Investimenti esteri diretti: il nuovo trend e i nuovi sviluppi in materia di golden powers

Altalena
Ph. Luca Martini / Altalena

Indice:

1. Dal fenomeno della “Golden Share” al sistema dei “Golden Powers”: l’espressione dei Golden Powers tra dimensione sovranazionale e globalizzazione;

2. La posizione della Commissione europea: l’evoluzione ed il mutamento di pensiero, dalla posizione di “incondizionata apertura” agli investimenti esteri, alla presa di coscienza circa la necessità di “limitazioni”;

3. La giurisprudenza della Corte di Giustizia sugli investimenti esteri diretti e le limitazioni derivanti dalle libertà fondamentali del mercato e dello spazio giuridico euro-unitario: tra la libera circolazione dei capitali e la libertà di stabilimento;

4. La crescita dei Fondi Sovrani e la Regolazione nei settori strategici;

5. Gli Investimenti Diretti in imprese strategiche europee;

6. Un possibile bilanciamento tra l’interesse alla tutela della sicurezza pubblica e le produzioni strategiche nazionali e l’interesse alla attrazione ed al compimento di investimenti transfrontalieri;

7. Uno sguardo al funzionamento del sistema di “screening” degli investimenti esteri diretti istituito dal Regolamento UE n. 452 del 2019.

 

1. Dal fenomeno della “Golden Share” al sistema dei “Golden Powers”: l’espressione dei Golden Powers tra dimensione sovranazionale e globalizzazione

Di fondamentale importanza risulta essere l’osservazione dell’equilibrio tra: (i) l’interesse degli Stati a promuovere investimenti esteri diretti, con quello di (ii) garantire la coerenza e compatibilità degli investimenti con taluni rilevanti interessi nazionali.

Nella ricerca di detto equilibrio[1], lo Stato sembra aver assunto, in un primo momento, la veste di soggetto c.d. “azionista”: si pensi a quando il sistema ruotava attorno al fenomeno della Golden Share; successivamente, lo Stato sembra aver assunto la veste di soggetto c.d. “regolatore” (si pensi, a tal riguardo, al Decreto Legge 15 marzo 2012, n. 21 e, in particolare, al contestuale passaggio al diverso sistema dei Golden Powers); da ultimo, lo Stato ha sicuramente assunto il ruolo di soggetto c.d. “stratega”, chiamato a individuare la nozione di sicurezza nazionale e a verificarne la compromissione.

Con il passare del tempo, l’ambito applicativo della disciplina dei Golden Powers si è via via esteso anche ad altre materie; infatti, i Decreti-Legge del 16 ottobre 2017, n. 148, e del 20 maggio 2019, n. 41, hanno garantito l’ampliamento della materia anche all’ambito delle reti, delle infrastrutture strategiche e di telecomunicazioni, dei settori ad alta tecnologia, fino all’ambito finanziario.

Giova inoltre precisare che al fine di un aggiornamento della normativa in materia di poteri speciali - in conseguenza dell’evoluzione tecnologica intercorsa - con particolare riferimento alla tecnologia 5G, e ai connessi rischi di un uso improprio dei dati con implicazioni sulla sicurezza nazionale, il Decreto Legge 25 marzo 2019, n. 22, convertito dalla Legge 20 maggio 2019, n. 41, ha esteso l’ambito di applicazione dei poteri speciali del Governo, annoverando tra le attività di rilevanza strategica, per la difesa e sicurezza nazionale, anche i servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati su tecnologia 5G.

Pertanto, sono stati sottoposti all’obbligo di notifica anche la stipula di contratti o accordi aventi ad oggetto l’acquisto di beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione e alla gestione delle reti inerenti a questi servizi, ovvero l’acquisizione di componenti ad alta intensità tecnologica funzionali alla predetta realizzazione o gestione, quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea.

Dunque, deve essere chiarito come il ruolo dello Stato, nell’esercizio dei poteri indicati, è non più quello di semplice “regolatore”, risultando necessario che le decisioni pubbliche siano permeate da una capacità di analisi strategica, in grado di porre in essere valutazioni di tipo anche geo-economico e geo-politico, saldamente fondate su verifiche tecniche complesse.

Con specifico riferimento al passaggio dal sistema della Golden Shares a quello dei Golden Powers, occorre rilevare come il Decreto Legge 15 marzo 2012, n. 21 rappresenti il fondamentale strumento del processo di transizione tra questi due sistemi e, pertanto, costituisce l’attuale cornice normativa dei poteri di intervento dello Stato in determinati e rilevanti settori dell’economia nazionale, a prescindere dal passato retaggio pubblicistico (o meno) delle società oggetto d’interesse governativo.

Detto provvedimento, che è stato oggetto d’attenzione e di importante rivisitazione nel 2019, oltreché di recente modifica da parte del c.d. “Decreto Liquidità”, nel 2020, prevede una disciplina specifica intesa a regolare le varie ipotesi e le modalità dell’intromissione pubblica in talune dinamiche privatistiche.

 

2. La posizione della Commissione europea: l’evoluzione ed il mutamento di pensiero, dalla posizione di “incondizionata apertura” agli investimenti esteri, alla presa di coscienza circa la necessità di “limitazioni”

Con riferimento alla posizione della Commissione, occorre valutare le Comunicazioni del 2010 e del 2017 e, successivamente, quella effettuata - nel 2020 - con riguardo al Reg. UE del 19 marzo 2019, n. 452, oggetto della presente analisi.

In quella del luglio 2010, la Commissione, attesa la competenza esclusiva attribuita all’Unione, dal TFUE, in materia di investimenti esteri diretti, ha chiarito la sua linea d’azione, sostenendo che l’investimento diretto “in entrata” crea posti di lavoro, ottimizza l’allocazione di risorse, dà luogo a trasferimenti di tecnologia e di capacità tecnica, aumenta la concorrenza e gli scambi, sicché l’Europa “trae beneficio della sua apertura al resto del mondo (...) e non può permettersi di prendere un posto secondario nella competizione globale per attrarre e promuovere investimenti da e verso ogni parte del mondo”.

Detto approccio risulta, in qualche modo, rivisitato sette anni dopo, nel 2017, quando la Commissione, consapevole dei potenziali risvolti politico-strategici dovuti all’aumento degli investimenti esteri diretti in Europa, interviene con una nuova Comunicazione sul tema.

In particolare, nella Comunicazione del 2017, viene affermata la necessità di “accogliere con favore gli investimenti esteri diretti tutelando al contempo gli interessi fondamentali” e, pur confermandosi che l’apertura europea agli investimenti esteri diretti risulta essere un principio cardine dell’ordinamento europeo, si rimarca la necessità di evitare che gli stessi minaccino interessi essenziali.

Precisa, infatti, la Commissione che “sussiste il rischio che in singoli casi gli investitori stranieri possano cercare di acquisire il controllo o di esercitare influenza nelle imprese europee le cui attività hanno ripercussioni sulle tecnologie cruciali, sulle infrastrutture, sui fattori produttivi o sulle informazioni sensibili. Il rischio sorge anche e soprattutto quando gli investitori stranieri sono statali o controllati dallo Stato, anche mediante finanziamenti o altri mezzi”. Sulla base di queste posizioni, la Commissione riconosce la necessità che ai singoli Stati membri sia garantita “la necessaria flessibilità in relazione al controllo degli investimenti esteri diretti”, al contempo, tuttavia, proponendo una cooperazione e coordinamento più intensi, attesa la dimensione europea degli investimenti esteri diretti, come tali rientranti nell’ambito della politica commerciale dell’UE. L’atteggiamento è sicuramente di apertura, ma non incondizionata, per via della preoccupazione che taluni investimenti esteri diretti, in specie quelli dei Fondi Sovrani, non sempre perseguono obiettivi di natura esclusivamente economica o di semplice massimizzazione del valore, potendo essere, viceversa, finalizzati ad assicurare il possesso di tecnologie avanzate, a guadagnare l’accesso a risorse naturali o a migliorare la competitività delle imprese nazionali concorrenti di quelle partecipate[2].

Lo stesso atteggiamento di apertura non incondizionata permea, infine, il recentissimo Reg. UE 19 marzo 2019, n. 452, recante la disciplina di un sistema comune di controllo degli investimenti esteri, volto ad assicurare la tutela delle attività strategiche e il monitoraggio delle operazioni con potenziale impatto su (i) sicurezza e (ii) ordine pubblico, in tutta Europa. Le nuove misure allargano il novero dei settori strategici (in particolare, i settori energia, trasporti e comunicazione, ma anche finanza[3] e aerospazio, gestione dei dati e tecnologia in genere, come robotica, big data, semiconduttori e intelligenza artificiale), venendosi a delineare, inoltre, un meccanismo di collaborazione tra gli Stati e tra questi e la Commissione europea, ferma l’autonomia decisionale del singolo Paese coinvolto.

Come noto, nel 2020, la Commissione europea, con Comunicazione del 25.03.2020, in materia di “Orientamenti agli Stati membri per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti e la libera circolazione dei capitali provenienti dai paesi terzi, nonché la protezione delle attività strategiche europee, in vista dell’applicazione del regolamento UE (452/2019)”, si è occupata di regolare l’aspettativa degli investitori per quanto riguarda il controllo degli investimenti.

Più specificatamente, la Commissione si è soffermata sulla descrizione e sull’analisi dei meccanismi di controllo che devono essere predisposti dagli Stati membri, sulla base delle prescrizioni euro-unitarie promananti dal Regolamento UE in materia. La natura di detti meccanismi di controllo è indagata alla luce dell’attribuzione allo Stato di quegli speciali poteri (sopra ampiamente descritti, rispettivamente, nei termini di: “Golden Share” e “Golden Power”).

In particolare, la Commissione ha chiarito come: “I meccanismi nazionali di controllo sono già in vigore in 14 Stati membri. La Commissione invita tali Stati membri ad avvalersi pienamente dei rispettivi meccanismi di controllo esistenti conformemente al regolamento sul controllo degli IED e alle altre prescrizioni imposte dal diritto dell’UE.” La Commissione invita inoltre gli Stati membri che attualmente non dispongono di un meccanismo di controllo, o i cui meccanismi di controllo non riguardano tutte le operazioni pertinenti, a “istituire un meccanismo di controllo completo e a valutare nel contempo altre opzioni disponibili, nel pieno rispetto del diritto dell’Unione e degli obblighi internazionali, al fine di affrontare i casi in cui l’acquisizione o il controllo di una particolare impresa, infrastruttura o tecnologia possa porre un rischio per la sicurezza o l’ordine pubblico, compresa la sicurezza sanitaria, nell’UE”.

È importante tenere presente che, nel caso in cui un investimento estero non sia oggetto di un processo nazionale di controllo, il regolamento prevede che “gli Stati membri e la Commissione possano formulare osservazioni e pareri entro 15 mesi dalla realizzazione dell’investimento estero. Ciò può portare all’adozione di misure da parte dello Stato membro in cui ha avuto luogo l’investimento, comprese le necessarie misure di attenuazione dei rischi.

In pratica, un investimento estero realizzato ora (marzo 2020), potrebbe essere oggetto di osservazioni, ex post, da parte degli Stati membri, o di pareri della Commissione, a partire dall’11 ottobre 2020 (data di piena applicazione del regolamento), fino al giugno 2021 (15 mesi dalla realizzazione dell’investimento). Gli investimenti che non costituiscono IED, ad es. gli investimenti di portafoglio, possono essere controllati dagli Stati membri nel rispetto delle disposizioni del trattato in materia di libera circolazione dei capitali.[4]

 

3. La giurisprudenza della Corte di Giustizia sugli investimenti esteri diretti e le limitazioni derivanti dalle libertà fondamentali del mercato e dello spazio giuridico euro-unitario: tra la libera circolazione dei capitali e la libertà di stabilimento

Il descritto atteggiamento di apertura - non incondizionata - dell’economia europea al fenomeno degli investimenti diretti stranieri ha trovato espressione in una giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha fatto applicazione delle disposizioni del Trattato in tema di libera circolazione dei capitali e di libertà di stabilimento. Prima di riepilogare il trend ermeneutico dei Giudici di Lussemburgo in materia, è opportuno spendere, brevemente, qualche parola sull’analisi di queste due libertà in esame, alla luce delle fonti e dei principi euro-unitari attualmente vigenti. Per quanto concerne la libera circolazione dei capitali, si tratta di una delle quattro libertà fondamentali del mercato unico dell’UE e, in particolare, oltre ad essere quella di più recente introduzione, è anche la più ampia, tenuto conto della sua propensione ad assumere dimensioni extra-ue.

La base giuridica di detta libertà si rinviene negli articoli 63-66 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Quanto agli obiettivi perseguiti da dette disposizioni normative, occorre chiarire come lo scopo sia quello di eliminare tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra gli Stati membri‚ nonché tra gli Stati membri UE e i paesi terzi, ad eccezione di alcune circostanze.

La libera circolazione dei capitali sostiene il mercato unico e integra le altre tre libertà. Essa contribuisce, inoltre, alla crescita economica, grazie alla possibilità di investire i capitali in maniera efficiente, e promuove l’utilizzo dell’euro come valuta internazionale, sostenendo così il ruolo dell’UE sulla scena globale.

La liberalizzazione è stata altresì indispensabile per lo sviluppo dell’Unione economica e monetaria (UEM) e l’introduzione dell’euro. Quanto alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi, invece, si tratta di libertà che garantiscono la mobilità delle imprese e dei professionisti nell’UE. La base giuridica è rinvenibile negli Articoli 26 (mercato interno), e in quelli che vanno dal 49 al 55 (stabilimento) e dal 56 al 62 (servizi) del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

Quanto agli obiettivi, detti principi perseguono il seguente scopo: le persone che esercitano attività indipendenti e i professionisti o le persone giuridiche, ai sensi dell’articolo 54 TFUE, che operano legalmente in uno Stato membro possono: (i) esercitare un’attività economica in un altro Stato membro su base stabile e continuativa (libertà di stabilimento: articolo 49 TFUE); o (ii) offrire e fornire i loro servizi in altri Stati membri su base temporanea pur restando nel loro paese d’origine (libera prestazione dei servizi: articolo 56 TFUE). Ciò presuppone, non soltanto l’abolizione di ogni discriminazione basata sulla nazionalità, ma anche, al fine di poter veramente usufruire di tale libertà, l’adozione di misure volte a facilitarne l’esercizio, compresa l’armonizzazione delle norme nazionali di accesso o il loro riconoscimento reciproco.

Orbene, riepilogati in questi termini i lineamenti essenziali delle libertà euro-unitarie in questione, giova precisare alcune importanti considerazioni sulla portata applicativa delle stesse.

Con riguardo alla libertà di circolazione di capitali, occorre evidenziare che alla stessa è stata riconosciuta (da parte della giurisprudenza della CGUE) - a seguito della direttiva sui movimenti di capitale del 1988 - da un lato, efficacia diretta; dall’altro, occorre evidenziare altresì come la libertà di circolazione abbia assunto valore erga omnes, essendo considerata libertà fondamentale, come tale invocabile anche da investitori extra-ue. Tuttavia, ciò non implica che si tratti di una libertà assoluta, non assoggettata a limitazioni. Infatti, tale libertà, oltre ad andare incontro ai limiti previsti dall’articolo 65, comma 1, lett. b), TFUE, rappresentati dalle esigenze di sicurezza e di ordine pubblico, può soffrire eccezioni quando richiesto da motivi imperativi di interesse generale, con la precisazione che in tale nozione non rientrano motivi di “natura puramente economica”, diversamente da quelli “di ordine economico che perseguono un obiettivo di interesse generale”.

Diversa posizione, invece, è stata espressa dalla giurisprudenza europea[5] a proposito della libertà di stabilimento.

A tal riguardo, risulta altresì necessario chiarire i rapporti con la libertà di circolazione dei capitali.

Escluso che anche la libertà di stabilimento abbia valenza erga omnes, e che quindi, possa essere invocata da investitori extra-ue, la Corte di giustizia ha da tempo chiarito -quanto all’ambito applicativo di questa seconda libertà- che è questa medesima (e non, invece, quella di libera circolazione di capitali) a dover essere invocata da chi intenda effettuare un investimento diretto straniero che sia funzionale all’acquisizione del controllo o, comunque, di sicure prerogative di governo della società partecipata.

Conseguentemente, la coerenza con il diritto euro-unitario di misure nazionali che limitano l’operatività degli investimenti esteri (consacrato in quel trend di apertura non incondizionata dell’economia europea a detto fenomeno) va apprezzata avendo riguardo alla cogenza ed estensione non della libertà di circolazione di capitali (ad efficacia diretta ed erga omnes), ma della libertà di stabilimento, priva di valore erga omnes, e non invocabile dall’investitore del Paese terzo.

 

4. La crescita dei Fondi Sovrani e la Regolazione nei settori strategici

Tra il 2005 ed il 2007, si è registrata una forte crescita dei flussi di investimenti esteri diretti, con particolare riguardo a quelli effettuati dai Fondi Sovrani di potenze straniere.

Prima di analizzare il fenomeno della correlazione tra gli investimenti esteri diretti e i Fondi Sovrani e, soprattutto, prima di prendere in analisi il punto di vista della Commissione, occorre dare una breve definizione di Fondi Sovrani. Nello specifico, si tratta di fondi di investimento che risultano essere di titolarità degli Stati (da qui la locuzione “Fondi Sovrani”), giacché risultano essere posseduti direttamente dagli Ordinamenti Nazionali.

Detti Fondi operano su scala mondiale e, in particolare, risultano essere costituiti da strumenti finanziari e, segnatamente, da: (i) obbligazioni, (ii) azioni, (iii) e beni patrimoniali.

I Fondi Sovrani, da sempre, hanno avuto lo scopo di promuovere lo sviluppo sociale, economico e produttivo di un determinato paese, essendo, per lo più, detenuti da quegli Stati che hanno ottenuto un aumento delle loro riserve valutarie negli ultimi decenni.

Le principali preoccupazioni legate all’operatività di questi Fondi, in particolare, sono state rappresentate: (i) dalla scarsa trasparenza circa la dimensione dei capitali gestiti, (ii) dalla composizione dei portafogli, (iii) dagli obiettivi degli investimenti, (iv) dal rischio di comportamenti che potessero configurare abusi di mercato, nonché (v) dal pericolo di investimenti motivati da ragioni politiche o strategiche.

Per ciò che concerne il pericolo di investimenti motivati da ragioni “strategiche”, la principale fonte di timori che si è registrata, a livello internazionale, è stata rappresentata dalla possibilità che gli obiettivi perseguiti dai Fondi Sovrani non fossero di natura esclusivamente economica o di semplice massimizzazione del valore degli investimenti; il rischio, infatti, era rappresentato dalla presenza di finalità di acquisizione del possesso di tecnologie avanzate, volte a guadagnare l’accesso a risorse naturali o a migliorare la competitività delle imprese nazionali concorrenti di quelle partecipate.[6]

Il fatto che tali normative nazionali a difesa delle imprese strategiche fossero, in gran parte, motivate dal timore nutrito nei confronti dei Fondi Sovrani delle potenze estere si evince, chiaramente, dalla Comunicazione della Commissione europea del 27 febbraio 2008, intitolata “Un approccio comune ai Fondi Sovrani”.

Le preoccupazioni riguardanti il rischio che i Fondi Sovrani di egemonie straniere potessero effettuare investimenti in imprese strategiche nazionali diedero altresì il via, in tutto il mondo, a processi politico-legislativi finalizzati all’introduzione di nuove discipline nazionali (o alla revisione di quelle già esistenti) - in materia di investimenti esteri diretti - a tutela delle imprese nazionali ritenute strategiche.

Passando ora alla trattazione specifica del punto di vista della Commissione, occorre partire dall’esegesi della Comunicazione del 2008, dalla quale si evince che - accanto agli indubbi aspetti positivi legati agli investimenti compiuti da tali fondi - la Commissione ha, inoltre, evidenziato come “un motivo di preoccupazione (…) suscitato dagli investimenti azionari dei fondi sovrani è il modo opaco in cui alcuni di essi funzionano e il loro possibile uso come strumenti per acquisire un controllo strategico”.

La Commissione[7], inoltre, ha avvertito l’esigenza di intervenire per fornire criteri utilizzabili dagli Stati Membri per limitare gli investimenti dei Fondi Sovrani.

In tal senso, la Commissione, da un lato, ha richiamato gli Stati al rispetto dei principi di libertà di circolazione dei capitali (articolo 63, comma 1, TFUE) e di stabilimento (articolo 49 TFUE), contenuti nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e, dall’altro, ha chiarito come tali principi, nel quadro giuridico dell’Unione, non debbano comunque essere considerati alla stregua di libertà assolute, giacché l’articolo 65 TFUE (già articolo 58 TCE) afferma, tra l’altro, il diritto degli Stati di adottare misure in deroga a tale divieto se le restrizioni risultano giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.

 

5. Gli Investimenti Diretti in imprese strategiche europee

Il fatto che diversi Stati Membri europei abbiano introdotto normative a tutela degli interessi strategici nazionali, nel corso dei primi anni di questo secolo, non ha impedito all’Unione europea di confermarsi quale principale luogo di destinazione mondiale degli investimenti esteri diretti. Una delle principali ragioni di questo importante flusso di investimenti diretti, in Europa, è certamente da rintracciare proprio nel fatto che l’Unione europea ha da sempre accolto favorevolmente tali forme di investimento in ragione dei notevoli benefici che gli stessi apportano all’economia e, conseguentemente, all’occupazione.

Gli investimenti esteri diretti, inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, “collegano le imprese dell’UE alle catene mondiali del valore che trainano l’economia moderna. Incrementano la produttività e rendono più competitive le nostre imprese migliorando l’assegnazione delle risorse, apportando capitali, tecnologie e conoscenze, rafforzando la concorrenza, stimolando l’innovazione e aprendo nuovi mercati alle esportazioni dell’UE”.

Prova ne è che l’Unione europea risulta avere uno dei regimi di investimento più aperti al mondo e, in generale, gli Stati membri dell’UE risultano avere il minor numero di restrizioni al mondo rispetto agli investimenti esteri diretti.

Il Regolamento UE n. 452 del 2019[8], si inserisce, perfettamente, in questo descritto quadro, soprattutto se si pensa all’istituzionalizzazione di meccanismi di screening da parte degli Stati; esso, come noto, dispone che le regole e le procedure di controllo devono essere trasparenti e non discriminatorie; in tal senso, gli Stati Membri devono stabilire gli elementi in presenza dei quali possa scattare il controllo degli investimenti esteri stranieri e, dunque, stabilire in questi casi quali procedure e quali regole applicare. Attraverso queste istruzioni, l’ordinamento euro-unitario ha tentato di assicurare che i sistemi amministrativi di controllo esistenti, a livello nazionale, fossero retti da standard in grado di garantire la certezza del diritto ed il rispetto del principio di legalità. Recentissimamente, la Commissione[9] ha indagato il ruolo del controllo degli IED, con riferimento ai settori strategici, nel caso di un’emergenza sanitaria[10]. In particolare, la Commissione ha affermato come: “a norma del regolamento sul controllo degli IED, gli Stati membri possono adottare misure per impedire che un investitore estero acquisisca una società o ne assuma il controllo qualora tale acquisizione o controllo si traduca in una minaccia per la loro sicurezza o il loro ordine pubblico, anche nelle situazioni in cui tali minacce sono collegate a un’emergenza sanitaria. Nel determinare se un investimento estero diretto possa incidere sulla sicurezza o sull’ordine pubblico, gli Stati membri e la Commissione possono ‘tenere conto di tutti i fattori pertinenti, compresi gli effetti sulle infrastrutture critiche, sulle tecnologie, comprese le tecnologie abilitanti fondamentali, e sui fattori produttivi che sono essenziali per la sicurezza o il mantenimento dell’ordine pubblico la cui perturbazione, disfunzione, perdita o distruzione avrebbe un impatto significativo in uno Stato membro o nell’Unione’. Tra gli elementi di cui tenere conto in sede di controllo di un investimento estero, il regolamento sul controllo degli IED fa esplicito riferimento ai rischi per le infrastrutture sanitarie critiche e per la fornitura di fattori produttivi critici. Nel mercato interno europeo i rischi posti da un investimento non si fermano necessariamente alle frontiere dello Stato membro in cui tale investimento viene realizzato. Per questo motivo il regolamento sul controllo degli IED non prevede solo la possibilità che la Commissione emetta un parere in merito a un investimento specifico: anche gli Stati membri diversi da quello in cui ha luogo l’investimento possono richiedere informazioni e formulare osservazioni.”

 

6. Un possibile bilanciamento tra l’interesse alla tutela della sicurezza pubblica e le produzioni strategiche nazionali e l’interesse alla attrazione ed al compimento di investimenti transfrontalieri

Di fondamentale importanza risulta essere la risposta che viene data al seguente quesito: quale bilanciamento è possibile raggiungere fra l’interesse pubblico di tutelare la sicurezza nazionale e le produzioni strategiche nazionali e l’interesse pubblico-privato all’attrazione ed al compimento di investimenti transfrontalieri?

Di recente, molti ordinamenti, a partire dagli Stati Uniti, dalla Cina e dalla Francia, hanno rafforzato i loro tradizionali sistemi di controllo sugli investimenti esteri; oppure, come nel caso della Germania e dell’Italia, li hanno istituiti ex novo. Il Regolamento dell’Unione europea 2019/452, si inserisce in tale contesto proprio perché mira a favorire la convergenza ed il coordinamento tra i diversi meccanismi nazionali di controllo, anche mediante la consultazione tra Stati membri e Commissione, al fine di garantire un modello integrato ed armonizzato di controlli, a più livelli, dalla natura standardizzata ed uniforme, in grado di adattarsi alla pluralità degli ordinamenti giuridici.

Occorre analizzare, dunque, l’effettiva capacità che questa fonte euro-unitaria presenta avere sia nel raggiungere l’ambizioso obbiettivo dell’integrazione amministrativa europea in questa materia, sia nel garantire un efficace bilanciamento degli interessi menzionati.

Il primo obiettivo, vale a dire quello concernente l’integrazione amministrativa europea, è volto ad instaurare una cooperazione sovra-nazionale nell’ambito della definizione dei meccanismi e strumenti di controlli degli investimenti esteri diretti; diversamente, il bilanciamento tra i valori della salvaguardia delle imprese strategiche nazionali rispetto al valore dell’esaltazione degli investimenti esteri diretti costituisce uno di quei noti meccanismi di contemperamento di interessi tra esigenze opposte.

Nella primavera del 2017, i governi di Francia, Germania e Italia, sulla scia della generale tendenza internazionale al rafforzamento dei meccanismi di controllo e di veto agli investimenti stranieri, potenzialmente lesivi degli interessi nazionali (vale a dire del valore della sicurezza nazionale e delle imprese strategiche nazionali), proponevano l’introduzione di simili strumenti anche in Unione Europea.

L’Ordinamento giuridico euro-unitario, con la “Proposal for a regulation of the european parliament and of the Council establishing a framework for screening of foreign direct investments into the European Union” ha riconosciuto che le limitazioni agli investimenti transfrontalieri possono comportare dei rischi per le fondamentali libertà di circolazione previste nel diritto UE ed ha ribadito l’opportunità di ridurre tali vincoli, per garantire una maggior “compliance” dei meccanismi di screening degli investimenti esteri diretti rispetto alle libertà di circolazione del mercato comune.

Il nuovo regolamento[11], dunque, non sembra avere l’intento di introdurre barriere commerciali all’ingresso del mercato europeo, né suggerisce un’avocazione di competenze a livello comunitario tale da alterare il rapporto fra la Commissione europea e gli Stati membri. Il fine perseguito consiste, piuttosto, nella creazione di un sistema integrato di strumenti di screening, che limiti le acquisizioni predatorie da parte di investitori provenienti da Paesi extra-ue, nelle ipotesi, di cui all’articolo 207 TFUE, di protezione della politica commerciale comune affidate all’UE.

Come noto e, soprattutto, come testimoniato dai lavori preparatori per la Costituzione europea e da quelli, successivi, per il Trattato di Lisbona, il generale trend euro-unitario è rappresentato dalla volontà di trasferire, a livello europeo, le competenze in materia di controllo degli investimenti stranieri; detta tendenza, tuttavia, è stata inizialmente contrastata dagli Stati membri.

L’Unione Europea, infatti, dopo aver emanato per qualche anno provvedimenti in questa materia, grazie alla teoria dei poteri impliciti, e grazie al venire meno dei confini fra la materia trade (da sempre, inclusa fra le competenze dell’UE) e quella investment, ha acquisito la competenza esplicita, nel campo degli foreign direct investments (FDI), solamente ad esito della modifica dell’articolo 207 TFUE, promossa dalla stessa Commissione europea. L’espansione dell’influenza dell’Unione nel settore degli investimenti stranieri è da considerarsi come un fenomeno progressivo, non del tutto concluso, tenuto conto della sopravvivenza di ampie competenze in capo agli Stati nazionali e gli ancora esigui poteri delle istituzioni europee.

Lo stesso articolo 207 TFUE, infatti, al comma 6 afferma chiaramente che: “L’esercizio delle competenze attribuite dal presente articolo nel settore della politica commerciale comune non pregiudica la ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri e non comporta un’armonizzazione delle disposizioni legislative o regolamentari degli Stati membri, se i trattati escludono tale armonizzazione”.

In questo senso, il regolamento[12] segna un punto di passaggio e non di arrivo per quanto riguarda quel fenomeno di integrazione, a livello euro-unitario, delle politiche in materia di FDI, a cui il trattato di Lisbona ha dato inizio. Ciò è testimoniato dal fatto che la competenza per l’esercizio di misure di veto nei confronti degli investimenti stranieri sia rimasta saldamente nelle mani degli Stati.

La Commissione, come osservato, non esercita la funzione di controllo sugli investimenti, ma può solo offrire pareri non vincolanti in materia. La decisione finale in merito all’apposizione di un eventuale veto rimane, pertanto, in capo al solo Stato membro in cui l’investimento estero diretto è in programma o è stato realizzato.

D’altro canto, ai sensi degli artt. 6, comma 9, e 7, comma 7, del regolamento, il parere della Commissione (o di altro Stato membro) dovrà essere tenuto dallo Stato membro in debita considerazione. Il parere della Commissione dovrà essere tenuto addirittura “nella massima considerazione”; in particolare, ove l’investimento straniero possa incidere su progetti di interesse per l’UE, l’articolo 8, comma 2, lett. c, prevede che lo Stato, qualora non segua detto parere, dovrà fornire alla Commissione una motivazione specifica sul punto, in linea con l’obbligo di leale cooperazione di cui all’articolo 4, par. 3, T.U.E.

Da quest’ultima previsione, secondo parte della comunità degli interpreti, potrebbe derivare l’esercizio congiunto della funzione di controllo, almeno nel caso di investimenti di interesse per i programmi e i fini perseguiti dall’Ordinamento euro-unitario.

A ragion veduta, si ritiene, nello specifico, che i pareri non vincolanti - per quanto non siano espressione di un potere autoritativo, ma meri atti consultivi - conservino tuttavia un certo rilievo nei confronti dei soggetti cui sono indirizzati, giacché (pur in assenza di una forza giuridica vincolante degli stessi) si è in presenza di un meccanismo che richiede l’obbligatoria conformazione, in virtù della c.d. “moral suasion”, tipica degli atti di soft law.

Detti pareri non vincolanti, infatti, possono indirettamente avere un effetto conformativo sul provvedimento che gli Stati dovrebbero adottare, giacché laddove sia obbligatorio riceverli, ovvero vi sia una norma che impone all’amministrazione di dare adeguata spiegazione nel caso in cui intenda distaccarsene, se la motivazione non dovesse tenere conto di quanto in essi affermato, argomentandone in modo adeguato il mancato rispetto, per l’autorità giudiziaria sarebbe possibile rilevare ed eccepire l’illegittimità del provvedimento, per via del vizio di eccesso di potere sintomatico.

 

7. Uno sguardo al funzionamento del sistema di “screening” degli investimenti esteri diretti istituito dal Regolamento UE n. 452 del 2019

La nuova normativa, oltre ai doveri di comunicazione e all’obbligo di acquisizione dei pareri, prevede una serie di requisiti minimi, a cui tutti gli Stati, che possiedano o vorranno adottare un meccanismo di screening[13], dovranno adeguarsi al fine di garantire una minore lesività delle misure adottate.

Tra questi si rinvengono: (i) il rispetto del principio di non discriminazione in base allo Stato di provenienza, (ii) l’obbligo di prevedere strumenti di tutela giurisdizionale per gli investitori esteri che subiscano un’interdizione illegittima, (iii) il rispetto delle regole di trasparenza e della privacy dell’investitore straniero.

Inoltre, gli Stati membri sono obbligati a segnalare alla Commissione ogni proposta di riforma dei loro strumenti di scrutinio e, anche qualora non siano dotati di un meccanismo di controllo, devono sottoporre alla Commissione un report annuale in merito al flusso di investimenti nel Paese.

Queste previsioni[14] contribuiscono alla progressiva integrazione fra amministrazioni nazionali ed europee, nell’ottica di quel fenomeno di armonizzazione euro-unitaria dei meccanismi e sistemi di screening, sulla base della nota dottrina del diretto effetto, grazie alla quale le amministrazioni nazionali si troveranno a dover disapplicare immediatamente tutte le norme interne che possano confliggere con i principi euro-unitari e, pertanto, le stesse amministrazioni dovranno essere adeguate in modo da garantire la conformità a quest’ultimi: in altre parole, le amministrazioni nazionali dovranno essere “compliance” rispetto alle regole UE in materia di strumenti di controllo degli investimenti esteri diretti. Tra i requisiti che gli ordinamenti nazionali dovranno rispettare per mantenere un meccanismo di screening, appare interessante l’obbligo di garantire la tutela contro i veti illegittimi di cui all’articolo 3, comma 5, del regolamento.

Nell’analisi dei rimedi contro le decisioni amministrative che illegittimamente vietano un investimento straniero occorre tenere conto dei due insiemi di interessi da bilanciare. Da un lato, infatti, vi è l’interesse dell’investitore e dell’impresa nazionale, che riceve l’investimento, all’efficace conclusione dell’affare; dall’altro, vi sono gli interessi pubblici preminenti tutelati dallo Stato mediante il meccanismo di screening.

In Europa, d’altra parte, la natura di mera attività amministrativa delle misure di screening è accettata in modo piuttosto pacifico.

In Italia, infatti, è opinione condivisa della giurisprudenza e della dottrina, che questi poteri di veto possano essere pienamente controllati dal giudice amministrativo, essendo qualificati come misure di alta amministrazione e non, piuttosto, come questioni politiche.

Anche in Francia, l’esercizio di questi poteri è soggetto alla giurisdizione del giudice amministrativo, addirittura estesa al merito, quindi con la possibilità per il giudice di sostituirsi all’amministrazione.

In Germania, in ragione del principio generale contenuto nel paragrafo 40 del VwGO (il codice del processo amministrativo), il quale afferma che “recourse to the administrative courts shall be available in all public-law disputes of a non-constitutional nature insofar as the disputes are not explicitly allocated to another court by a federal statute”, le misure di veto (come qualsiasi altra decisione amministrativa) non possono essere considerate questioni politiche e saranno sempre sottoponibili a revisione. Il regolamento UE, pertanto, in parte riconosce - e in parte estende - questa tendenza alla tutela già presente in alcuni degli Stati membri che possiedono un meccanismo di screening.

 

[1] Per una compiuta disamina sul tema dei “Golden Power” e sul fenomeno economico degli “Investimenti Esteri Diretti”, si veda R. GAROFOLI, “Golden Power e controllo degli investimenti esteri: natura dei poteri e adeguatezza delle strutture amministrative”, in Federalismi.it, Rivista di Diritto Pubblico Italiano, Comparato e Europeo, 19 settembre 2019. Per quanto concerne l’ambito di applicazione del Regolamento sul controllo degli investimenti esteri diretti, la Commissione, con Comunicazione del 25.03.2020, in materia di “Orientamenti agli Stati membri per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti e la libera circolazione dei capitali provenienti dai paesi terzi, nonché la protezione delle attività strategiche europee, in vista dell’applicazione del regolamento UE (452/2019)”, ha affermato che: “il regolamento sul controllo degli IED riguarda gli investimenti esteri diretti provenienti da paesi terzi, ossia quegli investimenti che stabiliscono o mantengono legami durevoli e diretti tra investitori di paesi terzi, compresi le entità statali, e le imprese che esercitano un'attività economica in uno Stato membro. Il regolamento si applica a tutti i settori dell'economia e non è soggetto ad alcuna soglia. La necessità di controllare un'operazione può infatti essere indipendente dal valore dell'operazione stessa. Ad esempio, le piccole start-up possono avere un valore relativamente limitato ma essere di importanza strategica in questioni quali la ricerca o la tecnologia. Il regolamento conferisce agli Stati membri il potere di riesaminare gli investimenti rientranti nell'ambito di applicazione del regolamento stesso per motivi di sicurezza o di ordine pubblico e di adottare misure per far fronte a rischi specifici. Ricade sugli Stati membri la responsabilità ultima di tale riesame e, ove necessario, dell'adozione di misure volte a prevenire o sottoporre a condizioni gli investimenti rientranti nell'ambito di applicazione del regolamento per motivi di sicurezza o di ordine pubblico. La Commissione può rivolgere allo Stato membro in cui ha luogo l'investimento pareri tramite i quali vengono raccomandate azioni specifiche, in particolare quando esiste il rischio che detto investimento incida su progetti e programmi di interesse per l'Unione. La Commissione esorta gli Stati membri a essere particolarmente vigili per evitare che l'attuale crisi sanitaria abbia per effetto una svendita da parte degli operatori industriali e commerciali europei, comprese le PMI. La Commissione seguirà da vicino gli sviluppi sul campo, ove opportuno anche nei contatti con gli Stati membri. La Commissione ricorda inoltre agli Stati membri le interdipendenze esistenti in un mercato integrato come quello europeo e invita tutti gli Stati membri a chiedere consulenza e a coordinarsi nei casi in cui gli investimenti esteri possano avere, adesso o in futuro, effetti reali o potenziali sul mercato unico.”

[2] Preoccupazioni per vero già manifestate nove anni prima dalla stessa Commissione nella Comunicazione del 27 febbraio 2008, intitolata “Un approccio comune ai Fondi Sovrani”, nella quale si indicò espressamente come motivo di preoccupazione suscitato dagli investimenti azionari dei fondi sovrani “è il modo opaco in cui alcuni di essi funzionano e il loro possibile uso come strumenti per acquisire un controllo strategico. Questi aspetti marcano la differenza tra i fondi sovrani e altri tipi di fondi di investimento. Più specificamente suscita apprensione il fatto che – quali che fossero le motivazioni originarie – gli investimenti dei fondi sovrani in determinati settori possano essere utilizzati per fini diversi da quelli di massimizzare il rendimento economico. Ad esempio, le scelte di investimento possono riflettere l'obiettivo di ottenere tecnologia e competenze a beneficio degli interessi strategici nazionali, anziché essere motivati da normali interessi di natura commerciale verso nuovi prodotti e mercati. Analogamente i fondi sovrani potrebbero influenzare le decisioni di società che operano in settori di interesse strategico o gestiscono canali di distribuzione.

[3] L’assoggettamento a Golden Powers di banche, imprese di assicurazione e altri intermediari finanziari è una peculiarità dell’ordinamento italiano, introdotta con il “decreto liquidità”, a protezione dell’economia nazionale da potenziali acquisizioni “ostili”, considerate particolarmente pericolose per l’Italia in ragione della parcellizzazione del tessuto produttivo, che accentua la dipendenza delle imprese dal settore bancario, e dell’alta specializzazione industriale, che rende molto “appetibili” le nostre imprese, esponendole all’ingresso nel proprio capitale di fondi stranieri, favorito, ultimamente, dalla ricerca di forme alternativa di liquidità e da una struttura proprietaria spesso diffusa. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) è intervenuto nel dibattito sull’utilizzo dei golden powers in ambito finanziario, auspicando un “ruolo più incisivo” dei pubblici poteri nel “monitoraggio delle operazioni di acquisizione e accorpamento che coinvolgano i principali istituti bancari e assicurativi” italiani. E ciò nella dichiarata convinzione che la tutela della sicurezza e degli interessi nazionali, nell’attuale contesto globale, si debba perseguire anche sul terreno delle strategie economiche e finanziarie, a fronte di “ingerenze di soggetti esteri …dettate non da motivazioni strettamente economiche ma anche (o solo) da strategie di politica industriale, in molti casi riconducibili, più o meno indirettamente, a Stati sovrani”. Parole, queste, pronunciate dal COPASIR, il 5 novembre scorso, nella relazione dedicata alla “tutela degli asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurativo”. La posizione del COPASIR rivela un approccio propulsivo della politica in ambito finanziario, volto a irrobustire la regia pubblica anche in settori – quali quelli del credito e delle assicurazioni – la cui vigilanza esterna era da tempo rimessa all’operato esclusivo di autorità tecniche e indipendenti.

[4] Prosegue la Commissione, affermando come: “È generalmente meno probabile che gli investimenti di portafoglio che non conferiscono all'investitore un'influenza effettiva sulla gestione e sul controllo di una società comportino problematiche in termini di sicurezza o di ordine pubblico rispetto agli IED. Tuttavia, nel caso in cui rappresentino l'acquisizione di una partecipazione almeno qualificata che conferisca determinati diritti all'azionista o agli azionisti collegati a norma del diritto societario nazionale (ad es. il 5 %), possono essere pertinenti in termini di sicurezza o di ordine pubblico. Oltre al controllo degli investimenti, gli Stati membri possono detenere diritti speciali in talune imprese (“golden share”). In alcuni casi tali diritti possono consentire allo Stato di fissare limiti a determinati tipi di investimenti nelle società interessate o di bloccarli. Tali misure sono specifiche per società e il loro ambito di applicazione dipende dai poteri conferiti allo Stato in virtù della “golden share”. Analogamente ad altre restrizioni alla circolazione dei capitali, devono essere necessarie e proporzionate al conseguimento di un legittimo obiettivo di ordine pubblico.”

[5] Sulla base di tali coordinate, la Corte di Giustizia ha vagliato la coerenza europea delle legislazioni nazionali in tema di Golden Share, concludendo di frequente per l’incompatibilità, per via della constatata eccessiva indeterminatezza dei presupposti e dei criteri previsti dalle discipline dei singoli Paesi europei per l'esercizio dei poteri speciali. La Corte, infatti, non ha mai condannato in radice la Golden Share, rimarcando piuttosto che l'esercizio dei connessi poteri è compatibile con la disciplina dell’Unione a condizione che i conseguenti limiti alla libertà di circolazione dei capitali rispondano ad autentiche esigenze di sicurezza e di ordine pubblico o reali motivi imperativi di interesse generale. Intervenendo sulle discipline nazionali in tema di Golden Share o Action Specifique, la Corte di giustizia ha iniziato a definire i confini per l'esercizio legittimo - da un punto di vista euro-unitario - dei poteri nazionali di intervento a protezione degli interessi nazionali e, in particolare, le condizioni di compatibilità con le disposizioni del Trattato in tema di libertà di circolazione dei capitali e di stabilimento, incluse quelle di oggettività, proporzionalità e non discriminazione. Pertanto, emerge un’impronta giurisdizionale al sistema di controllo sugli investimenti esteri diretti che non trova conferma nel modello statunitense: è quanto, per l’appunto, dovuto al fatto che, in Europa, agli Stati è sì riconosciuta sovranità nell'adozione di normative in materia di investimenti stranieri, ma è al contempo imposto il rispetto delle libertà fondamentali nel mercato unico europeo, destinate ad atteggiarsi a veri e propri limiti.

[6] Di una più ampia riflessione su tali aspetti (sia positivi che negativi) legati al maggior peso acquisito dai Fondi Sovrani nei mercati internazionali se ne sono occupati i Ministri delle finanze e i Governatori delle Banche Centrali riuniti a Washington, in occasione del G7, del 19 ottobre del 2007. In tale sede, le principali organizzazioni multilaterali internazionali, tra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), furono invitate ad avviare “una riflessione sul ruolo dei Fondi Sovrani e sui meccanismi per affrontare le sfide che essi pongono”.

[7] A sua volta, come noto, l’articolo 21(4) del regolamento n. 139/2004 sulle concentrazioni conserva prerogative di controllo all’accesso delle economie degli Stati membri, là dove prevede che, nel valutare le acquisizioni di imprese, gli “Stati membri possono adottare opportuni provvedimenti per tutelare interessi legittimi diversi da quelli [antitrust] e compatibili con i principi generali e le altre disposizioni del diritto comunitario. Sono considerati interessi legittimi la sicurezza pubblica, la pluralità dei mezzi di informazione, le norme prudenziali. Qualsiasi altro interesse pubblico è comunicato dallo Stato membro interessato alla Commissione ed accettato dalla stessa, previo esame della sua compatibilità con i principi generali e le altre disposizioni del diritto comunitario, prima che i provvedimenti di cui sopra possano essere presi”. In tal caso, tuttavia, il diritto secondario europeo ha attribuito la facoltà di controllo alle autorità competenti nazionali e non ad istituzioni o agenzie europee. Proprio per supportare gli Stati in un lavoro di scrittura (o riscrittura) delle discipline nazionali volte a tutelare le imprese strategiche nazionali rispetto agli investimenti diretti stranieri che fosse coerente con i principi e i limiti fissati dai Trattati, la Commissione richiamò gli orientamenti già espressi dalla Corte di Giustizia nella propria giurisprudenza consolidata in materia di golden shares, action specifique, o, secondo l’ordinamento italiano, di poteri speciali dello Stato nelle società privatizzate . In tale contesto, la Commissione ricordò come la Corte di Giustizia avesse in particolare enucleato il principio secondo cui gli interventi che l’Unione europea e i singoli Stati Membri decidono di effettuare per limitare gli investimenti stranieri devono necessariamente perseguire la finalità di tutela dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in senso stretto, nel senso cioè che “motivazioni di natura puramente economica” non possono mai giustificare una deroga alle libertà previste dai Trattati. Nel caso specifico degli acquisti di partecipazioni di controllo nel capitale sociale di imprese strategiche nazionali effettuate dai Fondi Sovrani, la minaccia all’ordine pubblico potrebbe consistere nella carenza di approvvigionamento di prodotti petroliferi ed energetici o nella discontinuità nell’erogazione di servizi pubblici, o nel venir meno della sicurezza degli impianti e delle reti essenziali alla difesa nazionale, alla sicurezza militare e alle emergenze sanitarie.

[8] In particolare, nel determinare se un investimento estero diretto possa incidere sulla sicurezza o sull’ordine pubblico, possono essere presi in considerazione i suoi effetti potenziali a livello di: (i) infrastrutture critiche (tra cui l’energia, i trasporti, l’acqua, la salute, le comunicazioni, i media, il trattamento o l’archiviazione dei dati, le infrastrutture aerospaziali e di difesa); (ii) tecnologie critiche e prodotti a duplice uso  quali l’intelligenza artificiale, la robotica, la Cyber-security;(iii) la sicurezza dell’approvvigionamento di fattori produttivi critici, tra cui l’energia e le materie prime, nonché la sicurezza alimentare ;(iv)l’accesso a informazioni sensibili, compresi i dati personali e la capacità di controllare informazioni; (v) libertà e pluralismo dei media. L’ordinamento europeo rimane estraneo rispetto agli assetti organizzativi ai quali gli Stati Membri affidano i loro meccanismi di controllo; infatti, il Regolamento non impone né la dotazione di adeguate risorse finanziarie e personali, né forme di separazione tra politica e amministrazione. La codificazione europea dei settori in cui gli investimenti esteri dovrebbero essere sottoposti a controllo serve soprattutto a orientare la discrezionalità dei legislatori e dei governi nazionali al fine di armonizzare il più possibile l’ambito oggettivo di applicazione dei meccanismi di controllo, sia nel loro disegno normativo sia nella prassi attuativa.

[9] La Commissione si è espressa con la Comunicazione del 25.03.2020, in materia di “Orientamenti agli Stati membri per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti e la libera circolazione dei capitali provenienti dai paesi terzi, nonché la protezione delle attività strategiche europee, in vista dell’applicazione del regolamento UE (452/2019)”. In particolare, la Commissione ha avuto modo di chiarire come: “Il controllo degli investimenti esteri diretti non si traduce necessariamente in un divieto di portare avanti l'investimento. In alcuni casi possono essere sufficienti misure di attenuazione dei rischi (ad es. condizioni che garantiscano la fornitura di medicinali e di dispositivi medici). L'interesse dell'Unione può imporre che tali impegni di fornitura vadano oltre le esigenze previste dello Stato membro ospite. È inoltre importante tenere presente che, in determinati casi, gli Stati membri possono intervenire al di là dei meccanismi di controllo, ad esempio imponendo licenze obbligatorie sui medicinali brevettati nel caso di un'emergenza nazionale, quale una pandemia. Infine, un'acquisizione estera che possa incidere su progetti o programmi di interesse per l'Unione è soggetta a un esame più approfondito da parte della Commissione, i cui pareri devono essere presi nella massima considerazione dagli Stati membri. È quanto avverrebbe nel caso, ad esempio, degli investimenti esteri nelle imprese dell'UE beneficiarie di finanziamenti a titolo di Orizzonte 2020, il programma di ricerca e innovazione dell'UE”.

[10] Quando si parla dei c.d. “nuovissimi” Golden Powers di matrice emergenziale, occorre fare riferimento al recente intervento da parte del Decreto Liquidità (d.l. n. 23/20, convertito con modificazioni dalla l. n. 40/20), il cui Capo III reca infatti disposizioni urgenti in materia di esercizio di poteri speciali in settori di rilevanza strategica. Il tema dei poteri di intervento dello Stato ha assunto negli ultimi mesi particolare centralità e deve essere analizzato alla luce delle previsioni emergenziali formulate in risposta alla crisi pandemica Covid-19. Il motivo di detta importanza può essere ricondotto ad un duplice ordine di ragioni: il primo, di natura economica, dato dalla necessità di assicurare che determinati assets nazionali cadessero in mani «straniere» e «ostili». Il secondo, di taglio più politico, inteso a riaffermare un ritorno dello Stato in dinamiche e settori a questo estranei fino alla primavera 2020. Ad oggi, la normativa in tema di poteri speciali è stata oggetto di una profonda rivisitazione quanti-qualitativa, capace di superare le disposizioni sul punto in vigore e in ultimo rivisitate nell'autunno 2019. In particolare, a risultare particolarmente interessante nel rinnovamento della materia è la natura tutto sommato ambivalente di un provvedimento che fa ampio richiamo alle più recenti previsioni europee in tema (in primis al Regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell'Unione). Ma che, per l'altro verso, innalza difese anche nei confronti di altri Stati membri, (sia economica, sia nell'accezione di «concorrenza tra ordinamenti»). Il tema, pur se recente, è già stato oggetto di alcuni commenti da parte della dottrina e degli operatori più attenti, questi ultimi in sostanza preoccupati innanzi quella che parrebbe essere una rinnovata forma di «interventismo».

[11] Invero, il considerando n. 1 del nuovo regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 marzo 2019, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell'Unione, afferma il principio secondo cui “Gli investimenti esteri diretti contribuiscono alla crescita dell'Unione rafforzandone la competitività, creando posti di lavoro ed economie di scala, apportando capitali, tecnologie, innovazione e competenze e aprendo nuovi mercati per le esportazioni dell'Unione. Essi sostengono gli obiettivi del piano di investimenti per l'Europa e contribuiscono ad altri progetti e programmi dell'Unione”. Per quanto concerne le “giustificazioni” delle restrizioni ai movimenti di capitali, occorre in primo luogo rilevare come, la Commissione Europea, con Comunicazione del 25.03.2020, in materia di “Orientamenti agli Stati membri per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti e la libera circolazione dei capitali provenienti dai paesi terzi, nonché la protezione delle attività strategiche europee, in vista dell’applicazione del regolamento UE (452/2019)”, ha affermato come “l'articolo 63 TFUE dispone la libera circolazione dei capitali non solo all'interno dell'UE, ma anche con i paesi terzi; le eventuali restrizioni, devono essere adeguate, necessarie e proporzionate al conseguimento dei legittimi obiettivi di ordine pubblico. Tali obiettivi sono definiti, nel trattato o nella giurisprudenza della Corte di giustizia, come motivi imperativi di interesse generale. Non dovrebbero essere di natura puramente economica. Motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica possono essere invocati solamente in caso di minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività. Nel caso di “acquisti predatori” di attività strategiche da parte di investitori esteri (ad es. per limitare l'approvvigionamento del mercato dell'UE di un determinato bene/servizio), l'eccezione più rilevante è quella “di ordine pubblico o di pubblica sicurezza” di cui all'articolo 65 TFUE. Ciò potrebbe giustificare, ad esempio, l'adozione di misure restrittive necessarie per garantire la sicurezza dell'approvvigionamento (ad es. nel settore dell'energia) o la fornitura di servizi pubblici essenziali qualora misure meno restrittive (come le misure di regolamentazione che impongono obblighi di servizio pubblico a tutte le società che operano in determinati settori) siano insufficienti ad affrontare una minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività. È altresì possibile adottare misure restrittive per affrontare minacce alla stabilità finanziaria. La sanità pubblica è stata inoltre riconosciuta dalla Corte di giustizia dell'Unione europea come un motivo imperativo di interesse generale. I motivi imperativi di interesse generale riconosciuti dalla Corte di giustizia in relazione ad altre libertà sancite dal trattato includono anche la protezione dei consumatori, la salvaguardia dell'equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale e il conseguimento degli obiettivi di politica sociale, che potrebbero risultare pertinenti in situazioni di emergenza. Il trattato prevede inoltre garanzie in caso di difficoltà o di grave minaccia di difficoltà per il funzionamento dell'Unione economica e monetaria (articolo 66 TFUE) e per la bilancia dei pagamenti degli Stati membri non appartenenti alla zona euro (articoli 143 e 144 TFUE). Nel caso di investimenti esteri provenienti da paesi terzi in società aventi valutazioni sui mercati di capitali considerate ben al di sotto del loro valore reale o intrinseco, è possibile prendere in esame l'eventuale introduzione di restrizioni, tenendo conto dell'impatto effettivo o potenziale di tali investimenti sulla salvaguardia dei suddetti interessi pubblici (ad esempio, occorre valutare se essi possano comportare un ricorso eccessivo agli investitori esteri di paesi terzi per ottenerne forniture o servizi essenziali). In termini di adeguatezza di tali misure, è auspicabile prendere in considerazione, ed eventualmente attenuare, anche il loro impatto potenzialmente negativo sulle società e sull'economia in senso lato. Occorre infine rilevare che, nell'analisi della giustificazione e della proporzionalità, le restrizioni ai movimenti di capitali a destinazione di paesi terzi o in provenienza da essi si collocano in un contesto giuridico differente rispetto alle restrizioni che riguardano i movimenti di capitali all'interno dell'UE. Di conseguenza, nel caso delle restrizioni applicate a operazioni che coinvolgono paesi terzi, a norma del trattato possono essere ammessi ulteriori motivi di giustificazione. I motivi di giustificazione ammissibili possono anche essere intesi in un senso più ampio.”

[12] Il regolamento, in altri termini, si fonda su un meccanismo di cooperazione fra Stati membri e Commissione, che impone allo Stato di comunicare alla Commissione europea ogni investimento straniero nel proprio territorio. Inoltre, attribuisce alla Commissione il potere di emanare un parere non vincolante in merito all'FDI in tre casi: laddove questo possa incidere negativamente in settori rilevanti per la sicurezza interna (come le infrastrutture, l'energia, i brevetti, il pluralismo dell'informazione, la protezione dei dati personali); nel caso in cui l'investimento incida su un progetto di interesse euro-unitario che preveda anche l'impiego di finanziamenti europei (ad esempio Horizon 2020, Galileo, o il programma europeo di sviluppo industriale per la difesa); infine, quando l'FDI in uno Stato membro possa influire sulla sicurezza o sull'ordine pubblico di un altro Stato membro. In quest'ultima ipotesi, peraltro, lo Stato membro che riceve gli investimenti esteri dovrà non solo richiedere il parere consultivo della Commissione, ma dovrà anche darne comunicazione agli altri Stati membri che potrebbero essere interessati, al fine di raccogliere il parere di questi ultimi. Qualora lo Stato membro che riceve l'FDI non dovesse adempiere ai propri obblighi di comunicazione, gli altri Paesi dell'Unione, che ritengono di subire lesioni, hanno la facoltà di richiedere autonomamente un parere della Commissione. Appare chiara, quindi, la definizione di un procedimento composito che include, mediante lo scambio di informazioni, il punto di vista distinto e potenzialmente confliggente di organi nazionali ed organi europei. Tuttavia, risulta comunque difficile ravvisare una forma di integrazione in senso stretto delle funzioni amministrative, mediante la quale gli Stati membri agiscano come apparati dell'Unione Europea. È piuttosto ravvisabile una mera cooperazione fra amministrazioni nazionali ed europee, ciò per due ordini di ragioni. Un'integrazione amministrativa in senso stretto non potrebbe essere rilevata, giacché manca quasi del tutto un esercizio condiviso della funzione amministrativa, che è sempre presente nelle varie forme di integrazione amministrativa europea, almeno per aspetti secondari, anche in quelle più blande (come per esempio l'Europol).

[13] La protezione del primo insieme di interessi, peraltro, può essere assicurata in due momenti molto diversi: quello antecedente l'entrata nel mercato, in cui lo Stato destinatario potrebbe disporre una misura di veto, e quello successivo in cui l'investimento è ormai concluso e si pone il problema, assai diverso, del trattamento dell'investitore. Questi due momenti, oggi, sono disciplinati in modo differente a livello internazionale: mentre il trattamento di un investimento concluso è sottoposto ad un insieme di regole sovranazionali create dopo un lungo periodo di dibattito, all'opposto, la fase dell'entrata nel mercato e del suo controllo è ancora sottoposta alla sovranità degli Stati.

[14] La principale ragione, che ha portato a creare una cornice sovranazionale di regole per il trattamento degli investitori stranieri dopo l'entrata nel mercato, è di tipo storico. Negli anni 30 le società del petrolio (le c.d. sette sorelle) iniziarono a stipulare gli state contracts, ossia degli accordi che contenevano i primi esempi di clausole di arbitrato fra Stati e investitori. Lo scopo di questa clausola era, ovviamente, evitare che, in caso di pregiudizi, per l'imprenditore straniero l'unico modo per ottenere tutela sarebbe stato chiedere ai tribunali locali di applicare leggi interne che in alcune nazioni, come quelle del Medio Oriente, potevano essere rudimentali o, comunque, troppo difficili per essere conosciute e studiate. Gli state contracts, successivamente, si sono evoluti nei primi trattati bilaterali di investimento, come quello stipulato tra la Germania e il Pakistan nel 1959. Oggi contiamo quasi 3600 BIT. La differenza principale di questi trattati rispetto agli state contracts consiste nelle parti contraenti: non si tratta più di accordi tra un soggetto privato ed uno Stato, ma tra due Stati diversi. Tuttavia, questi trattati possono contenere una clausola arbitrale anomala, che crea la possibilità per gli investitori privati (e non per lo Stato di loro provenienza) di ottenere tutela di fronte ad un arbitro contro il trattamento lesivo posto in essere dallo Stato destinatario dell'investimento. Ciò significa che mentre lo Stato accetta la clausola al momento della stipulazione del trattato, l'investitore accetta di farlo quando avvia la procedura di arbitrato. In questo contesto, la convenzione di Washington del 1965 ha creato il Centro internazionale per la risoluzione delle controversie in materia di investimenti - ICSID, che opera sotto la Banca mondiale e cerca di centralizzare tutte le procedure di arbitrato in questa materia. Questi sforzi, quindi, sono stati messi in atto allo scopo di ridurre l'influenza degli interessi nazionali nella risoluzione delle molte controversie degli investitori statali. Un panorama molto diverso si presenta quando si analizza la relazione tra l'arbitrato e il momento in cui l'investitore straniero entra nel mercato. Apparentemente, non c'è spazio per l'uso di procedure arbitrali per garantire la protezione da una misura di screening che crea pregiudizi illegittimi per le società straniere. La maggior parte dei trattati bilaterali di investimento non consente alcun tipo di protezione nel momento in cui viene compiuto l'investimento, fornendo solo garanzie successive all'entrata nel mercato. Ad ogni modo, una piccola minoranza di BITs e FTAs contiene una clausola che riconosce la possibilità di discutere la controversia di fronte ad un arbitro.