Bruno Leoni (1913-1967) LA FABBRICA DEL DIRITTO
Il declino dell’idea che il diritto sia nel suo complesso indipendente dalla volontà dei governanti, e che non possa identificarsi senz’altro, e senza residui, nelle leggi o nei decreti emanati a volta a volta dai detentori del potere politico, è uno dei fenomeni più impressionanti, per la loro portata, non meno che per la loro diffusione, in quasi tutte le società civili nell’epoca contemporanea. Stranamente, il fenomeno stesso, forse per la continuità e per la gradualità con cui si è manifestato, fin dall’inizio del secolo scorso, è apparso ai più talmente naturale, specie nel nostro continente, che assai pochi studiosi si sono proposti finora il compito di considerarlo in tutta la sua portata e di dedicarvi tutta l’attenzione e, vorrei aggiungere, l’apprensione, che esso merita.
Se dovessi usare un solo termine per definire questo mutamento nell’idea diffusa del diritto, direi che, secondo l’uomo della strada, oggi il diritto è un qualcosa che viene fabbricato, anzi prefabbricato, ossia, prodotto col minimo di tempo e di lavoro giudicato necessario, secondo progetti preparati in anticipo, da personale apposito, in appositi luoghi di produzione (le Camere), e presentato ai destinatari (potremmo dire ai "consumatori", se la parola non fosse alquanto fuorviante per le ragioni che vedremo fra poco) i quali non hanno - o si pensa non abbiano - altro compito che quello di usare il prodotto già pronto per loro, come si fa per l’automobile, o per la lavatrice, o per la casetta da "montare" sulla spiaggia o in montagna.
La produzione del diritto in altri modi sembrerebbe oggi a molti lenta, insicura, inadeguata e imprecisa: le consuetudini, gli usi, i precedenti giudiziari, le opinioni degli esperti in materia, questi classici strumenti di produzione del diritto nella Roma classica, nell’Inghilterra medievale e moderna, negli Stati Uniti d’America e, nonostante talune contrarie apparenze, nella maggior parte dei paesi d’Europa fino alla compilazione dei Codici contemporanei, ossia, grosso modo, fino all’inizio del secolo scorso, appaiono, oggi, almeno allo sguardo superficiale di molti, come arnesi invecchiati di un’attività "artigianale", inadeguata alle esigenze di una civiltà "rapida" e di "vasta scala" come la nostra contemporanea.
L’analogia tra i "prodotti" giuridici e gli altri della nostra civiltà tecnica e industriale non è tuttavia così calzante come appare a prima vista; anzi, se la si considera con più attenzione, essa appare del tutto ingannevole e falsa. Una differenza fondamentale si rivela infatti nel rapporto in cui si trovano rispettivamente, da un lato, i produttori e i consumatori di beni fabbricati con le risorse della tecnica industriale e, d’altro lato, i "produttori" e i "consumatori" di regole giuridiche fabbricate, anzi prefabbricate, dai detentori del potere politico con le risorse della tecnica legislativa.
Nonostante ogni contraria apparenza, nei nostri paesi dell’Occidente, il processo produttivo si svolge tuttora, nel suo complesso, ad iniziativa dei privati (ossia - in altri termini - di individui che non hanno a disposizione la polizia o l’esercito per costringere i "consumatori" a comprare i prodotti che essi privati immettono sul mercato, e a fare inoltre a meno di quelli che non vi immettono). Il detto popolare americano "ogni dollaro è un voto" rende assai efficacemente la natura di quel continuo processo con cui il consumatore indirizza, regola e domina la condotta dei produttori, i quali si studiano bensì di allettarlo (e talvolta anche di ingannarlo), ma sanno di doverlo sempre in definitiva servire, ossia di doverne soddisfare la volontà, e persino il capriccio, sotto pena di vedersi condannati in ultima istanza alle cifre rosse nei bilanci ed alla cessazione dell’attività produttiva.
In un rapporto radicalmente diverso si trovano invece i "produttori", e rispettivamente i "consumatori", delle regole giuridiche fabbricate mediante l’impiego della tecnica legislativa. Il voto dei "consumatori" è in questo caso discontinuo (potendo essi darlo solo in certi tempi, a certe condizioni, con significato quasi sempre lacunoso ed equivoco, con effetti non sempre previsti, spesso non prevedibili, e non di rado non voluti): si aggiunga che non tutti i "consumatori" possono votare (laddove sul mercato vota anche il ragazzino di cinque anni che abbia in mano un pezzo da cinquanta lire per comprarsi il gelato) e che inoltre una parte di essi, quella che si troverà in minoranza nella votazione, e a malgrado di ogni contraria invenzione od escogitazione elettorale, è destinata puramente e semplicemente a sprecare il proprio voto. Dominare la produzione delle regole giuridiche in questo caso è, per i "consumatori", ossia per i destinatari delle stesse regole, impresa evidentemente disperata.
[in Il diritto come pretesa, Liberilibri, Macerata, 2004, pp. 62-64]
Il declino dell’idea che il diritto sia nel suo complesso indipendente dalla volontà dei governanti, e che non possa identificarsi senz’altro, e senza residui, nelle leggi o nei decreti emanati a volta a volta dai detentori del potere politico, è uno dei fenomeni più impressionanti, per la loro portata, non meno che per la loro diffusione, in quasi tutte le società civili nell’epoca contemporanea. Stranamente, il fenomeno stesso, forse per la continuità e per la gradualità con cui si è manifestato, fin dall’inizio del secolo scorso, è apparso ai più talmente naturale, specie nel nostro continente, che assai pochi studiosi si sono proposti finora il compito di considerarlo in tutta la sua portata e di dedicarvi tutta l’attenzione e, vorrei aggiungere, l’apprensione, che esso merita.
Se dovessi usare un solo termine per definire questo mutamento nell’idea diffusa del diritto, direi che, secondo l’uomo della strada, oggi il diritto è un qualcosa che viene fabbricato, anzi prefabbricato, ossia, prodotto col minimo di tempo e di lavoro giudicato necessario, secondo progetti preparati in anticipo, da personale apposito, in appositi luoghi di produzione (le Camere), e presentato ai destinatari (potremmo dire ai "consumatori", se la parola non fosse alquanto fuorviante per le ragioni che vedremo fra poco) i quali non hanno - o si pensa non abbiano - altro compito che quello di usare il prodotto già pronto per loro, come si fa per l’automobile, o per la lavatrice, o per la casetta da "montare" sulla spiaggia o in montagna.
La produzione del diritto in altri modi sembrerebbe oggi a molti lenta, insicura, inadeguata e imprecisa: le consuetudini, gli usi, i precedenti giudiziari, le opinioni degli esperti in materia, questi classici strumenti di produzione del diritto nella Roma classica, nell’Inghilterra medievale e moderna, negli Stati Uniti d’America e, nonostante talune contrarie apparenze, nella maggior parte dei paesi d’Europa fino alla compilazione dei Codici contemporanei, ossia, grosso modo, fino all’inizio del secolo scorso, appaiono, oggi, almeno allo sguardo superficiale di molti, come arnesi invecchiati di un’attività "artigianale", inadeguata alle esigenze di una civiltà "rapida" e di "vasta scala" come la nostra contemporanea.
L’analogia tra i "prodotti" giuridici e gli altri della nostra civiltà tecnica e industriale non è tuttavia così calzante come appare a prima vista; anzi, se la si considera con più attenzione, essa appare del tutto ingannevole e falsa. Una differenza fondamentale si rivela infatti nel rapporto in cui si trovano rispettivamente, da un lato, i produttori e i consumatori di beni fabbricati con le risorse della tecnica industriale e, d’altro lato, i "produttori" e i "consumatori" di regole giuridiche fabbricate, anzi prefabbricate, dai detentori del potere politico con le risorse della tecnica legislativa.
Nonostante ogni contraria apparenza, nei nostri paesi dell’Occidente, il processo produttivo si svolge tuttora, nel suo complesso, ad iniziativa dei privati (ossia - in altri termini - di individui che non hanno a disposizione la polizia o l’esercito per costringere i "consumatori" a comprare i prodotti che essi privati immettono sul mercato, e a fare inoltre a meno di quelli che non vi immettono). Il detto popolare americano "ogni dollaro è un voto" rende assai efficacemente la natura di quel continuo processo con cui il consumatore indirizza, regola e domina la condotta dei produttori, i quali si studiano bensì di allettarlo (e talvolta anche di ingannarlo), ma sanno di doverlo sempre in definitiva servire, ossia di doverne soddisfare la volontà, e persino il capriccio, sotto pena di vedersi condannati in ultima istanza alle cifre rosse nei bilanci ed alla cessazione dell’attività produttiva.
In un rapporto radicalmente diverso si trovano invece i "produttori", e rispettivamente i "consumatori", delle regole giuridiche fabbricate mediante l’impiego della tecnica legislativa. Il voto dei "consumatori" è in questo caso discontinuo (potendo essi darlo solo in certi tempi, a certe condizioni, con significato quasi sempre lacunoso ed equivoco, con effetti non sempre previsti, spesso non prevedibili, e non di rado non voluti): si aggiunga che non tutti i "consumatori" possono votare (laddove sul mercato vota anche il ragazzino di cinque anni che abbia in mano un pezzo da cinquanta lire per comprarsi il gelato) e che inoltre una parte di essi, quella che si troverà in minoranza nella votazione, e a malgrado di ogni contraria invenzione od escogitazione elettorale, è destinata puramente e semplicemente a sprecare il proprio voto. Dominare la produzione delle regole giuridiche in questo caso è, per i "consumatori", ossia per i destinatari delle stesse regole, impresa evidentemente disperata.
[in Il diritto come pretesa, Liberilibri, Macerata, 2004, pp. 62-64]