Edmund Burke (1729-1797) DIFESA DELLA SOCIETÀ NATURALE

L’esperto di leggi ha sue regole formali e le sue istituzioni positive, e le rispetta con una venerazione altrettanto religiosa. L’aver torto non arreca alle parti in causa tanto pregiudizio quanto il fatto che il loro avvocato o procuratore ignori o trascuri quelle regole formali. Un processo è come una disputa mal condotta, in cui si perde di vista l’oggetto del contendere e le parti finiscono con l’approdare a temi del tutto estranei all’argomento sul quale avevano cominciato a discutere. Chi ha diritti su una certa fattoria, o su una casa? Una tale questione viene risolta non sulla base di un evidente diritto, ma in baseall’osservanza o alla negligenza di certe formule in uso fra quei gentiluomini in toga, sulle quali, inoltre, c’è una tale discordia al loro interno che perfino i più esperti veterani della professione non possono mai garantire con sicurezza che non stanno commettendo errori.

Chiediamo a questi Soloni, a questi sacerdoti del sacro tempio della giustizia: siamo noi i giudici delle nostre proprietà? In nessun modo. Mi informerete, voi che siete addentro ai misteri della dea bendata, se ho diritto a mangiare il pane che ho guadagnato a rischio della vita o col sudore della fronte? Il bravo dottore in legge mi risponde di sì. Il famoso avvocato mi dice di no; il dotto avvocato che opera presso l’Alta Corte sviscera ogni aspetto delle due ipotesi, ma non giunge a nessuna conclusione. Che devo fare? Viene fuori un contendente, e mi incalza pericolosamente. Io scendo in campo e mi affido a quei tre esperti per difendere la mia causa. La mia causa, che due contadini avrebbero risolto in mezz’ ora, tiene occupata la Corte per vent’anni. Giungo in qualche modo alla fine del calvario, e a compenso di tutte le pene e le angherie sofferte ottengo una sentenza favorevole.

Ma, ahimè: un astuto condottiero dell’esercito dell’avversario ha trovato una falla nel procedimento. Il mio trionfo si muta in lutto. Io ho usato "o", invece di "e", oppure ho commesso un errore, apparentemente lieve, ma che ha terribili conseguenze, ed ho invalidato il mio successo per un errore di scrittura. Rinnovo la causa, passo da una Corte all’altra, dal giudizio secondo legge a quello secondo equità, e ancora dall’uno all’altro, e dovunque c’è la stessa incertezza, ed un errore di cui non ho colpa decide insieme della mia libertà e della mia proprietà, spedendomi dalla Corte alla prigione, e destinando la mia famiglia alla miseria e alla fame. Io non ho colpa, Signori, dell’oscurità e dell’ambiguità della vostra scienza. Non sono stato io a renderla oscura con idee confuse e contraddittorie, né l’ho resa confusa con sofismi e raggiri. Voi mi avete escluso dal dibattimento della mia causa; la scienza giuridica era troppo profonda per me; io lo riconoscevo; ma era troppo profonda anche per voi stessi: voi avete reso la strada così intricata che vi siete persi per primi; sbagliate voi, e punite me per i vostri errori.

[Liberilibri, Macerata, 1993, p. 44]

L’esperto di leggi ha sue regole formali e le sue istituzioni positive, e le rispetta con una venerazione altrettanto religiosa. L’aver torto non arreca alle parti in causa tanto pregiudizio quanto il fatto che il loro avvocato o procuratore ignori o trascuri quelle regole formali. Un processo è come una disputa mal condotta, in cui si perde di vista l’oggetto del contendere e le parti finiscono con l’approdare a temi del tutto estranei all’argomento sul quale avevano cominciato a discutere. Chi ha diritti su una certa fattoria, o su una casa? Una tale questione viene risolta non sulla base di un evidente diritto, ma in baseall’osservanza o alla negligenza di certe formule in uso fra quei gentiluomini in toga, sulle quali, inoltre, c’è una tale discordia al loro interno che perfino i più esperti veterani della professione non possono mai garantire con sicurezza che non stanno commettendo errori.

Chiediamo a questi Soloni, a questi sacerdoti del sacro tempio della giustizia: siamo noi i giudici delle nostre proprietà? In nessun modo. Mi informerete, voi che siete addentro ai misteri della dea bendata, se ho diritto a mangiare il pane che ho guadagnato a rischio della vita o col sudore della fronte? Il bravo dottore in legge mi risponde di sì. Il famoso avvocato mi dice di no; il dotto avvocato che opera presso l’Alta Corte sviscera ogni aspetto delle due ipotesi, ma non giunge a nessuna conclusione. Che devo fare? Viene fuori un contendente, e mi incalza pericolosamente. Io scendo in campo e mi affido a quei tre esperti per difendere la mia causa. La mia causa, che due contadini avrebbero risolto in mezz’ ora, tiene occupata la Corte per vent’anni. Giungo in qualche modo alla fine del calvario, e a compenso di tutte le pene e le angherie sofferte ottengo una sentenza favorevole.

Ma, ahimè: un astuto condottiero dell’esercito dell’avversario ha trovato una falla nel procedimento. Il mio trionfo si muta in lutto. Io ho usato "o", invece di "e", oppure ho commesso un errore, apparentemente lieve, ma che ha terribili conseguenze, ed ho invalidato il mio successo per un errore di scrittura. Rinnovo la causa, passo da una Corte all’altra, dal giudizio secondo legge a quello secondo equità, e ancora dall’uno all’altro, e dovunque c’è la stessa incertezza, ed un errore di cui non ho colpa decide insieme della mia libertà e della mia proprietà, spedendomi dalla Corte alla prigione, e destinando la mia famiglia alla miseria e alla fame. Io non ho colpa, Signori, dell’oscurità e dell’ambiguità della vostra scienza. Non sono stato io a renderla oscura con idee confuse e contraddittorie, né l’ho resa confusa con sofismi e raggiri. Voi mi avete escluso dal dibattimento della mia causa; la scienza giuridica era troppo profonda per me; io lo riconoscevo; ma era troppo profonda anche per voi stessi: voi avete reso la strada così intricata che vi siete persi per primi; sbagliate voi, e punite me per i vostri errori.

[Liberilibri, Macerata, 1993, p. 44]