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Golden Share

di Elena Berto

 

Golden Share: il fenomeno della Golden Share e quello del Golden Power: analisi introduttiva

Il controverso tema[1] della Golden Share e, in generale, quello dei poteri speciali attribuiti all’Autorità governativa nazionale, con riferimento al controllo dalla stessa operato nelle società privatizzate, da sempre, ha interessato gli operatori economici e gli studiosi del diritto dell’economia, giacché si tratta di un tema evidentemente legato al fenomeno dell’intervento pubblico-statale nell’economia. Come noto, l’istituto della Golden Share, come anche quello del Golden Power, seppur in modo diverso, rappresentano istituti volti ad attribuire al Governo una serie di poteri e/o vincoli statuali, esercitabili all’interno delle compagini societarie degli enti non più soggetti ad una gestione meramente statale, a seguito dei processi di privatizzazione. Detti fenomeni giuridici ed economici, fin dalla loro positivizzazione normativa, sono stati valutati - in modo critico - in una duplice ottica. Da un lato, infatti, è stata discussa la compatibilità dei regimi derivanti dalla Golden Share e dal Golden Power rispetto alle principali libertà economiche euro-unitarie: (i) il diritto di libera circolazione dei capitali e (ii) il diritto di libertà di stabilimento; dall’altro lato, viceversa, è da sempre emersa la dubbia compatibilità di questi regimi con il diritto societario disciplinato dal Codice Civile, tenuto conto degli ampi poteri di deroga forniti allo Stato sulla Governance delle imprese operanti nei settori strategici dell’economia nazionale.

L’evoluzione della disciplina in esame è stata arricchita da imponenti interventi della Corte di Giustizia UE e da fondamentali indicazioni della Commissione europea, nell’ambito di quel conflitto che, da sempre, vede contrapporsi: da una parte, gli Stati membri, i quali tendono a rivendicare le proprie istanze protezionistiche ed il diritto alla salvaguardia dei supremi interessi nazionali, soprattutto con riferimento alla tutela di quei settori dell’economia, reputati “strategici”; dall’altra parte, le istituzioni euro-unitarie, le quali, di contro, non hanno mancato di sanzionare quelle disposizioni, sia di natura privata che pubblica, reputate incompatibili con i valori del liberismo economico derivante dalle libertà fondamentali UE. Le medesime istituzioni euro-unitarie, a più riprese, hanno ricondotto le espressioni Golden Share e Golden Power ad una sostanziale e univoca definizione, vale a dire: qualsiasi strumento giuridico che consenta di mantenere un controllo e/o un’influenza pubblica all’interno di singole società private. Orbene, sembra possibile ascrivere detti fenomeni economici nell’alveo di quelle politiche di privatizzazione sostanziale volte a ridisegnare l’assetto proprietario di alcune S.p.A. operanti in settori di interesse generale, nell’ottica di un sostanziale ingresso di soggetti privati nel capitale sociale delle stesse, e nell’ottica di una modifica “strategica” delle compagini societarie degli enti. Il controllo statale delle società private, derivante dai processi di privatizzazione delle imprese che appartenevano allo Stato, trae la propria origine dalla sostanziale trasformazione economica degli enti pubblici economici, delle aziende autonome statali, degli enti di gestione e delle partecipazioni statali; ciò in quanto anche a fronte del trasferimento dei poteri degli assets proprietari, lo Stato, sovente, cerca di mantenere una certa egemonia ed un certo controllo.

 

Golden Share: cenni di diritto comparato: l’esperienza inglese

Il processo di privatizzazione delle società pubbliche, iniziato negli anni ’80, in Inghilterra, e proseguito, successivamente, in Francia, Germania, Svezia, Danimarca, Spagna, Portogallo e Belgio, si è esteso anche ai servizi di pubblica utilità (acqua, gas, telecomunicazioni, elettricità ecc.), verso la metà degli anni ’80. In Europa, in particolare, si è assistito ad una crescente diminuzione dell’intervento pubblico in campo economico, in senso del tutto opposto rispetto al passato trend, che, di converso, aveva condotto alla pubblicizzazione di gran parte dei settori industriali.

Tra i modelli paradigmatici di riferimento, è possibile rinvenire, in particolare, tre diversi strumenti riservati allo Stato a tutela di interessi fondamentali della comunità nazionale. In primo luogo, occorre fare riferimento alla Golden Share inglese; in secondo luogo, sembra doversi rammentare l’importanza del modello francese della Action Spécifique; da ultimo, pare necessario menzionare la disciplina dei poteri speciali italiana. In particolare, l’analisi di diritto comparato in materia, sovente, inizia dall’esperienza inglese, giacché il Regno Unito è stato tra i primi Ordinamenti giuridici ad intraprendere una politica di privatizzazione delle imprese pubbliche, volta alla costituzione di un singolarissimo modello di public company, ma, soprattutto, costituisce il primo sistema dove, per la prima volta, è stato introdotto un meccanismo di controllo statale sulle imprese dismesse, caratterizzato dalla costituzione di Indipendent Regulatory Agency. Inoltre, l’esperienza inglese è tra le prime ad aver forgiato il sistema della Golden Share, intraprendendo un’apia politica di privatizzazione delle imprese pubbliche, tramite l’introduzione di nuove forme di management pubblico, che hanno interessato le public utilities. L’istituto della Golden Share è stato previsto al fine di consentire al Governo di impedire l’ingresso di soggetti stranieri non graditi nella compagine sociale dell’ente e mutamenti nel controllo della società. Si è in presenza, in particolare, di un titolo azionario “speciale”, che assicura allo Stato la possibilità di esercitare varie tipologie di poteri, assicurandosi così il controllo su decisioni fondamentali relative all’assetto e alla direzione della società. Detta azione speciale, ha garantito la cessione integrale delle partecipazioni pubbliche, tramite la dismissione di varie società e tramite l’ottimizzazione dei ricavi derivanti dalla loro vendita, impedendo, al contempo, di perdere il controllo societario degli enti interessati, evitando che lo stesso fosse assunto da investitori esteri, i quali avrebbero potuto intaccare la peculiarità dell’assetto patrimoniale e gestionale delle società stesse. Detto timore di acquisizione di partecipazioni serbato nei confronti degli investitori esteri “predatori”, sembra essere tornato di moda, con l’introduzione del Regolamento euro-unitario n. 452 del 2019, che ha istituito un sistema di screening degli investimenti esteri diretti, provenienti da operatori economici stranieri. La definizione[2] degli investimenti esteri diretti[3] è rinvenibile all’interno dell’art. 2 del Regolamento euro-unitario n. 452 del 2019, che detta la seguente disciplina: l’investimento estero diretto consiste in un investimento di qualsiasi tipo da parte di un investitore estero inteso a stabilire o mantenere legami durevoli e diretti tra l’investitore estero e l’imprenditore o l’impresa cui è messo a disposizione il capitale, al fine di esercitare un’attività economica in uno Stato membro, compresi gli investimenti che consentono una partecipazione effettiva alla gestione o al controllo di una società che esercita un’attività economica”. Sempre a mente dello stesso articolo del Regolamento de quo, è possibile rinvenire altresì la nozione di “investitore”: “l’investitore estero è una persona fisica di un paese terzo o un’impresa di un paese terzo che intende realizzare o ha realizzato un investimento estero diretto nel territorio dell’Unione”. A tal riguardo, giova precisare come la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con parere consultivo del 16 maggio 2017 n. 2/15, ha delineato una nozione di investimenti diretti, in via pretoria, affermando che gli stessi consistono in “investimenti di qualsiasi tipo effettuati da persone fisiche o giuridiche e aventi lo scopo di creare o di mantenere legami durevoli e diretti fra l’investitore di fondi e l’impresa cui tali fondi sono destinati ai fini dell’esercizio di un’attività economica”. In particolare, la CGUE afferma che anche “un’assunzione di partecipazioni in un’impresa costituita in forma di società per azioni è un investimento diretto qualora le azioni detenute dall’azionista conferiscano a quest’ultimo la possibilità di partecipare effettivamente alla gestione di tale società o al suo controllo”. Tornando al tema della Golden Share, anche definita “Special Rights Share”, sembra potersi affermare che la stessa, soprattutto in passato, costituiva un’azione specifica che garantiva al Governo l’esercizio di poteri di controllo sullo statuto dell’impresa, sulla scelta dei dirigenti, sulla struttura del capitale e sui nuovi azionisti. I poteri derivanti dal possesso di tale azione dorata traevano origine da una fonte contrattuale, vale a dire gli statuti societari, sottratti a qualsiasi forma di juridical review. Non si trattava, pertanto, di un intervento legislativo avente la sua fonte in una norma dello stato, diversamente dal fenomeno del Golden Power. Le Corti Britanniche hanno sempre considerato detta azione alla stregua di un potere privato e, di conseguenza, si sono sempre rifiutate di sottoporre a controllo giurisdizionale le sue modalità di esercizio, essendosi in presenza di uno strumento di diritto privato finalizzato, tuttavia, al conseguimento di obiettivi pubblici. Ciò configurava, probabilmente, il più rilevante limite dell’esperienza britannica in materia di golden share, proprio per la difficoltà di trovare un equilibrato rapporto tra dimensione privata e pubblica.

 

Golden Share: la disciplina dei poteri speciali in Italia: dalla Legge n. 474 del 1994, alla riforma del 2012, fino agli interventi normativi del 2017 e del 2019

Il fenomeno delle privatizzazioni è strettamente legato anche alla disciplina dei poteri speciali, attribuiti nell’ordinamento giuridico italiano, al Governo, sotto forma di prerogative statali dirette a tutelare, concretamente, nell’ambito di determinati settori economici, gli interessi essenziali e vitali di talune imprese. L’analisi deve essere condotta alla luce del decreto Legge n. 332 del 1994, convertito con Legge n. 474 del 1994, riformata, prima nel 2003, con la Legge n. 350 e, successivamente, nel 2012, sulla base dei parerei motivati della Commissione europea e delle sentenze della Corte di Giustizia UE che, da sempre, non hanno omesso di rilevare ed evidenziare l’incompatibilità del sistema della Golden Share con i principi euro-unitari della libertà di circolazione dei capitali e di stabilimento. Con gli interventi normativi sopra richiamati, si è dato luogo, pertanto, ad un profondo mutamento della disciplina dei poteri speciali, a partire dal nomen iuris, giacché si è passati dalla locuzione della Golden share a quella dei Golden Powers. Con riguardo alla disciplina italiana in tema di Golden Powers[4], occorre precisare come, attraverso detto fenomeno, si attribuisce all’ordinamento giuridico Statale il potere di controllare le operazioni di investimento finalizzate all’acquisto del controllo di imprese operanti in settori strategici; consentendo, dunque, all’autorità governativa di esercitare un potere di “opposizione” rispetto a talune operazioni societarie (fusioni, scissioni, trasferimenti di azienda o di rami di azienda, modifiche dell’oggetto sociale, cambi di controllo in genere, ecc.), ponendo in essere dei veri e propri divieti in materia di operazioni societarie.

Lo stato, a tal riguardo, ha il potere di opporsi all’ingresso, nella compagine societaria dell’ente, di soci che non risultano essere voluti dalla società, vale a dire di soci “non graditi”.

L’elemento caratterizzante della riforma sui Golden Powers[5] risiede nel fatto che il legislatore ha inteso conferire ai “poteri speciali” del Governo non la facoltà di incidere sulla “gestione ordinaria” delle imprese privatizzate, bensì esclusivamente su quelle modificazioni dell’atto costitutivo o comunque su quelle operazioni societarie in grado di ledere o pregiudicare gli interessi vitali dello Stato, tramite variazioni della compagine societaria dell’ente di carattere “straordinario”, in determinati momenti storici “critici”, con riferimento a particolari materie e, segnatamente, quelle strategiche.

Il d.l. 15 marzo 2012 n. 21, convertito, con modificazioni, nella legge 11 maggio 2012, n. 56, ha sostituito la disciplina di cui alla l. 474/1994. In primo luogo, i poteri speciali non hanno più un legame con operazioni di privatizzazione, giacché il relativo ambito di esercizio non risulta più circoscritto alle sole imprese precedentemente in mano pubblica, ma riguarda tutti gli attori di un determinato settore o in possesso di certi assets. Conseguentemente, lo Stato non è più chiamato ad esercitare le proprie prerogative per mantenere l’influenza su un ex monopolista pubblico.

Si passa così dalla golden share ai golden powers; nello specifico, non si è più in presenza di una clausola statutaria - o un’azione d’oro - che fonda i poteri speciali, bensì di una normativa di carattere generale e valenza pubblicistica, che trae la sua fonte legittimante direttamente da una Legge ordinaria dello Stato. Si abbandona così l’ambito privatistico e si entra pienamente in quello del diritto pubblico.

Il citato decreto prevede l’esercizio dei poteri speciali in relazione alle attività di rilevanza strategica nei settori della difesa e della sicurezza nazionale (art. 1, l. 56/2012) e nel campo dei beni di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (art. 2, l. 56/2012).
Quanto ai presupposti per l’esercizio dei poteri speciali, mentre nel settore della difesa e della sicurezza nazionale la legge richiede l’esistenza di una “minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali”, diversamente, nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni è altresì necessario che l’operazione presa a riferimento possa dare luogo a “una situazione eccezionale, non disciplinata dalla normativa nazionale ed europea di settore” di “minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti”.

Quanto, invece, alla consistenza dei poteri, sono riconosciute potestà di tipo prescrittivo, interdittivo e oppositivo. Il governo può, infatti, (a) imporre specifiche condizioni relative alla sicurezza degli approvvigionamenti, alla sicurezza delle informazioni, ai trasferimenti tecnologici, (b) porre il veto all’adozione di delibere dell’assemblea, (c) opporsi all’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni. Con Legge 4 dicembre 2017, n. 172[6] (di conversione del d.l. 16 ottobre 2017, n. 148), sono state introdotte ulteriori rilevanti novità. Le nuove regole hanno esteso l’ambito di applicazione dei poteri governativi ai cosiddetti “settori ad alta tecnologia”, fra cui “le infrastrutture critiche o sensibili” (es. quelle per l’immagazzinamento e gestione dei dati o quelle finanziarie), “le tecnologie critiche” (es. l’intelligenza artificiale, la robotica o i semiconduttori), demandando ad uno specifico decreto una puntuale definizione degli ambiti più esposti a pericoli per la sicurezza e l’ordine pubblico. Inoltre, fra i criteri di valutazione delle operazioni di soggetti extra-europei attivi nel campo delle reti, oltre alla “minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi pubblici”, è stato aggiunto anche il “pericolo per la sicurezza e per l’ordine pubblico”.

Pare ragionevole segnalare, altresì, che “al fine di un aggiornamento della normativa in materia di poteri speciali in conseguenza dell'evoluzione tecnologica intercorsa, con particolare riferimento alla tecnologia 5G e ai connessi rischi di un uso improprio dei dati con implicazioni sulla sicurezza nazionale”, il d.l. 25 marzo 2019, n. 22, convertito dalla l. 20 maggio 2019, n. 41, ha esteso l’ambito di applicazione dei poteri speciali del Governo, annoverando tra le attività di rilevanza strategica per la difesa e sicurezza nazionale, anche i servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati su tecnologia 5G.

Pertanto, sono stati sottoposti all’obbligo di notifica anche la stipula di contratti o accordi aventi ad oggetto l’acquisto di beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione e alla gestione delle reti inerenti a questi servizi, ovvero l’acquisizione di componenti ad alta intensità tecnologica funzionali alla predetta realizzazione o gestione, quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea.

L’intervento pubblico attuabile tramite i golden powers, pertanto, risulta essere strutturato come segue; anzitutto, la disciplina è applicabile nei confronti di società sia pubbliche sia private, che svolgano attività considerate di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, e non più, dunque, esclusivamente nei confronti delle società privatizzate; in secondo luogo, i poteri speciali vengono ridotti, sebbene il loro ambito di applicazione si estenda, limitandosi alla possibilità di porre il veto su determinate scelte societarie ed alla possibilità di opporsi all’acquisto di partecipazioni azionarie in specifiche e ben delineate circostanze.

I poteri speciali permettono, inoltre, allo Stato di intervenire sulla circolazione delle azioni e sulle operazioni straordinarie poste in essere dalle società, a prescindere da una partecipazione statale nella compagine societaria dell’ente. I criteri di esercizio dei golden powers risultano, attualmente, di esclusiva competenza delle fonti primarie.

È previsto, in particolare, l’obbligo di motivazione dell’intervento pubblico nella forma di “informativa completa sulla delibera o sull’atto da adottare in modo da consentire il tempestivo esercizio del potere”; così come è previsto, altresì, un controllo giurisdizionale postumo e l’obbligo di emanazione di appositi decreti che vadano ad individuare, con cadenza triennale, le attività e gli assets strategici tutelati sia relativamente alla difesa e alla sicurezza nazionale sia nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni.

I fenomeni della Golden Share e dei Golden Powers non possono non essere letti alla luce del recente Regolamento[7] euro-unitario n. 452 del 2019, il quale, come già puntualizzato, istituisce “un quadro” per il controllo del fenomeno economico degli investimenti esteri diretti[8] nel territorio e nello spazio giuridico euro-unitario; controllo che deve essere attuato dagli Stati membri e dalla Commissione, attraverso la predisposizione di sistemi di screening degli investimenti stessi, per motivi di tutela della sicurezza o di ordine pubblico. Il presente quadro operativo è indirizzato alla creazione di un meccanismo di cooperazione istituzionale e sovranazionale tra gli Stati membri e, soprattutto, tra gli Stati membri e la Commissione. La correlazione tra la materia dei poteri speciali e quella degli investimenti esteri diretti assume particolare rilevanza anche nella prospettiva di analisi del rapporto che sussiste tra libera circolazione delle merci, nello spazio giuridico euro-unitario, e la regolamentazione dei meccanismi di controllo degli investimenti degli operatori economici stranieri. Nell’ambito del regolamento UE in materia di investimenti esteri diretti, infatti, è previsto il diritto degli Stati membri di derogare alla libera circolazione dei capitali (che costituisce una libertà fondamentale sancita all’articolo 65, paragrafo 1, lettera b, TFUE), risultando possibile imporre restrizioni a detta circolazione, sempre per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.

 

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[1] Occorre precisare come il Governo britannico, attualmente, detiene golden share in un certo numero di società operanti nel settore della difesa: 1) Atomic Weapons Establishment plc.; 2) BAE Systems Marine (Holdings) Ltd; 3) Devonport Royal Dockyard Ltd; 4) Rosyth Royal Dockyard Ltd; 5) QinetiQ Group plc.; 6) QinetiQ Holdings Ltd; 7) QinetiQ Ltd; 8) CLH Pipeline System Ltd; 9) BAE Systems plc.; 10) Rolls-Royce plc.

[2] Per un’approfondita e sapiente analisi del fenomeno degli investimenti esteri diretti, si veda G. NAPOLITANO, “Il regolamento sul controllo degli investimenti esteri diretti: alla ricerca di una sovranità europea nell’arena economica globale”, in Rivista della Regolazione dei Mercati, fascicolo n. 1/2019.

[3] Per una compiuta analisi sul tema dei golden powers e dei fondi sovrani, a confronto con gli investimenti esteri diretti, si vedano le seguenti fonti: S.M. CARBONE, “Golden share e fondi sovrani: lo Stato nelle imprese tra libertà comunitarie e diritto statale”, in Dir. Comm. Internaz., 2009; M. CLARICH, “Le società partecipate dallo Stato e dagli enti locali fra diritto pubblico e diritto privato”, in Le società a partecipazione pubblica (a cura di F. Guerrera), Torino, 2010; G. SCARCHILLO, “Privatizzazioni e settori strategici. L’equilibrio tra interessi statali e investimenti stranieri nel diritto comparato”, Torino, Giappichelli, 2018; M.A. CARRAI, “China’s foreign direct investments screening and the future of global investment”, in G. NAPOLITANO (a cura di); M. CASANOVA, “Svolgimento delle imprese pubbliche in Italia: impresa pubblica ed impresa privata nella costituzione”, in Riv.soc., 1967; J. CEYSSENS, “Towards a common foreign investment policy? Foreign investment in the european Constitution”, in Leg. Issues Econ. Integr., 3, 2005; S.M. CARBONE, “Golden share e fondi sovrani: lo Stato nelle imprese tra libertà comunitarie e diritto statale”, in Dir. Comm. Internaz., 2009; M. CLARICH-A. PISANESCHI, voce Privatizzazioni, in Dig. disc. pubbl., 2000; A. COMINO, “Golden power per dimenticare la golden share. Le nuove forme di intervento pubblico sugli assetti societari nei settori della difesa, della sicurezza nazionale, dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni”, in Riv. it. dir. pubbl. comunit.,

[4] A partire dagli anni ottanta, tra i paesi europei, sono state intraprese varie politiche di privatizzazione delle imprese pubbliche e, in particolare, detti processi sono stati sovente accompagnati dalla predisposizione di cautele volte ad escludere il rischio di acquisizione di un eccessivo potere finanziario da parte di investitori stranieri. L’esperienza straniera più emblematica è sicuramente quella del Regno Unito, che, con l’intento di impedire non voluti cambiamenti nel governo delle società privatizzate, ha realizzato un meccanismo di controllo statale sulle imprese pubbliche privatizzate, denominato “Golden Share”, consistente nell’introduzione di clausole statutarie attributive di poteri speciali all’autorità governativa. Tra le varie modalità di esercizio di questi poteri sulle società privatizzare possono essere individuate due fondamentali tipologie di Golden Share. In primo luogo, occorre fare riferimento all’ipotesi della c.d. “built in majority”, con la quale veniva riconosciuto all’azionista pubblico un voto in più rispetto alla totalità delle azioni in mano privata, al fine di garantire un penetrante intervento nelle vicende delle società privatizzate; in secondo luogo, è possibile richiamare il sistema della c.d. “relevant person”, volta ad assicurare il rispetto di limiti nel possesso di pacchetti azionari, con la possibilità di instaurare un contraddittorio nei confronti dei detentori di partecipazioni eccedenti determinate soglie al fine di procedere, se del caso, alla cessazione coattiva delle partecipazioni. Analoghi strumenti societari sono stati adottati in Francia, dove l’istituto dell’action specifique attribuì al governo poteri affini a quelli della Golden Share anglosassone. In Italia, un importante intervento legislativo si è avuto con la legge 474/1994, nella quale si è stabilito che, prima della dismissione del pubblico controllo sulle società operanti in taluni settori (fonti energetiche, trasporti, difesa, telecomunicazioni e altri pubblici servizi), le società interessate avrebbero dovuto attribuire poteri speciali al Governo, al fine di introdurre nello statuto apposite clausole. Le regole sulla Golden Share, inizialmente, però, si caratterizzavano per gli ampi margini di discrezionalità riservati agli interventi statuali e, pertanto, sono stati fortemente criticati, soprattutto da parte della Corte di giustizia europea la quale, più casi, ha ipotizzato una contrarietà del sistema della Golden Share ai principi dell’Unione, sanciti dall’art. 207 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, (che rimette la materia degli investimenti esteri diretti alla competenza esclusiva dell’Unione) e dagli artt. 63 e 65 TFUE (che a loro volta vietano restrizioni ai movimenti di capitali, se non per ragioni di ordine pubblico e di sicurezza).

[5] Sul punto, si veda il recentissimo contributo di G. SCARCHILLO, “Golden Powers e settori strategici nella prospettiva europea: il caso Huawei. Un primo commento al Regolamento UE 2019/452 sul controllo degli investimenti esteri diretti”, in Diritto del Commercio Internazionale, Fascicolo 2/2020.

[6] A tal riguardo, si vedano le seguenti fonti: G. SCARCHILLO, “Dalla Golden Share al Golden Power: la storia infinita di uno strumento societario”, in Contratto e Impresa, 2015; G. SCARCHILLO, “Privatizations in Europe”, in Rivista del commercio internazionale, I, 2011; G. SCARCHILLO, “Privatizzazioni, libera circolazione dei capitali e golden share. L’intervento di uniformazione e armonizzazione della CGCE”, in AA.VV. (a cura di F.P. TRAISCI), Il diritto privato europeo: dal mercato interno alla cittadinanza europea, Napoli, ESI, 2009; S. CASSESE, “La nuova Costituzione economica”, Roma-Bari, 2000.

[7] Per una compiuta analisi in merito all’intento perseguito dal legislatore euro-unitario, si prenda in considerazione il pregiato e recente scritto di G. SCARCHILLO, “Golden Powers e settori strategici nella prospettiva europea: il caso Huawei. Un primo commento al Regolamento UE 2019/452 sul controllo degli investimenti esteri diretti”, in Diritto del Commercio Internazionale, Fascicolo 2/2020. In particolare, l’autore chiarisce come: “Lungi dal realizzare un’armonizzazione tout court, l’intento dello strumento menzionato è però chiaro: concepire una nuova iniziativa strategica -rientrante a pieno diritto nella Politica Commerciale Comune- tale da consentire agli Stati membri (lasciando loro un ampio margine di apprezzamento in relazione alle singole esigenze e preoccupazioni nazionali) di monitorare gli investimenti nell’Unione provenienti da Paesi terzi”.

[8] Sull’argomento, si consultino le sapienti considerazioni derivanti dalle seguenti fonti: G. SCARCHILLO, “Privatizzazioni e settori strategici: l'equilibrio tra interessi statali e investimenti stranieri nel diritto comparato”, Giappichelli, Torino, 2018; M. D’ALBERTI, “Il golden power in Italia. Norme ed equilibri”, in G. NAPOLITANO (a cura di), “Foreign Direct Investments Screening. Il controllo sugli investimenti esteri diretti”, Il Mulino, Bologna, 2019; N. IRTI, “L’ordine giuridico del mercato”, Roma, 2003; A. SACCO GINEVRI e F.M. SBARBARO, “La transizione dalla golden share ai poteri speciali dello Stato nei settori strategici: spunti per una ricerca”, in Le nuove leggi civ. comm., 2013; F. GALGANO, “Pubblico e privato nella regolazione dei rapporti economici, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia” (diretto da F. Galgano), vol. I, La costituzione economica, Padova, 1977.