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Né riforme di sistema né riforme chirurgiche, i due opposti non convincono in egual modo

Referendum 2020
Ph. Anuar Arebi / Referendum 2020

Proseguiamo il nostro focus riguardante il Referendum di domenica 20 e lunedì 21 settembre 2020 relativo al “taglio dei parlamentari”.

Ricordiamo il quesito proposto dal Referendum: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n.240 del 12 ottobre 2019?»

Analizzeremo, dunque, le ragioni del NO e quelle del SÌ, attraverso brevi commenti di illustri personalità italiane del mondo giuridico, civile e politico.

Oggi continuiamo il nostro breve excursus con il parere di Angela Di Gregorio, professore ordinario di diritto pubblico comparato, Università degli Studi di Milano.

 

Nonostante le contrapposizioni politiche, c’è un sostanziale accordo tra i costituzionalisti circa la natura monca della legge costituzionale di modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione sulla riduzione del numero dei parlamentari.

La riforma nuda e cruda provocherebbe un malfunzionamento delle procedure parlamentari e una riduzione del tasso di rappresentatività di territori e forze politiche minori. Senza ulteriori riforme di contesto (legge elettorale, ritaglio dei collegi, riforme dei regolamenti parlamenti, solo per citare le principali), solo in minima parte in itinere o calendarizzate, una “semplice” riduzione del numero dei parlamentari potrebbe portare a conseguenze istituzionali spiacevoli.

Pur essendo tutti in buona parte concordi su questo, non appaiono tuttavia convincenti le ragioni costituzionali dei sostenitori del sì. Sostanzialmente si dice che nonostante i limiti evidenti di una riforma così “brutale” e non contestualizzata si tratterebbe di un passo necessitato per interrompere lo stallo istituzionale sul fronte delle riforme.

Nel dossier del 7 settembre 2020 preparato dall’Ufficio Documentazione e Studi dei deputati del PD (che riassume l’evoluzione delle posizioni del partito sulla riforma) si giustifica il revirement in tema di sostegno al quesito referendario sulla base dell’accordo di coalizione che ha portato alla nascita del Governo Conte-II.

I maggiori azionisti della riforma costituzionale avrebbero smussato il loro furore populista ed antiparlamentare accettando l’introduzione di ulteriori elementi di contesto che eviterebbero una riduzione puramente numerica del numero dei parlamentari ferme restando tutte le altre componenti dell’architettura istituzionale, soprattutto la legge elettorale. Ma l’argomento, pur essendo sostenibile dal punto di vista politico, pare debole dal punto di vista costituzionale. L’impegno per le riforme non equivale alla certezza delle stesse. Anche perché su di esse aleggia l’alea dei vari e difficili passaggi parlamentari e di eventuali altre consultazioni referendarie (se si procedesse, come già previsto, ad ulteriori aggiustamenti del testo costituzionale).

In secondo luogo, il tema dell’incoraggiamento del cammino delle riforme pur appare un argomento poco tecnico, e puramente politico. La riforma “minima” come tassello sul cammino di riforme incrementali che possano sfociare perlomeno nella eliminazione del bicameralismo perfetto (vero convitato di pietra di questa riforma) appare illusoria. Le riforme “minime” possono andare bene per questioni puntuali e confinate (come il pareggio di bilancio, le pari opportunità e simili), non per aspetti posti all’interno dei complessi meccanismi di funzionamento della democrazia rappresentativa (nucleo ancora oggi del nostro sistema costituzionale).

Altro argomento suadente è quello secondo cui le riforme sistemiche sono state bocciate dagli elettori e peccherebbero di chiarezza. Completamente d’accordo. Ma tra le riforme “sistemiche” e le riforme “minime” ben potrebbe esservi una via intermedia che recuperi un po’ di coerenza nei meccanismi istituzionali. Perlomeno, il pacchetto riduzione numero dei parlamentari/nuova legge elettorale avrebbe dovuto procedere contestualmente. Troppe incertezze, troppe alee politiche, troppi revirement.

Facilmente criticabili sono i riferimenti alla riduzione dei costi della politica. Sarebbe stato certo più saggio rimettere mano alle regole sul finanziamento della politica. O limare i numeri dei sottosegretari o dei consiglieri di qualche regione. Ma non vale la pena commentare uno slogan del genere se non per ricordare che l’impronta populista di questa riforma, che alcuni pretendono ridotta o sparita all’insegna della “ragion di governo”, riaffiora nitida nello slogan pre-elettorale di immediata presa e l’unico in grado di far prevalere i sì, ossia lo slogan “anti casta”. Salvo dimenticare che una riforma “chirurgica” isolata, come al momento questa rischia di rimanere, consegnerà alla leadership dei partiti più grandi il controllo ferreo della selezione della rappresentanza.

Non sembra dunque del tutto rimesso il peccato originale dell’antiparlamentarismo, di una riforma vessillo dal ruolo fortemente simbolico. Riforme incrementali possono portare a mutamenti di sistema? Come già detto, non c’è certezza sul prosieguo, metti che ci siano altre emergenze sanitarie, e poi i programmi di governo in Italia vanno e vengono, anche più volte in corso di legislatura. Figuriamoci cosa potrebbe rimanere tra una legislatura e l’altra…

Infine, circa il panorama degli altri paesi spesso evocato (anche con riferimento a riforme analoghe in corso in alcuni di essi): non basta comparare i rapporti numerici ma è indispensabile esaminare accuratamente funzioni e ruolo politico e rappresentativo delle camere nei rispettivi ordinamenti.