x

x

Cassazione Lavoro: responsabilità del datore di lavoro per morte da stress del dipendente

Obbligo fondamentale in capo al datore di lavoro è garantire l’integrità psico-fisica del proprio dipendente. Tale principio è enunciato dall’articolo 2087 del Codice Civile, rubricato “Tutela delle condizioni di lavoro” ed è stato confermato in questa recente sentenza della Cassazione, in tema di responsabilità del datore di lavoro per morte da stress.

 

A seguito della morte di un soggetto assunto come quadro di una multinazionale nel settore della telefonia, la coniuge e la figlia minore, in persona del genitore quale legale rappresentante, ricorreva in giudizio per chiedere il risarcimento del danno patrimoniale e del danno morale per l’avvenuto decesso del familiare.

 

Innanzi al giudice del Tribunale, le parti attrici denunciavano la convenuta di aver violato le norme di legge che disciplinano la sicurezza e la salubrità dell’ambiente di lavoro, e in particolare l’articolo 2087 del Codice Civile, ad oggi la più importante norma sulla tutela della salute nei luoghi di lavoro.

 

La parte attrice riteneva che la morte per infarto al miocardio era da ascrivere allo stress accumulato dal coniuge nell’ultimo periodo di vita, a causa dei ritmi di lavoro estremamente pesanti, della durata della giornata di lavoro, di gran lunga superiore a quella di otto ore giornaliere prevista (nel massimo) dalla legge, e al fatto che gli impegni lavorativi, da adempiere senza collaboratori, avevano comportato spesso il protrarsi dell’attività anche a casa e fino a tarda sera.

 

Al rigetto della domanda attrice in primo grado faceva invece seguito l’accoglimento della Corte d’appello, che, ritenendo fondate le pretese e la responsabilità della società, anche a seguito dell’indagine medico-legale disposta d’ufficio, condannavano la multinazionale al risarcimento del danno cagionato e l’assicurazione a mantenere indenne l’assicurata per una parte dell’importo dovuto.

 

La società ha proposto ricorso in Cassazione ritenendosi priva di alcuna responsabilità per la morte del lavoratore. Questo in quanto la stessa non poteva dirsi a conoscenza delle modalità con le quali il dipendente svolgeva il suo lavoro, a maggior ragione per il fatto che non aveva ricevuto contestazioni né il dipendente aveva mai manifestato disagi fisici.

 

Riteneva, inoltre, privo di riscontro probatorio che l’azienda avesse imposto l’osservanza di ritmi insostenibili o fissato tempi di consegna dei progetti o sollecitato la definizione dei lavori in corso.

 

La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo, in quanto “la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l’assenza di doglianze mosse dai dipendenti o, addirittura, sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengono in concreto svolte. Deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all’azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne”.

 

La Cassazione ha, dunque, confermato la sentenza impugnata e affermato che il lavoratore, per evadere il proprio lavoro e per far fronte all’oggettiva gravosità degli incarichi cui era chiamato ad adempiere, era stato costretto a conformare i propri ritmi di lavoro per realizzare lo smaltimento degli stessi nei limiti di tempo richiesti. Lo stress accumulato nell’ultimo periodo di vita a causa del sovraccarico di lavoro rappresentava la concausa principale del malore che ne aveva cagionato la morte. Da ciò, la responsabilità della società datrice di lavoro.

 

Una ricca giurisprudenza sul tema ritiene che uno degli obblighi imprescindibili che il datore di lavoro deve rispettare sia quello di garantire ai propri dipendenti di svolgere le mansioni cui sono tenuti nelle migliori e più salubri condizioni che l’esperienza e la tecnica permettono.

 

Ciò in base a quanto stabilito dal legislatore nel citato articolo 2087, che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori.

 

Tale articolo è considerato norma fondamentale in materia in forza del suo carattere “aperto”, che rende il dettato legislativo “al passo coi tempi”. L’imprenditore, per risultare indenne da responsabilità, è tenuto ad aggiornare continuamente le misure adottate per garantire la miglior sicurezza che lo sviluppo scientifico e la tecnica rendono possibili.

 

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 8 maggio 2014, n. 9945)

Obbligo fondamentale in capo al datore di lavoro è garantire l’integrità psico-fisica del proprio dipendente. Tale principio è enunciato dall’articolo 2087 del Codice Civile, rubricato “Tutela delle condizioni di lavoro” ed è stato confermato in questa recente sentenza della Cassazione, in tema di responsabilità del datore di lavoro per morte da stress.

 

A seguito della morte di un soggetto assunto come quadro di una multinazionale nel settore della telefonia, la coniuge e la figlia minore, in persona del genitore quale legale rappresentante, ricorreva in giudizio per chiedere il risarcimento del danno patrimoniale e del danno morale per l’avvenuto decesso del familiare.

 

Innanzi al giudice del Tribunale, le parti attrici denunciavano la convenuta di aver violato le norme di legge che disciplinano la sicurezza e la salubrità dell’ambiente di lavoro, e in particolare l’articolo 2087 del Codice Civile, ad oggi la più importante norma sulla tutela della salute nei luoghi di lavoro.

 

La parte attrice riteneva che la morte per infarto al miocardio era da ascrivere allo stress accumulato dal coniuge nell’ultimo periodo di vita, a causa dei ritmi di lavoro estremamente pesanti, della durata della giornata di lavoro, di gran lunga superiore a quella di otto ore giornaliere prevista (nel massimo) dalla legge, e al fatto che gli impegni lavorativi, da adempiere senza collaboratori, avevano comportato spesso il protrarsi dell’attività anche a casa e fino a tarda sera.

 

Al rigetto della domanda attrice in primo grado faceva invece seguito l’accoglimento della Corte d’appello, che, ritenendo fondate le pretese e la responsabilità della società, anche a seguito dell’indagine medico-legale disposta d’ufficio, condannavano la multinazionale al risarcimento del danno cagionato e l’assicurazione a mantenere indenne l’assicurata per una parte dell’importo dovuto.

 

La società ha proposto ricorso in Cassazione ritenendosi priva di alcuna responsabilità per la morte del lavoratore. Questo in quanto la stessa non poteva dirsi a conoscenza delle modalità con le quali il dipendente svolgeva il suo lavoro, a maggior ragione per il fatto che non aveva ricevuto contestazioni né il dipendente aveva mai manifestato disagi fisici.

 

Riteneva, inoltre, privo di riscontro probatorio che l’azienda avesse imposto l’osservanza di ritmi insostenibili o fissato tempi di consegna dei progetti o sollecitato la definizione dei lavori in corso.

 

La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo, in quanto “la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l’assenza di doglianze mosse dai dipendenti o, addirittura, sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengono in concreto svolte. Deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all’azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne”.

 

La Cassazione ha, dunque, confermato la sentenza impugnata e affermato che il lavoratore, per evadere il proprio lavoro e per far fronte all’oggettiva gravosità degli incarichi cui era chiamato ad adempiere, era stato costretto a conformare i propri ritmi di lavoro per realizzare lo smaltimento degli stessi nei limiti di tempo richiesti. Lo stress accumulato nell’ultimo periodo di vita a causa del sovraccarico di lavoro rappresentava la concausa principale del malore che ne aveva cagionato la morte. Da ciò, la responsabilità della società datrice di lavoro.

 

Una ricca giurisprudenza sul tema ritiene che uno degli obblighi imprescindibili che il datore di lavoro deve rispettare sia quello di garantire ai propri dipendenti di svolgere le mansioni cui sono tenuti nelle migliori e più salubri condizioni che l’esperienza e la tecnica permettono.

 

Ciò in base a quanto stabilito dal legislatore nel citato articolo 2087, che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori.

 

Tale articolo è considerato norma fondamentale in materia in forza del suo carattere “aperto”, che rende il dettato legislativo “al passo coi tempi”. L’imprenditore, per risultare indenne da responsabilità, è tenuto ad aggiornare continuamente le misure adottate per garantire la miglior sicurezza che lo sviluppo scientifico e la tecnica rendono possibili.

 

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 8 maggio 2014, n. 9945)