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Dimensione economica del calcio in Italia: origine e sviluppi

Estratto da "La gestione delle società sportive nell’era del calcio business", Cesi Professionale, 2012

[Estratto da "La gestione delle società sportive nell’era del calcio business", Cesi Professionale, 2012]

 

Le società di calcio ebbero origine quale semplice fenomeno aggregativo di soggetti impegnati nella pratica sportiva, quindi, in forma sostanzialmente associazionistico-ricreativa.

Pertanto, i primi sodalizi furono concepiti quali strutture associative modellate sullo schema giuridico tipico delle associazioni non riconosciute (artt. 36, 37 e 38 c.c.), operanti senza il perseguimento di finalità lucrative, prive di personalità giuridica e finanziate mediante l’apporto di beni e contributi da parte degli associati che, confluendo in un fondo comune, costituivano idonea forma di garanzia verso i terzi, pur permanendo la responsabilità degli associati medesimi.

Lo scopo che le associazioni calcistiche intendevano perseguire non era altro che quello connesso all’esercizio della mera pratica sportiva e alla relativa diffusione, per cui, così come strutturate, esse, almeno in una prima fase, si rivelarono più adeguate all’attuazione delle finalità sportive e alla gestione dei rapporti endoassociativi.

In definitiva, importava che un soggetto contraesse il vincolo associativo nei confronti del sodalizio di appartenenza (praticante-associato) e, di conseguenza, quello di tesseramento presso la Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.)[1].

Tuttavia, la progressiva diffusione del calcio e l’aumento di interesse intorno al fenomeno resero le associazioni sportive consapevoli del fatto che il mero ed esclusivo contributo finanziario degli associati non sarebbe stato più sufficiente a sostenere spese sempre crescenti.

Un servizio, quale lo spettacolo sportivo, avrebbe dovuto essere remunerato dal pagamento di un prezzo commisurato alla qualità dell’offerta e alla misura della domanda.

Si trattò del primo segnale di quello che in avvenire si sarebbe imposto all’attenzione come vero e proprio calcio business.

Alla figura dell’atleta praticante-associato subentrò quella dello sportivo che rendeva la propria prestazione a fronte del pagamento di un compenso.

Iniziava a delinearsi la figura dello sportivo professionista, definitivamente introdotta con la legge n. 91 del 23 marzo 1981 di cui si argomenterà meglio nel paragrafo dedicato.

Gli impegni di spesa, dunque, sempre più onerosi, indussero le associazioni calcistiche a rivolgersi al mercato nel tentativo di intercettare l’interesse degli imprenditori e avvicinarli al progetto sportivo. L’iniziativa ebbe successo.

Dal punto di vista dell’imprenditore fu evidente che il particolare contesto e, nello specifico, le affermazioni in campo sportivo eventualmente ottenute, sia a livello nazionale che internazionale, avrebbero potuto determinare un importante ritorno pubblicitario per l’azienda di proprietà e, di conseguenza, anche economico.

La figura del c.d. mecenate sportivo che investe risorse nel settore, con l’aspettativa di trarne vantaggi a beneficio della propria impresa, sia pur indirettamente, cominciava ad imporsi.

Ulteriore circostanza sintomatica della progressiva caratterizzazione del fenomeno sportivo (calcistico) sotto il profilo industriale e commerciale è testimoniata dall’iniziativa che la F.I.G.C. assunse nell’anno 1949 legata alla possibilità di tesserare calciatori stranieri; ne conseguì un miglioramento dello spettacolo sportivo, tanto che, proprio agli anni ‘50 e ‘60, si registrarono significativi incrementi di affluenza di pubblico in occasione degli incontri di calcio.

I tratti economico-finanziari che avevano investito il settore divennero, tuttavia, sempre più marcati, di talché, e non avrebbe potuto essere altrimenti, fu chiaro che le ormai vetuste organizzazioni sportive, costituite in forma associativa, non erano più adeguate ai tempi, in considerazione dei mutamenti che sempre più dinamicamente pervadevano il mondo del calcio.

Ebbero origine, dunque, le prime società calcistiche di capitali, per cui sarà interessante, illustrare, in breve, in che modo avvenne la trasformazione delle organizzazioni sportive da associazioni a società di capitali.

La F.I.G.C. intervenne con due distinti provvedimenti: il primo, attuato mediante l’adozione di una delibera ad hoc in data 16 settembre 1966 (comunicato ufficiale F.I.G.C. n. 51 del 16 settembre 1966), in base alla quale fu stabilito lo scioglimento delle vecchie associazioni militanti nei campionati professionistici (Serie A e Serie B), con contestuale relativa nuova costituzione in veste di società commerciali munite di personalità giuridica, individuata quale condizione imprescindibile ai fini dell’iscrizione al campionato di calcio relativo alla stagione sportiva 1966/1967.

Tuttavia, tale operazione non fu avallata dalla Suprema Corte che, infatti, sancì l’illegittimità dello scioglimento diretto delle associazioni sportive in assenza di uno specifico provvedimento di legge che lo decretasse.

Pertanto, le associazioni sportive deliberarono il proprio scioglimento in via autonoma, costituendosi in forma di società di capitali con l’apporto dei membri già facenti parte degli organismi dissoltisi.

Il secondo provvedimento, invece, fu assunto in data 16 dicembre 1966 e si concretizzò nella predisposizione di un modello standard di statuto societario che tutte le società calcistiche, obbligatoriamente, avrebbero dovuto adottare, con l’espressa previsione del divieto di perseguire fini di lucro, o meglio, di ridistribuire utili di bilancio eventualmente realizzati ai soci; in tale ipotesi, tali utili avrebbero dovuto essere destinati a favorire la migliore attuazione delle finalità sportive e a sostenerle in maniera più incisiva.

Certo, quel divieto di ridistribuzione degli utili ai singoli azionisti costituiva una palese anomalia per una società di capitali atteso che, in tal modo, risultava vanificata la remunerazione del rischio di impresa assunto dagli azionisti sulla base degli investimenti effettuati.

Il momento storico, evidentemente, imponeva di riservare una maggiore attenzione alla cura degli equilibri finanziari delle compagini di nuova costituzione (assoggettate alla disciplina ordinaria in tema di bilancio) piuttosto che ai benefici che avrebbero potuto conseguire gli azionisti.

In definitiva, si cominciavano a porre le basi di quello che sarebbe stato lo sviluppo successivo delle modalità attraverso cui viene attualmente condotta la gestione societaria sportiva nel settore professionistico e dei relativi sistemi di controllo previsti in ambito domestico.

Purtroppo, gli obiettivi furono clamorosamente disattesi, se è vero come è vero che il passivo di bilancio aggregato, considerando l’insieme delle squadre di Serie A e di Serie B, aumentò progressivamente, sino a raggiungere, nel 1980, l’astronomica cifra di circa 90 miliardi del vecchio conio.

Si arriva, così, all’anno 1981, epoca in cui entrò in vigore la legge n. 91/1981 (c.d. legge sul professionismo sportivo) mediante cui vennero abbattuti alcuni dogmi radicatisi nel tempo, quali, ad esempio, il c.d. vincolo sportivo; inoltre, la figura del lavoratore sportivo fu ricondotta a quella del lavoratore subordinato, senza considerare ulteriori importanti interventi di cui si dirà meglio nel prosieguo della trattazione.

Trascorreranno, però, quindici anni prima che il sistema calcio italiano sia attinto da un nuovo scossone; infatti, a seguito della pronuncia resa dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee (ora Europea) il 15 dicembre 1995 relativa alla vicenda Bosman[2], la legge n. 91/1981 venne ampiamente emendata sulla base delle prescrizioni contenute nella legge n. 586/1996, di conversione del d.l. n. 485 del 20 settembre 1996 (quest’ultimo fu preceduto dal d.l. n. 272 del 17 maggio 1996 e dal d.l. n. 383 del 22 luglio 1996, entrambi mai convertiti in legge nei termini prescritti) che, a sua volta, aveva recepito i dettami dello storico provvedimento della Corte di Giustizia.

Gli effetti generati dalla sentenza in argomento furono la liberalizzazione dei trasferimenti degli atleti professionisti comunitari tra i Paesi membri UE, l’abolizione di ogni sorta di limitazione numerica relativa all’impiego di giocatori comunitari “stranieri”, precedentemente prescritta dai regolamenti delle diverse Federazioni Sportive Nazionali (calcistiche), nonché l’eliminazione dell’obbligo di versare, in ipotesi di passaggio di un calciatore con contratto scaduto ad altra società sportiva, l’indennità di preparazione e promozione da parte della società sportiva di destinazione a beneficio di quella di provenienza.

L’intervento della Corte di Giustizia determinò un vero e proprio tsunami sotto l’aspetto culturale e sportivo, condizionando radicalmente il sistema calcistico italiano, sia in relazione alle dinamiche del rapporto tra atleta professionista e società sportiva sia, di conseguenza, ai criteri di gestione economico-finanziaria.

L’industrializzazione del settore sportivo e, in particolare, di quello calcistico avanzava a grandi passi e nulla sarebbe stato più come prima.

D’altro canto, è pur vero che le novità introdotte a seguito delle modifiche apportate alla legge n. 91/1981 avrebbero dovuto scontare un periodo di adattamento all’interno di un sistema che, sino a quel momento, aveva funzionato sulla base di logiche e meccanismi operativi assolutamente diversi; tanto è vero che, a mero titolo esemplificativo, come era prevedibile, l’abolizione definitiva dell’indennità di preparazione disorientò non poco le società sportive.

Queste ultime da un giorno all’altro, per così dire, realizzarono di non poter più beneficiare di qualsivoglia indennità di preparazione e promozione (ormai abolita) su cui ritenevano, invece, di poter contare, tanto da iscriverle a bilancio in tempi non sospetti.

Si comprese che il rischio di una ricaduta negativa per le casse societarie era dietro l’angolo, per cui, allo scopo di evitare eccessivi pregiudizi, l’indennità di preparazione e promozione fu rimpiazzata dal c.d. premio di addestramento e formazione tecnica di cui la società sportiva avrebbe beneficiato in ipotesi di sottoscrizione del primo contratto da parte dell’atleta che presso la medesima aveva svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile.

Trattasi di una delle innovazioni apportate alla legge n. 91/1981 a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 586/1996 che, peraltro, determinò anche altri cambiamenti.

Decadde, ad esempio, anche il divieto di ridistribuzione degli utili ai soci, venendo meno, pertanto, quell’anomalia che impediva alle società sportive di perseguire finalità lucrative soggettive.

Le compagini societarie non furono più obbligate a reinvestire tutti gli utili per il mero ed esclusivo perseguimento delle finalità sportive, potendone legittimamente disporre al fine di ridistribuirli in favore degli stakeholders, sempre al netto di un quota non inferiore al 10% da destinarsi alle scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva, come legislativamente prescritto.

L’introduzione dello scopo di lucro comportò anche l’obbligo di nomina, da parte di ciascuna società sportiva, del Collegio Sindacale, ovvero dell’organo che, mediante l’effettuazione di costanti e puntuali verifiche, avrebbe vigilato sulla corretta gestione societaria nella prospettiva di preservare, nel tempo, gli equilibri finanziari.

Ad ogni buon conto, l’anno 1996 si rivelò decisivo non solo per gli effetti indotti dalla “sentenza Bosman” sul sistema sportivo-calcistico nazionale, ma anche in relazione ad altri accadimenti che contribuirono a catapultare il fenomeno calcio in una dimensione economico-finanziaria ancora più rilevante.

Ci si riferisce, ad esempio, all’avvento di numerosissimi calciatori provenienti da altre Federazioni e alla contemporanea migrazione all’estero, per la prima volta in assoluto, di un certo numero di calciatori italiani, alla introduzione della possibilità di quotazione in Borsa delle società sportive, nonché alla possibilità offerta agli appassionati di assistere in diretta, a pagamento (c.d. pay per view), alle partite trasmesse dalle emittenti televisive titolari dei diritti di trasmissione degli eventi sportivi.

Facendo un passo indietro, si ricorda che negli anni ’60 l’emittente televisiva era pubblica e la trasmissione degli eventi calcistici non generava alcun tipo di flusso finanziario nelle casse delle società sportive.

Solo agli inizi degli anni ‘80 si registrarono i primi ricavi delle società sportive discendenti dalla commercializzazione dei diritti audiovisivi; in una prima fase, ovvero sino alla stagione sportiva 1993/1994, grazie all’intervento esclusivo della RAI, cui si affiancarono, successivamente, quali concorrenti, prima le emittenti televisive private TELE+ e STREAM e, a far data dalla stagione sportiva 2003/2004, a seguito della fusione tra TELE+ e STREAM, SKY.

L’anno 1996 rappresentò anche l’epoca in cui emersero i primi segnali di iniziative commerciali legate al merchandising e allo sfruttamento del marchio societario, per cui, in definitiva, il fenomeno calcio, da esperienza fondamentalmente umana e sociale, diviene business a tutti gli effetti.

Invero, anche antecedentemente al 1996 erano emersi alcuni indicatori di una qualche dinamicità del calcio sotto il profilo economico, quale, ad esempio, l’avvento del c.d. sponsor tecnico agli inizi degli anni ’70.

Sulle divise ufficiali delle varie squadre, accanto al proprio simbolo identificativo, campeggiava il logo del brand fornitore e, soprattutto, a differenza di quanto accedeva in passato, non era più la società sportiva a remunerare l’azienda fornitrice per far indossare le divise di propria produzione ai calciatori; tra i predetti primordiali indicatori, peraltro, meritano di essere menzionati il c.d. calciomercato[3], l’avvento dei c.d. procuratori sportivi (Agenti di calciatori)[4], la nascita dell’Associazione Italiana Calciatori (A.I.C.)[5], sino a giungere, come osservato, al decisivo impulso generato dalla promulgazione della L. n. 91/1981 che, anche in virtù delle integrazioni intervenute con la L. n. 586/1996, ha costituito il vero punto di partenza della successiva evoluzione del settore calcio dal punto di vista economico-finanziario, caratterizzato da ricavi sempre crescenti. Vedremo, però, come recita il noto adagio, che “non è tutto oro quello che luccica”.

[1] Originariamente denominata Federazione Italiana Football (F.I.F.), fu fondata il 16 marzo 1898 e conservò la denominazione sino al 1909. Il primo Presidente federale fu l’Ing. Mario Vicary.

In base allo Statuto vigente la F.I.G.C. é «associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato avente lo scopo di promuovere e disciplinare l’attività del giuoco del calcio e gli aspetti ad essa connessi» (art. 1, comma 1), nonché «associazione delle società e delle associazioni sportive (le “società”) che perseguono il fine di praticare il giuoco del calcio in Italia e degli altri organismi a essa affiliati che svolgono attività strumentali al perseguimento di tale fine» (art. 1, comma 2).

[2] Poco dopo la conclusione del Campionato del Mondo svoltosi in Italia nel 1990, il calciatore Jean Marc Bosman citava dinanzi al Tribunale di Liegi il F.C. Liegi (Belgio), nonché la Federazione calcistica belga, per aver impedito il suo trasferimento all’U.S.L. Dunkerque (Francia).

Il F.C. Liegi aveva proposto a Bosman di rinnovare il proprio contratto di prestazione sportiva giunto a scadenza, tuttavia, con riduzione dell’ingaggio.

Il calciatore rifiutava la proposta e addiveniva ad un accordo con l’U.S.L. Dunkerque, senza che, però, le due società sportive riuscissero a convenire sull’indennità destinata a quella di provenienza (F.C. Liegi) ai fini del perfezionamento del trasferimento del calciatore, il quale, suo malgrado, fu costretto all’inattività per una intera stagione sportiva, a causa del mancato accordo tra le due compagini.

La Corte d’appello di Liegi, con ordinanza del 1° ottobre 1993, si rivolgeva alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee perché si pronunciasse, pregiudizialmente, ai sensi e per gli effetti di cui all’epoca vigente art. 234 del Trattato CEE, in ordine alla compatibilità con il medesimo Trattato (sotto il profilo tanto della normativa antitrust quanto di quella sulla libera circolazione dei lavoratori) dei regolamenti calcistici nazionali e internazionali in materia di indennità di trasferimento.

L’organo giustiziale comunitario investito della questione, con provvedimento del 15 dicembre 1995, stabilì, in base all’art. 39 del Trattato CEE, in primo luogo, che le disposizioni regolamentari emanate dalle Federazioni Sportive Nazionali, per cui un calciatore professionista, cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società, potesse essere ingaggiato da una società sportiva appartenente ad altro Stato membro, solo se questa avesse corrisposto alla società di provenienza un’indennità di trasferimento, formazione e promozione, erano contrarie al principio di libera circolazione dei lavoratori a livello comunitario.

Inoltre, il medesimo provvedimento sancì la contrarietà alla libera circolazione dei lavoratori anche delle disposizioni regolamentari federali in base a cui le società calcistiche potevano schierare solo un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri in occasione dello svolgimento delle gare di campionato.

Oggi Jean Marc Bosman (46 anni), dalla cui vicenda ha tratto origine la storica sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (ora Corte di Giustizia Europea) che ha rivoluzionato il sistema dei trasferimenti dei calciatori, vive alla periferia di Liegi beneficiando soltanto di un modesto sussidio sociale pari a € 715,79 corrisposto dal Centre d’Aide Sociale.

[3] Con il termine “calciomercato” viene indicato, convenzionalmente, l’evento in occasione del quale vengono perfezionate le operazioni di trasferimento e/o tesseramento dei calciatori.

L’inventore del moderno “calciomercato” viene da sempre individuato nella figura del nobile palermitano Raimondo Lanza di Trabia, nei primi anni ‘50 anche Presidente del Palermo, noto per il fatto che, in sede di trattativa, accoglieva i colleghi Presidenti e i calciatori (non esisteva, all’epoca, la figura dell’Agente di calciatori) immerso nella vasca da bagno della suite n. 131 dell’Hotel Gallia di Milano, sorseggiando un aperitivo ghiacciato.

La normativa F.I.F.A. (art. 6, c. 2, Regolamento F.I.F.A. per lo Status e il Trasferimento dei Calciatori) impone a ciascuna Federazione calcistica nazionale di prevedere due distinti periodi, nell’arco di ciascuna stagione sportiva, in occasione dei quali devono essere effettuate le operazioni di trasferimento e/o tesseramento dei calciatori.

In particolare, é stabilito che il primo dei due periodi, la cui massima durata non può eccedere le 12 settimane, deve avere inizio a conclusione della stagione sportiva e terminare prima che abbia inizio quella successiva (sessione estiva che, per la stagione sportiva 2011/2012, ha avuto luogo dal 1° luglio 2011 al 31 agosto 2011), mentre il secondo deve essere fissato a metà della stagione sportiva (sessione invernale che, per la stagione sportiva 2011/2012, avrà luogo dal 3 gennaio 2012 al 31 gennaio 2012) e la relativa durata non può eccedere le 4 settimane (c.d. calciomercato di riparazione); peraltro, sino alla stagione sportiva 1993/1994 per le operazioni di trasferimento e/o di tesseramento dei calciatori era prevista anche una sessione autunnale (1° ottobre - 31 ottobre).

[4] Libero professionista, senza alcun vincolo associativo nei riguardi della F.I.G.C. o di società ad essa affiliate, il quale, previo rilascio della licenza da parte della F.I.G.C. medesima, all’esito di specifica prova di idoneità, assume la qualifica di “Agente di calciatori autorizzato dalla F.I.G.C.”.

L’Agente, che non può essere considerato, ad alcun titolo, tesserato F.I.G.C., in forza dell’incarico conferito, a titolo oneroso e in conformità del Regolamento Agenti, «cura e promuove i rapporti tra calciatore e società di calcio (professionistica) in vista della stipula di un contratto di prestazione sportiva, ovvero tra due società per la conclusione del trasferimento o la cessione di contratto di un calciatore nell’ambito di una Federazione o da una Federazione all’altra» (art. 3 Regolamento Agenti di Calciatori).

La F.I.F.A., di recente, mediante l’introduzione di nuove disposizioni regolamentari, aveva inteso eliminare, a far data dal mese di ottobre 2011 (inizialmente, mese di giugno 2011) la figura dell’Agente di calciatori a beneficio del ripristino di quella del c.d. Intermediario, quale persona fisica o giuridica liberamente eligibile dal calciatore professionista ai fini rappresentativi (anche senza obbligo di corrispondere il prezzo dell’opera, in ogni caso quantificabile non oltre la misura del 3% del compenso annuo lordo percepito dal calciatore professionista), indipendentemente dal possesso di una qualifica ad hoc e, addirittura, di una specifica competenza in materia.

Tuttavia, l’iniziativa versa in una situazione di stand by e non avrà sviluppi almeno sino alla conclusione del prossimo Congresso F.I.F.A. che si svolgerà a Budapest (Ungheria) il 24 e 25 maggio 2012 e che costituirà l’occasione, molto verosimilmente, per apportare significativi emendamenti alla originaria bozza di regolamento istitutivo della figura dell’Intermediario.

[5] L’A.I.C. é l’organismo di rappresentanza sindacale dei calciatori e delle calciatrici tesserati/e in forza a società sportive associate alle Leghe del settore professionistico e di quello dilettantistico (non professionistico), nonché di tutti i calciatori italiani tesserati per società sportive estere, sempre in ambito professionistico.

L’A.I.C. fu costituita nel 1968 per iniziativa di alcuni calciatori che concepirono l’idea di uno specifico organo sindacale in grado di rappresentare adeguatamente una figura sportiva non munita, all’epoca, di sufficienti e idonee tutele, assumendo, a tal fine, la veste di interlocutore principale nell’interesse degli associati nei rapporti con la F.I.G.C. e con le Leghe.

Tre sono gli scopi principali che l’A.I.C. persegue:

- la tutela degli interessi economici, professionali e morali degli associati;

- il potenziamento e il miglioramento delle condizioni di lavoro degli associati, avuto particolare riguardo alla salvaguardia della loro integrità fisica e della loro salute;

- la costante valorizzazione del prestigio della categoria attraverso l’innalzamento degli standards economici, professionali e culturali di ciascun associato.

L’adesione all’A.I.C. é subordinata all’inoltro di specifica domanda al Consiglio Direttivo e al pagamento della quota associativa annuale.

Presidente dell’A.I.C. é l’ex calciatore professionista Damiano Tommasi che ha assunto l’incarico il 9 maggio 2011 in sostituzione dello storico Presidente A.I.C., Avv. Sergio Campana.

La sede dell’A.I.C. è ubicata in – 36100 - Vicenza, Contrà delle Grazie n. 10 (tel. +39 0444 23323 - fax +39 0444 233250 - website: www.assocalciatori.it).

[Estratto da "La gestione delle società sportive nell’era del calcio business", Cesi Professionale, 2012]

 

Le società di calcio ebbero origine quale semplice fenomeno aggregativo di soggetti impegnati nella pratica sportiva, quindi, in forma sostanzialmente associazionistico-ricreativa.

Pertanto, i primi sodalizi furono concepiti quali strutture associative modellate sullo schema giuridico tipico delle associazioni non riconosciute (artt. 36, 37 e 38 c.c.), operanti senza il perseguimento di finalità lucrative, prive di personalità giuridica e finanziate mediante l’apporto di beni e contributi da parte degli associati che, confluendo in un fondo comune, costituivano idonea forma di garanzia verso i terzi, pur permanendo la responsabilità degli associati medesimi.

Lo scopo che le associazioni calcistiche intendevano perseguire non era altro che quello connesso all’esercizio della mera pratica sportiva e alla relativa diffusione, per cui, così come strutturate, esse, almeno in una prima fase, si rivelarono più adeguate all’attuazione delle finalità sportive e alla gestione dei rapporti endoassociativi.

In definitiva, importava che un soggetto contraesse il vincolo associativo nei confronti del sodalizio di appartenenza (praticante-associato) e, di conseguenza, quello di tesseramento presso la Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.)[1].

Tuttavia, la progressiva diffusione del calcio e l’aumento di interesse intorno al fenomeno resero le associazioni sportive consapevoli del fatto che il mero ed esclusivo contributo finanziario degli associati non sarebbe stato più sufficiente a sostenere spese sempre crescenti.

Un servizio, quale lo spettacolo sportivo, avrebbe dovuto essere remunerato dal pagamento di un prezzo commisurato alla qualità dell’offerta e alla misura della domanda.

Si trattò del primo segnale di quello che in avvenire si sarebbe imposto all’attenzione come vero e proprio calcio business.

Alla figura dell’atleta praticante-associato subentrò quella dello sportivo che rendeva la propria prestazione a fronte del pagamento di un compenso.

Iniziava a delinearsi la figura dello sportivo professionista, definitivamente introdotta con la legge n. 91 del 23 marzo 1981 di cui si argomenterà meglio nel paragrafo dedicato.

Gli impegni di spesa, dunque, sempre più onerosi, indussero le associazioni calcistiche a rivolgersi al mercato nel tentativo di intercettare l’interesse degli imprenditori e avvicinarli al progetto sportivo. L’iniziativa ebbe successo.

Dal punto di vista dell’imprenditore fu evidente che il particolare contesto e, nello specifico, le affermazioni in campo sportivo eventualmente ottenute, sia a livello nazionale che internazionale, avrebbero potuto determinare un importante ritorno pubblicitario per l’azienda di proprietà e, di conseguenza, anche economico.

La figura del c.d. mecenate sportivo che investe risorse nel settore, con l’aspettativa di trarne vantaggi a beneficio della propria impresa, sia pur indirettamente, cominciava ad imporsi.

Ulteriore circostanza sintomatica della progressiva caratterizzazione del fenomeno sportivo (calcistico) sotto il profilo industriale e commerciale è testimoniata dall’iniziativa che la F.I.G.C. assunse nell’anno 1949 legata alla possibilità di tesserare calciatori stranieri; ne conseguì un miglioramento dello spettacolo sportivo, tanto che, proprio agli anni ‘50 e ‘60, si registrarono significativi incrementi di affluenza di pubblico in occasione degli incontri di calcio.

I tratti economico-finanziari che avevano investito il settore divennero, tuttavia, sempre più marcati, di talché, e non avrebbe potuto essere altrimenti, fu chiaro che le ormai vetuste organizzazioni sportive, costituite in forma associativa, non erano più adeguate ai tempi, in considerazione dei mutamenti che sempre più dinamicamente pervadevano il mondo del calcio.

Ebbero origine, dunque, le prime società calcistiche di capitali, per cui sarà interessante, illustrare, in breve, in che modo avvenne la trasformazione delle organizzazioni sportive da associazioni a società di capitali.

La F.I.G.C. intervenne con due distinti provvedimenti: il primo, attuato mediante l’adozione di una delibera ad hoc in data 16 settembre 1966 (comunicato ufficiale F.I.G.C. n. 51 del 16 settembre 1966), in base alla quale fu stabilito lo scioglimento delle vecchie associazioni militanti nei campionati professionistici (Serie A e Serie B), con contestuale relativa nuova costituzione in veste di società commerciali munite di personalità giuridica, individuata quale condizione imprescindibile ai fini dell’iscrizione al campionato di calcio relativo alla stagione sportiva 1966/1967.

Tuttavia, tale operazione non fu avallata dalla Suprema Corte che, infatti, sancì l’illegittimità dello scioglimento diretto delle associazioni sportive in assenza di uno specifico provvedimento di legge che lo decretasse.

Pertanto, le associazioni sportive deliberarono il proprio scioglimento in via autonoma, costituendosi in forma di società di capitali con l’apporto dei membri già facenti parte degli organismi dissoltisi.

Il secondo provvedimento, invece, fu assunto in data 16 dicembre 1966 e si concretizzò nella predisposizione di un modello standard di statuto societario che tutte le società calcistiche, obbligatoriamente, avrebbero dovuto adottare, con l’espressa previsione del divieto di perseguire fini di lucro, o meglio, di ridistribuire utili di bilancio eventualmente realizzati ai soci; in tale ipotesi, tali utili avrebbero dovuto essere destinati a favorire la migliore attuazione delle finalità sportive e a sostenerle in maniera più incisiva.

Certo, quel divieto di ridistribuzione degli utili ai singoli azionisti costituiva una palese anomalia per una società di capitali atteso che, in tal modo, risultava vanificata la remunerazione del rischio di impresa assunto dagli azionisti sulla base degli investimenti effettuati.

Il momento storico, evidentemente, imponeva di riservare una maggiore attenzione alla cura degli equilibri finanziari delle compagini di nuova costituzione (assoggettate alla disciplina ordinaria in tema di bilancio) piuttosto che ai benefici che avrebbero potuto conseguire gli azionisti.

In definitiva, si cominciavano a porre le basi di quello che sarebbe stato lo sviluppo successivo delle modalità attraverso cui viene attualmente condotta la gestione societaria sportiva nel settore professionistico e dei relativi sistemi di controllo previsti in ambito domestico.

Purtroppo, gli obiettivi furono clamorosamente disattesi, se è vero come è vero che il passivo di bilancio aggregato, considerando l’insieme delle squadre di Serie A e di Serie B, aumentò progressivamente, sino a raggiungere, nel 1980, l’astronomica cifra di circa 90 miliardi del vecchio conio.

Si arriva, così, all’anno 1981, epoca in cui entrò in vigore la legge n. 91/1981 (c.d. legge sul professionismo sportivo) mediante cui vennero abbattuti alcuni dogmi radicatisi nel tempo, quali, ad esempio, il c.d. vincolo sportivo; inoltre, la figura del lavoratore sportivo fu ricondotta a quella del lavoratore subordinato, senza considerare ulteriori importanti interventi di cui si dirà meglio nel prosieguo della trattazione.

Trascorreranno, però, quindici anni prima che il sistema calcio italiano sia attinto da un nuovo scossone; infatti, a seguito della pronuncia resa dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee (ora Europea) il 15 dicembre 1995 relativa alla vicenda Bosman[2], la legge n. 91/1981 venne ampiamente emendata sulla base delle prescrizioni contenute nella legge n. 586/1996, di conversione del d.l. n. 485 del 20 settembre 1996 (quest’ultimo fu preceduto dal d.l. n. 272 del 17 maggio 1996 e dal d.l. n. 383 del 22 luglio 1996, entrambi mai convertiti in legge nei termini prescritti) che, a sua volta, aveva recepito i dettami dello storico provvedimento della Corte di Giustizia.

Gli effetti generati dalla sentenza in argomento furono la liberalizzazione dei trasferimenti degli atleti professionisti comunitari tra i Paesi membri UE, l’abolizione di ogni sorta di limitazione numerica relativa all’impiego di giocatori comunitari “stranieri”, precedentemente prescritta dai regolamenti delle diverse Federazioni Sportive Nazionali (calcistiche), nonché l’eliminazione dell’obbligo di versare, in ipotesi di passaggio di un calciatore con contratto scaduto ad altra società sportiva, l’indennità di preparazione e promozione da parte della società sportiva di destinazione a beneficio di quella di provenienza.

L’intervento della Corte di Giustizia determinò un vero e proprio tsunami sotto l’aspetto culturale e sportivo, condizionando radicalmente il sistema calcistico italiano, sia in relazione alle dinamiche del rapporto tra atleta professionista e società sportiva sia, di conseguenza, ai criteri di gestione economico-finanziaria.

L’industrializzazione del settore sportivo e, in particolare, di quello calcistico avanzava a grandi passi e nulla sarebbe stato più come prima.

D’altro canto, è pur vero che le novità introdotte a seguito delle modifiche apportate alla legge n. 91/1981 avrebbero dovuto scontare un periodo di adattamento all’interno di un sistema che, sino a quel momento, aveva funzionato sulla base di logiche e meccanismi operativi assolutamente diversi; tanto è vero che, a mero titolo esemplificativo, come era prevedibile, l’abolizione definitiva dell’indennità di preparazione disorientò non poco le società sportive.

Queste ultime da un giorno all’altro, per così dire, realizzarono di non poter più beneficiare di qualsivoglia indennità di preparazione e promozione (ormai abolita) su cui ritenevano, invece, di poter contare, tanto da iscriverle a bilancio in tempi non sospetti.

Si comprese che il rischio di una ricaduta negativa per le casse societarie era dietro l’angolo, per cui, allo scopo di evitare eccessivi pregiudizi, l’indennità di preparazione e promozione fu rimpiazzata dal c.d. premio di addestramento e formazione tecnica di cui la società sportiva avrebbe beneficiato in ipotesi di sottoscrizione del primo contratto da parte dell’atleta che presso la medesima aveva svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile.

Trattasi di una delle innovazioni apportate alla legge n. 91/1981 a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 586/1996 che, peraltro, determinò anche altri cambiamenti.

Decadde, ad esempio, anche il divieto di ridistribuzione degli utili ai soci, venendo meno, pertanto, quell’anomalia che impediva alle società sportive di perseguire finalità lucrative soggettive.

Le compagini societarie non furono più obbligate a reinvestire tutti gli utili per il mero ed esclusivo perseguimento delle finalità sportive, potendone legittimamente disporre al fine di ridistribuirli in favore degli stakeholders, sempre al netto di un quota non inferiore al 10% da destinarsi alle scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva, come legislativamente prescritto.

L’introduzione dello scopo di lucro comportò anche l’obbligo di nomina, da parte di ciascuna società sportiva, del Collegio Sindacale, ovvero dell’organo che, mediante l’effettuazione di costanti e puntuali verifiche, avrebbe vigilato sulla corretta gestione societaria nella prospettiva di preservare, nel tempo, gli equilibri finanziari.

Ad ogni buon conto, l’anno 1996 si rivelò decisivo non solo per gli effetti indotti dalla “sentenza Bosman” sul sistema sportivo-calcistico nazionale, ma anche in relazione ad altri accadimenti che contribuirono a catapultare il fenomeno calcio in una dimensione economico-finanziaria ancora più rilevante.

Ci si riferisce, ad esempio, all’avvento di numerosissimi calciatori provenienti da altre Federazioni e alla contemporanea migrazione all’estero, per la prima volta in assoluto, di un certo numero di calciatori italiani, alla introduzione della possibilità di quotazione in Borsa delle società sportive, nonché alla possibilità offerta agli appassionati di assistere in diretta, a pagamento (c.d. pay per view), alle partite trasmesse dalle emittenti televisive titolari dei diritti di trasmissione degli eventi sportivi.

Facendo un passo indietro, si ricorda che negli anni ’60 l’emittente televisiva era pubblica e la trasmissione degli eventi calcistici non generava alcun tipo di flusso finanziario nelle casse delle società sportive.

Solo agli inizi degli anni ‘80 si registrarono i primi ricavi delle società sportive discendenti dalla commercializzazione dei diritti audiovisivi; in una prima fase, ovvero sino alla stagione sportiva 1993/1994, grazie all’intervento esclusivo della RAI, cui si affiancarono, successivamente, quali concorrenti, prima le emittenti televisive private TELE+ e STREAM e, a far data dalla stagione sportiva 2003/2004, a seguito della fusione tra TELE+ e STREAM, SKY.

L’anno 1996 rappresentò anche l’epoca in cui emersero i primi segnali di iniziative commerciali legate al merchandising e allo sfruttamento del marchio societario, per cui, in definitiva, il fenomeno calcio, da esperienza fondamentalmente umana e sociale, diviene business a tutti gli effetti.

Invero, anche antecedentemente al 1996 erano emersi alcuni indicatori di una qualche dinamicità del calcio sotto il profilo economico, quale, ad esempio, l’avvento del c.d. sponsor tecnico agli inizi degli anni ’70.

Sulle divise ufficiali delle varie squadre, accanto al proprio simbolo identificativo, campeggiava il logo del brand fornitore e, soprattutto, a differenza di quanto accedeva in passato, non era più la società sportiva a remunerare l’azienda fornitrice per far indossare le divise di propria produzione ai calciatori; tra i predetti primordiali indicatori, peraltro, meritano di essere menzionati il c.d. calciomercato[3], l’avvento dei c.d. procuratori sportivi (Agenti di calciatori)[4], la nascita dell’Associazione Italiana Calciatori (A.I.C.)[5], sino a giungere, come osservato, al decisivo impulso generato dalla promulgazione della L. n. 91/1981 che, anche in virtù delle integrazioni intervenute con la L. n. 586/1996, ha costituito il vero punto di partenza della successiva evoluzione del settore calcio dal punto di vista economico-finanziario, caratterizzato da ricavi sempre crescenti. Vedremo, però, come recita il noto adagio, che “non è tutto oro quello che luccica”.

[1] Originariamente denominata Federazione Italiana Football (F.I.F.), fu fondata il 16 marzo 1898 e conservò la denominazione sino al 1909. Il primo Presidente federale fu l’Ing. Mario Vicary.

In base allo Statuto vigente la F.I.G.C. é «associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato avente lo scopo di promuovere e disciplinare l’attività del giuoco del calcio e gli aspetti ad essa connessi» (art. 1, comma 1), nonché «associazione delle società e delle associazioni sportive (le “società”) che perseguono il fine di praticare il giuoco del calcio in Italia e degli altri organismi a essa affiliati che svolgono attività strumentali al perseguimento di tale fine» (art. 1, comma 2).

[2] Poco dopo la conclusione del Campionato del Mondo svoltosi in Italia nel 1990, il calciatore Jean Marc Bosman citava dinanzi al Tribunale di Liegi il F.C. Liegi (Belgio), nonché la Federazione calcistica belga, per aver impedito il suo trasferimento all’U.S.L. Dunkerque (Francia).

Il F.C. Liegi aveva proposto a Bosman di rinnovare il proprio contratto di prestazione sportiva giunto a scadenza, tuttavia, con riduzione dell’ingaggio.

Il calciatore rifiutava la proposta e addiveniva ad un accordo con l’U.S.L. Dunkerque, senza che, però, le due società sportive riuscissero a convenire sull’indennità destinata a quella di provenienza (F.C. Liegi) ai fini del perfezionamento del trasferimento del calciatore, il quale, suo malgrado, fu costretto all’inattività per una intera stagione sportiva, a causa del mancato accordo tra le due compagini.

La Corte d’appello di Liegi, con ordinanza del 1° ottobre 1993, si rivolgeva alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee perché si pronunciasse, pregiudizialmente, ai sensi e per gli effetti di cui all’epoca vigente art. 234 del Trattato CEE, in ordine alla compatibilità con il medesimo Trattato (sotto il profilo tanto della normativa antitrust quanto di quella sulla libera circolazione dei lavoratori) dei regolamenti calcistici nazionali e internazionali in materia di indennità di trasferimento.

L’organo giustiziale comunitario investito della questione, con provvedimento del 15 dicembre 1995, stabilì, in base all’art. 39 del Trattato CEE, in primo luogo, che le disposizioni regolamentari emanate dalle Federazioni Sportive Nazionali, per cui un calciatore professionista, cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società, potesse essere ingaggiato da una società sportiva appartenente ad altro Stato membro, solo se questa avesse corrisposto alla società di provenienza un’indennità di trasferimento, formazione e promozione, erano contrarie al principio di libera circolazione dei lavoratori a livello comunitario.

Inoltre, il medesimo provvedimento sancì la contrarietà alla libera circolazione dei lavoratori anche delle disposizioni regolamentari federali in base a cui le società calcistiche potevano schierare solo un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri in occasione dello svolgimento delle gare di campionato.

Oggi Jean Marc Bosman (46 anni), dalla cui vicenda ha tratto origine la storica sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (ora Corte di Giustizia Europea) che ha rivoluzionato il sistema dei trasferimenti dei calciatori, vive alla periferia di Liegi beneficiando soltanto di un modesto sussidio sociale pari a € 715,79 corrisposto dal Centre d’Aide Sociale.

[3] Con il termine “calciomercato” viene indicato, convenzionalmente, l’evento in occasione del quale vengono perfezionate le operazioni di trasferimento e/o tesseramento dei calciatori.

L’inventore del moderno “calciomercato” viene da sempre individuato nella figura del nobile palermitano Raimondo Lanza di Trabia, nei primi anni ‘50 anche Presidente del Palermo, noto per il fatto che, in sede di trattativa, accoglieva i colleghi Presidenti e i calciatori (non esisteva, all’epoca, la figura dell’Agente di calciatori) immerso nella vasca da bagno della suite n. 131 dell’Hotel Gallia di Milano, sorseggiando un aperitivo ghiacciato.

La normativa F.I.F.A. (art. 6, c. 2, Regolamento F.I.F.A. per lo Status e il Trasferimento dei Calciatori) impone a ciascuna Federazione calcistica nazionale di prevedere due distinti periodi, nell’arco di ciascuna stagione sportiva, in occasione dei quali devono essere effettuate le operazioni di trasferimento e/o tesseramento dei calciatori.

In particolare, é stabilito che il primo dei due periodi, la cui massima durata non può eccedere le 12 settimane, deve avere inizio a conclusione della stagione sportiva e terminare prima che abbia inizio quella successiva (sessione estiva che, per la stagione sportiva 2011/2012, ha avuto luogo dal 1° luglio 2011 al 31 agosto 2011), mentre il secondo deve essere fissato a metà della stagione sportiva (sessione invernale che, per la stagione sportiva 2011/2012, avrà luogo dal 3 gennaio 2012 al 31 gennaio 2012) e la relativa durata non può eccedere le 4 settimane (c.d. calciomercato di riparazione); peraltro, sino alla stagione sportiva 1993/1994 per le operazioni di trasferimento e/o di tesseramento dei calciatori era prevista anche una sessione autunnale (1° ottobre - 31 ottobre).

[4] Libero professionista, senza alcun vincolo associativo nei riguardi della F.I.G.C. o di società ad essa affiliate, il quale, previo rilascio della licenza da parte della F.I.G.C. medesima, all’esito di specifica prova di idoneità, assume la qualifica di “Agente di calciatori autorizzato dalla F.I.G.C.”.

L’Agente, che non può essere considerato, ad alcun titolo, tesserato F.I.G.C., in forza dell’incarico conferito, a titolo oneroso e in conformità del Regolamento Agenti, «cura e promuove i rapporti tra calciatore e società di calcio (professionistica) in vista della stipula di un contratto di prestazione sportiva, ovvero tra due società per la conclusione del trasferimento o la cessione di contratto di un calciatore nell’ambito di una Federazione o da una Federazione all’altra» (art. 3 Regolamento Agenti di Calciatori).

La F.I.F.A., di recente, mediante l’introduzione di nuove disposizioni regolamentari, aveva inteso eliminare, a far data dal mese di ottobre 2011 (inizialmente, mese di giugno 2011) la figura dell’Agente di calciatori a beneficio del ripristino di quella del c.d. Intermediario, quale persona fisica o giuridica liberamente eligibile dal calciatore professionista ai fini rappresentativi (anche senza obbligo di corrispondere il prezzo dell’opera, in ogni caso quantificabile non oltre la misura del 3% del compenso annuo lordo percepito dal calciatore professionista), indipendentemente dal possesso di una qualifica ad hoc e, addirittura, di una specifica competenza in materia.

Tuttavia, l’iniziativa versa in una situazione di stand by e non avrà sviluppi almeno sino alla conclusione del prossimo Congresso F.I.F.A. che si svolgerà a Budapest (Ungheria) il 24 e 25 maggio 2012 e che costituirà l’occasione, molto verosimilmente, per apportare significativi emendamenti alla originaria bozza di regolamento istitutivo della figura dell’Intermediario.

[5] L’A.I.C. é l’organismo di rappresentanza sindacale dei calciatori e delle calciatrici tesserati/e in forza a società sportive associate alle Leghe del settore professionistico e di quello dilettantistico (non professionistico), nonché di tutti i calciatori italiani tesserati per società sportive estere, sempre in ambito professionistico.

L’A.I.C. fu costituita nel 1968 per iniziativa di alcuni calciatori che concepirono l’idea di uno specifico organo sindacale in grado di rappresentare adeguatamente una figura sportiva non munita, all’epoca, di sufficienti e idonee tutele, assumendo, a tal fine, la veste di interlocutore principale nell’interesse degli associati nei rapporti con la F.I.G.C. e con le Leghe.

Tre sono gli scopi principali che l’A.I.C. persegue:

- la tutela degli interessi economici, professionali e morali degli associati;

- il potenziamento e il miglioramento delle condizioni di lavoro degli associati, avuto particolare riguardo alla salvaguardia della loro integrità fisica e della loro salute;

- la costante valorizzazione del prestigio della categoria attraverso l’innalzamento degli standards economici, professionali e culturali di ciascun associato.

L’adesione all’A.I.C. é subordinata all’inoltro di specifica domanda al Consiglio Direttivo e al pagamento della quota associativa annuale.

Presidente dell’A.I.C. é l’ex calciatore professionista Damiano Tommasi che ha assunto l’incarico il 9 maggio 2011 in sostituzione dello storico Presidente A.I.C., Avv. Sergio Campana.

La sede dell’A.I.C. è ubicata in – 36100 - Vicenza, Contrà delle Grazie n. 10 (tel. +39 0444 23323 - fax +39 0444 233250 - website: www.assocalciatori.it).