dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92 del 28.6.2012, comporta l’applicazione della sanzione dell’indennità come prevista dal quinto comma dello stesso art. 18 della legge n. 300/1970».

Ciò equivale a dire che nelle imprese con più di 15 dipendenti ad un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 spetta la tutela indennitaria “forte” prevista dall’art. 18, 5° comma, secondo il quale «il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi … della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto …».

La recente ordinanza del Tribunale di Ravenna al contrario ha ritenuto applicabile l’art. 18, 4° comma, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con il limite di 12 mensilità.

Il giudice di merito motiva il proprio disaccordo con le conclusioni delle Sezioni Unite – accogliendo però parte dell’iter argomentativo della sentenza – ed infatti, per sostenere la sua tesi, utilizza diverse motivazioni tratte dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2017, ripercorrendo legittimi dubbi sollevati dalla dottrina che aveva ritenuto contraddittoria la pronuncia.

La contraddittorietà nasce al fatto che le Sezioni Unite da un lato argomentano come la tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è violazione di un principio generale di carattere sostanziale e, dall’altro, concludono applicando la sanzione indennitaria, propria dei vizi formali o procedurali del licenziamento e delle fattispecie nelle quali il fatto contestato sussiste, configura un illecito disciplinare, ma non è così grave da costituire una giusta causa di recesso.

Procedendo logicamente ed esaminando i principi che regolano la materia si parte da un cardine della disciplina dei licenziamenti, ossia il presupposto che «il fatto che deve rilevare per potere procedere al licenziamento è un fatto antigiuridico, un fatto di inadempimento, ossia un fatto disciplinarmente rilevante» (v. Cass. nn. 29072/2017, 10019/2016, 20540/2015). Applicando tale principio al fatto che forma oggetto di una contestazione disciplinare tardiva, le stesse Sezioni Unite deducono che «l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse».

Risalendo ai principi generali regolatori della materia deve considerarsi che «il fondamento logico-giuridico della regola generale della tempestività della contestazione disciplinare non soddisfa solo l’esigenza di assicurare al lavoratore incolpato l’agevole esercizio del diritto di difesa, quando questo possa essere compromesso dal trascorrere di un lasso di tempo eccessivo rispetto all’epoca di accertamento del fatto oggetto di addebito, ma appaga anche l’esigenza di impedire che l’indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonché quella di tutelare l’affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente».

Alla luce di queste premesse il Tribunale di Ravenna conclude che «se un fatto non è stato tempestivamente represso, non avendo avuto il datore di lavoro alcun interesse a sanzionarlo in tempo utile, il licenziamento tardivo è evidentemente avvenuto non per quel fatto, sul quale si è appunto soprasseduto … si tratta di un fenomeno che potrebbe chiamarsi di insussistenza giuridica sopravvenuta del fatto. Un fatto ‘perdonato’ (divenuto quindi disciplinarmente irrilevante) non può ritornare ad essere un fatto disciplinarmente rilevante e giustificare un licenziamento tardivo”. Al contrario lo stesso fatto dovrà essere considerato “giuridicamente insussistente laddove posto a fondamento di un licenziamento tardivo, con conseguente applicazione del 4° comma dell’art. 18», ovvero della tutela reintegratoria attenuata, applicabile quando «non ricorrono gli estremi … della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato».

Il pensiero del Giudice di legittimità viene così scomposto e riassemblato: se, come riconoscono le Sezioni Unite, la tardività della contestazione disciplinare può sottendere un effetto intimidatorio, se può consentire l’esercizio arbitrario del diritto di recesso, se genera il legittimo affidamento del lavoratore su un comportamento concludente di rinuncia all’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, non è coerente che un licenziamento disciplinare intimato a seguito di una contestazione tardiva venga assimilato alle ipotesi di tutela minore previste dal 5° comma dell’art. 18, di sproporzione tra sanzione espulsiva e inadempimento, e non venga piuttosto ricondotto alla insussistenza del fatto inteso come inadempimento giuridicamente rilevante, con conseguente tutela reintegratoria, sia pure attenuata ex art. 18, 4° comma.

La soluzione a cui è pervenuto il Tribunale di Ravenna è apprezzabile se letta alla luce delle norme civilistiche che regolano i contratti, in base alle quali lo scioglimento del vincolo contrattuale non può giustificarsi se non per una causa riconosciuta dall’ordinamento come meritevole di tutela.

L’ordinamento non può autorizzare la reviviscenza di un diritto al recesso già consumatosi con la rinuncia, perché il suo esercizio successivo non potrebbe essere sorretto da buona fede, non potendosi riconoscere effetto risolutivo ad un inadempimento contrattuale già considerato di «scarsa importanza» (art. 1455 c.c.) dallo stesso contraente che voglia avvalersene. 

Con specifico riferimento al contratto di lavoro subordinato, ciò significa che il potere di recesso non può essere esercitato quando l’inadempimento del lavoratore – conosciuto, ma non contestato tempestivamente dal datore di lavoro – è già stato da quest’ultimo valutato come non incompatibile con la prosecuzione del rapporto (art. 2119 c.c.), perché non tale da ledere l’elemento fiduciario, ovvero il suo affidamento nel futuro corretto adempimento della prestazione da parte del lavoratore.

A prescindere dalle argomentazioni interpretative, più o meno coerenti e aderenti ai principi generali che regolano i contratti e la materia lavoristica, la fattispecie esaminata dal Tribunale di Ravenna ha evidenziato l’insufficienza del sistema introdotto dalla legge n. 92/2012, a incasellare tutte le varie ipotesi di illegittimità del licenziamento.

In particolare la previsione di manifesta insussistenza del fatto ha consentito ambivalenti possibilità interpretative, sia all’orientamento giurisprudenziale più allineato con lo spirito delle riforme Fornero e Job Act di attenuare l’impatto della tutela reale, sia all’orientamento giurisprudenziale più conservatore e garantista rispetto alla posizione del lavoratore.

Infatti se nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo il «fatto» (nella accezione assunta dal comma 7 dell’art. 18) è una modificazione della realtà esterna operata dal datore di lavoro attraverso un cambiamento della organizzazione/produzione aziendale ed è quindi davvero un «fatto» che deve essere oggettivamente riscontrabile, nel licenziamento disciplinare invece il «fatto» è una condotta inadempiente rispetto agli obblighi contrattuali, principali o strumentali, funzionali alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte e consiste necessariamente in una valutazione del Giudice.

Proprio a fronte di tali dubbi, in mancanza di una diversa formulazione della norma, pare risolutivo abbandonare la speranza di una soluzione generale ed univoca ed affidarsi piuttosto ad un attento esame della fattispecie concreta, confidando in pronunce, che se pure portano a risoluzioni differenti rispetto all’applicazione o meno della tutela reintegratoria, possano comunque essere convincentemente ed analiticamente motivate sulla base delle circostanze di fatto.

Appare evidente infatti come nel caso di contestazione disciplinare non tempestiva, il termine “tardività” possa indicare fattispecie diverse, quali

una mera inosservanza dei termini concessi dal CCNL;

una rilevante dilatazione del procedimento disciplinare, che, pure aperto e a conoscenza del lavoratore, si prolunghi prima della contestazione o della sanzione;

un effettivo ritardo in considerazione di onerose istruttorie;

un tacito disinteressamento alla sanzione della condotta.

Nel caso concreto esaminato dal Tribunale di Ravenna ad esempio pare convincente ritenere come un ritardo di due anni nella contestazione, a fatti compiutamente accertati, senza alcuna reazione, con prosecuzione del rapporto in incarichi fiduciari certamente non possa considerarsi un vizio procedurale ma nemmeno un caso di sproporzione tra sanzione espulsiva e inadempimento.

Quello che è certo è che le distanze prese dal Giudice Ravennate rispetto alle Sezioni Unite portano ad alzare la soglia delle cautele e dell’attenzione da rivolgere agli aspetti disciplinari e al rispetto delle relative procedure in corso di rapporto.