Dario Pedrazzini LA VITA QUOTIDIANA DEI LONGOBARDI AI TEMPI DI RE ROTARI

Il diritto longobardo è consuetudinario e fino al 643 non è scritto, ma tramandato oralmente. Quando, prima della discesa in Italia, il popolo longobardo era unito, l’assemblea degli uomini liberi, il gairethinx (letteralmente "assemblea delle lance" in quanto è usanza degli arimanni approvare o disapprovare le proposte battendo gli scudi con le lance), delucidava, chiariva, interpretava il patrimonio di leggi tramandate, detto gawarfida. Con l’insediamento in Italia la cosa non è più possibile per la dispersione delle varie fare sul territorio e spesso anche per l’interruzione territoriale di zone rimaste in mano bizantina tra un ducato longobardo e l’altro. Questa situazione dà lo spazio ai duchi per applicare in ogni singolo ducato l’amministrazione e la giustizia a proprio arbitrio e a proprio interesse. Molti arimanni si sono più volte rivolti all’autorità del re per questi soprusi.

Pertanto Rotari prende la decisione, straordinaria e innovativa per i Longobardi, di far scrivere un testo di norme giuridiche valide per tutto il regno, e di farle scrivere in latino. Rotari dichiara esplicitamente nel testo di aver raccolto il materiale che costituisce l’editto ricercando e ricordando le antiche leggi non scritte dei padri, tanto egli in prima persona quanto consultando gli anziani, e di averlo infine fatto redigere dal notaio Ansoaldo.

Nel testo non è specificato quanto tempo ha richiesto il processo di redazione, ma è verosimile che siano occorsi circa otto anni, perché vi è scritto che la pubblicazione dell’Editto cade nell’ ottavo anno di regno di Rotari, che allora era trentottenne; quindi è probabile che il re sia stato impegnato nel progetto di dare una legge scritta al suo popolo dal momento della sua salita al trono a trent’ anni. Egli stesso si riferisce al suo sforzo parlando di «summo studio et summis vigiliis» cioè "con grande studio e con lunghe veglie".

Il 22 novembre 643 il re, rispettando la tradizione longobarda, sottopone l’Editto all’assemblea dei guerrieri riunita a Pavia perché venga ufficialmente confermato.

L’Editto è composto da 388 articoli. Le materie regolate sono cosi suddivise: reati contro il regno (artt.1-14), reati contro le persone (artt.15-145), reati contro le cose (artt.146-152), diritto familiare e di successione (artt.153-226), diritto della proprietà e commerciale (artt.227-252), reati contro la società e la pacifica convivenza (artt.253-358), reati minori e diritto procedurale (artt.359-388).

La cultura longobarda non ha sviluppato una lingua scritta né possiede una tradizione diplomatica, perciò per la stesura dell’editto Rotari e i suoi collaboratori scelgono di utilizzare il latino. Difficilmente nella stesura di leggi promulgate per governare un organismo complesso quale un regno si sarebbe potuto prescindere da una lingua che in Occidente si era affermata come lingua dell’amministrazione e del diritto da quasi nove secoli.

Tuttavia proprio per la consuetudinarietà del diritto longobardo, basato sul ricordare a memoria caso per caso, in molti capitoli il caso specifico è introdotto dall’espressione germanica originaria tratta dalla tradizione, poi affiancata nella spiegazione dal termine equivalente in latino. Ad esempio all’art. 13 è scritto: «De mordh. Si quis homicidium ...penetraverit...», oppure all’art. 45 è scritto: «faida, hoc est inimicitia».

[Gabriele Angelini Editore, 2007, pp. 12-13]

Il diritto longobardo è consuetudinario e fino al 643 non è scritto, ma tramandato oralmente. Quando, prima della discesa in Italia, il popolo longobardo era unito, l’assemblea degli uomini liberi, il gairethinx (letteralmente "assemblea delle lance" in quanto è usanza degli arimanni approvare o disapprovare le proposte battendo gli scudi con le lance), delucidava, chiariva, interpretava il patrimonio di leggi tramandate, detto gawarfida. Con l’insediamento in Italia la cosa non è più possibile per la dispersione delle varie fare sul territorio e spesso anche per l’interruzione territoriale di zone rimaste in mano bizantina tra un ducato longobardo e l’altro. Questa situazione dà lo spazio ai duchi per applicare in ogni singolo ducato l’amministrazione e la giustizia a proprio arbitrio e a proprio interesse. Molti arimanni si sono più volte rivolti all’autorità del re per questi soprusi.

Pertanto Rotari prende la decisione, straordinaria e innovativa per i Longobardi, di far scrivere un testo di norme giuridiche valide per tutto il regno, e di farle scrivere in latino. Rotari dichiara esplicitamente nel testo di aver raccolto il materiale che costituisce l’editto ricercando e ricordando le antiche leggi non scritte dei padri, tanto egli in prima persona quanto consultando gli anziani, e di averlo infine fatto redigere dal notaio Ansoaldo.

Nel testo non è specificato quanto tempo ha richiesto il processo di redazione, ma è verosimile che siano occorsi circa otto anni, perché vi è scritto che la pubblicazione dell’Editto cade nell’ ottavo anno di regno di Rotari, che allora era trentottenne; quindi è probabile che il re sia stato impegnato nel progetto di dare una legge scritta al suo popolo dal momento della sua salita al trono a trent’ anni. Egli stesso si riferisce al suo sforzo parlando di «summo studio et summis vigiliis» cioè "con grande studio e con lunghe veglie".

Il 22 novembre 643 il re, rispettando la tradizione longobarda, sottopone l’Editto all’assemblea dei guerrieri riunita a Pavia perché venga ufficialmente confermato.

L’Editto è composto da 388 articoli. Le materie regolate sono cosi suddivise: reati contro il regno (artt.1-14), reati contro le persone (artt.15-145), reati contro le cose (artt.146-152), diritto familiare e di successione (artt.153-226), diritto della proprietà e commerciale (artt.227-252), reati contro la società e la pacifica convivenza (artt.253-358), reati minori e diritto procedurale (artt.359-388).

La cultura longobarda non ha sviluppato una lingua scritta né possiede una tradizione diplomatica, perciò per la stesura dell’editto Rotari e i suoi collaboratori scelgono di utilizzare il latino. Difficilmente nella stesura di leggi promulgate per governare un organismo complesso quale un regno si sarebbe potuto prescindere da una lingua che in Occidente si era affermata come lingua dell’amministrazione e del diritto da quasi nove secoli.

Tuttavia proprio per la consuetudinarietà del diritto longobardo, basato sul ricordare a memoria caso per caso, in molti capitoli il caso specifico è introdotto dall’espressione germanica originaria tratta dalla tradizione, poi affiancata nella spiegazione dal termine equivalente in latino. Ad esempio all’art. 13 è scritto: «De mordh. Si quis homicidium ...penetraverit...», oppure all’art. 45 è scritto: «faida, hoc est inimicitia».

[Gabriele Angelini Editore, 2007, pp. 12-13]