Giuseppe Rovani: l’avvocatessa Falchi

Giuseppe Rovani: l’avvocatessa Falchi
Giuseppe Rovani: l’avvocatessa Falchi

III

Quando il duca Litta mandò a invitare per la grande caccia da darsi presso la villa di Lainate, quanti conoscenti patrizj e non patrizj aveva in Milano, si dimenticò, o espressamente omise di comprendervi l'avvocato Falchi con sua moglie, quantunque li conoscesse assai bene.

Siccome gl'inviti furono mandati fuori molti giorni prima, e l'avvocatessa potè vederne alcuni, ella salì in furore per essere stata dimenticata; ed a questo punto giova che il lettore abbia una idea dell'indole di una tal donna.

L'ambizione di lei era di quella natura che non riposa mai, nè si accontenta di un ordine solo di cose. Ella pretendeva di essere la più bella, voleva essere la più corteggiata, ambiva d'essere la più ricca; voleva essere tutto e comandare in tutto. Dava consigli al marito, e guai se non l'obbediva; e il marito, che era volpe e lupo, faceva qualche volta anche l'asino, ostentando di adattarsi a fare assai cose per un'eccessiva condiscendenza alla moglie, ma in fatto, perché eran atti che gli piacevano, atti d'avidità e rapacità; ella dava consigli anche non pregata, anche allorquando era scansata, a quanti le andavano per casa.

Se poi qualcheduno aveva avuto con essa e coll'avvocato qualche rapporto d'interesse, di clientela, di sudditanza, comandata dalla necessità degli affari, ella era la padrona di tutti loro, faceva la padrona in tutte le loro famiglie; negava l'assenso ai matrimonj, imponeva ella le mogli; teneva la giurisdizione persino sulle vesti e sulle foggie. Conoscere l'avvocatessa Falchi significava aver rinunziato alla libertà personale.

Siccome però era stata assai bella, bella nel senso mercantile e carnoso, non già nella sfera dell'accademia e dell'arte, ed era ancor bella, e veniva molto corteggiata; così quando la sua vanità e i suoi appetiti venivano lusingati e soddisfatti, aveva dei momenti di lieto umore, ed anche, ma questo avvenne rarissime volte, qualche lampo di bontà, di generosità, di cortesia. Appena però la si contrariasse, diventava a un tratto una tigre reale ferocissima, di quelle del Senegal. Anche il marito aveva un bel da fare in quei giorni per sopportare quel temporale in casa. Persino il ministro Prina, che era di Novara, come l'avvocato, ed era suo intrinseco, e frequentava quotidiano quella casa, e perché aveva molti affari con lui, e perché anche si giovava dell'acutezza pratica di quell'uomo, spesse volte ebbe a subire le tempeste dell'avvocatessa, che, da uomo di mondo e da uomo superiore, sopportava e compativa, ed anche derideva.

Questa donna singolare era stata sposata in seconde nozze dall'avvocato Falchi, auspici l'avvocato Prina appunto e l'avvocato conte Gambarana. Il Falchi fece passar brevi ma amarissimi giorni alla prima moglie, che era nativa del Genovesato, e che gli avea recate in dote lire d'Italia trecentomila, la spina dorsale deviata, e quella bontà che deriva dalla natura e si fortifica cogli abiti religiosi. Quantunque non si possa ben asserire, pare però che l'avvocato Falchi abbia avuta l'intenzione, fin dal giorno che accettò quel partito, di svincolare le lire trecentomila dalla servitù della rachitide e dalla noja delle giaculatorie. Quando un uomo giovine sposa per la dote una vecchia o una rachitica, si può giurare che quell'uomo è perverso. Intanto che all'altare, in abito festivo, mette l'anello in dito alla compagna, e ode dal curato la figura rettorica del crescite, egli pensa già ai buoni servigi della morte, e in quel crescite mendace sente invece in embrione il requiem æternam. Questo sia detto in via di passaggio, come diciamo di passaggio che la morte fu lesta a servire l'avvocato Falchi, quasi avesse ricevuto una mancia anticipata.

È un fatto strano, ma pur degno della riflessione dei legislatori, che dalla casa della maggior parte di coloro che sposano per la dote una donna o vecchia o deforme, in pochissimo tempo la donna scompare. Noi abbiamo conosciuta una mezza dozzina di cacciatori di doti, che arrivarono giovani ancora alla seconda od alla terza moglie. Sarà una combinazione, sarà un fenomeno puro e semplice; ma, a buoni conti, se noi avessimo una sorella od una figlia, ci guarderemmo bene di gettarla alle bramose canne di questi galantuomini, al cui confronto noi sentiamo quasi una certa simpatia pei famigerati Scorlini.

Vivente ancora la prima moglie, l'avvocato Falchi avea adocchiato sulle rive del Verbano quella che diventò poi la seconda, la quale, a soli quindici anni, veniva già chiamata quella bella giovinotta, alta qual'era e rigogliosa e densa e proterva, e che aveva già tenuta a bada la sua mezza dozzina di amanti. L'avvocato se ne invaghì, e appena fu libero la sposò. Era il rovescio della medaglia della sua prima moglie; era una tacchina grassa e appetitosa e fragrante di rosmarino, in confronto di un osso già gettato a' cani. Il dì delle nozze, la combinazione volle ch'egli in un affare guadagnasse trenta mila lire italiane per fortuito intervento della sposa. La freschezza, i fianchi baldanzosi, la petulanza allettatrice di lei, e quella specie di buon augurio ch'entrò seco in casa, fecero sì ch'ei si gettasse corpo ed anima, per allora e per sempre, nelle ampie sue braccia. Per dare un'idea del genere d'accordo che passò sempre tra l'avvocato Falchi e la nuova moglie, la quale dalla sua ciarla perpetua e dal suo ficcar il naso in tutto, venne dai conoscenti cognominata l'avvocatessa, noi non possiamo che richiamare alla memoria dei lettori i coniugi Macbeth; con questa differenza, che se lady Macbeth per riuscire nei suoi intenti ebbe l'ajuto di Ecate e di tre streghe, l'avvocatessa Falchi fece anche la parte delle streghe di Ecate.

Ora è da ricordare un fatto. Nel primo anno che il principe Beauharnais fu installato vicerè d'Italia, e cominciò, nel tempo che risiedeva in Milano, quel sistema di vita discola e donnajola che, grado grado, doveva poi addensargli contro tanti nemici, ebbe ad adocchiare anche l'avvocatessa Falchi. Allora ella poteva contare ventinove anni, ed era nel massimo fiore della sua beltà da baccante, senza linee greche, nè etrusche; linee, come tutti sanno, caste e severe, e che non possono far nascere che amori seri; ma pomposa invece di quelle forme portate dall'arte carnale della decadenza; la quale se sarebbe fuor di posto nei riti di Vesta, potrebbe fare da frontispizio ad una illustrazione delle feste lupercali. Il vicerè dunque la adocchiò e l'avvicinò, ed ella, quantunque fosse orgogliosa come una Gezabele, fu benigna e cortese con quell'Acabbo, gran cordone della Legion d'onore e della Corona ferrea. Che a lei piacesse il vicerè, come uomo, come giovane, come cavaliere, nessuno lo voglia credere. Ella sorrise al vicerè perché era il vicerè, senza considerare che avesse piuttosto ventiquattr'anni che sessanta. Il vicerè poteva essere cagione che la ricchezza già considerevole dell'avvocato Falchi crescesse a dismisura. Per suo mezzo infatti, nella compra e vendita di beni nazionali, nel giro delle carte pubbliche, negli appalti, l'amicizia del vicerè equivalse ad una lauta eredità.

Il Falchi era un po' geloso di sua moglie; specialmente se i giovinotti, per cui ella poteva avere qualche debolezza, non presentavano alcuna speranza di speculazione, nè assomigliavano a carte di rendita, nè a beni demaniali. Però, quando si accorse che le maritali corna potevano fruttare qualche migliajo di pertiche di prati irrigatorj, egli tosto offerse il fenomeno di un amore eccezionale, di un amore cioè che cresce col cessare della gelosia. Lasciò pertanto andare, chiuse un occhio, anzi tutti e due, e solo si accinse a cavare il maggior profitto possibile da quella nuova posizione. Tutto questo in quanto ai conjugi; in quanto al vicerè è facile comprendere com'egli non desse nessuna importanza a quella relazione, come per conseguenza, placato il capriccio e satollato a piena gola, sentisse tedio di quella vivanda più nutriente che pruriginosa. La Falchi, insieme al pensiero dell'utile che potea ritrarre dai rapporti col vicerè, si sentiva anche lusingata dalla vanità. Ella non aveva avuta nessuna educazione squisita, e la sua stoffa morale era volgarissima; simili nature sentono la vanità più di tutte; a lei pareva di essere la viceregina. Benchè tanto astuta e perversa, convien confessare che in ciò era stolida la sua parte. Pavoneggiandosi dunque come se fosse una viceregina, non pensava a quel che era davvero, a quel che si diceva di lei, alla trista figura che faceva il suo signor marito. Una donna volgare amoreggiata da un alto personaggio, da un vicerè, da un imperatore, al giudizio degli uomini onesti appar più triviale e disonorata che se fosse amoreggiata da tutt'altra persona.

[Giuseppe Rovani, Cent’anni, Libro decimoquinto, tratto da www.liberliber.it]