Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) LA GIOIA E LA LEGGE

La moglie uscì dalla cucina, in una vestaglia celeste segnata dalla fuliggine delle pentole, con le piccole mani arrossate dalle risciacquature posate sul ventre deformato dai parti. I bimbi col moccio al naso si stringevano attorno al monumento roseo, e squittivano senza ardire toccarlo.

"Bravo! e lo stipendio lo hai portato? Non ho più una lira, io. "Eccolo, cara; tengo per me soltanto gli spiccioli, duecentoquarantacinque lire. Ma guarda che grazia di Dio!"

Era stata carina Maria e fino a qualche anno fa aveva avuto un musetto arguto, illuminato dagli occhi capricciosi. Adesso le beghe con i bottegai avevano arrochito la sua voce, i cattivi cibi guastato la sua carnagione, lo scrutare incessante di un avvenire carico di nebbie e di scogli spento il lustro degli occhi. In lei sopravviveva soltanto un’anima santa, quindi inflessibile e priva di tenerezza, una bontà profonda costretta ad esprimersi con rimbrotti e divieti; ed anche un orgoglio di casta mortificato ma tenace, perché essa era nipote di un grande cappellaio di via Indipendenza e disprezzava le non omologhe origini del suo Girolamo che poi adorava come si adora un bimbo stupido ma caro.

Lo sguardo di lei scivolò indifferente sul cartone adorno. "Molto bene. Domani lo manderemo all’avvocato Risma, al quale siamo molto obbligati."

L’avvocato, due anni fa, aveva incaricato lui di un complicato lavoro contabile, e, oltre ad averlo pagato, li aveva invitati ambedue a pranzo nel proprio appartamento astrattista e metallico nel quale il ragioniere aveva sofferto come un cane per via delle scarpe comprate apposta. E adesso per questo legale che non aveva bisogno di niente, la sua Maria, il suo Andrea, il suo Saverio, la piccola Giuseppina, lui stesso, dovevano rinunziare all’unico filone di abbondanza scavato in tanti anni!

Corse in cucina, prese un coltello e si slanciò a tagliare i fili dorati che un’industre operaia milanese aveva bellamente annodato attorno all’involucro; ma una mano arrossata gli toccò stancamente la spalla: "Girolamo, non fare il bambino. Lo sai che dobbiamo disobbligarci con Risma."

Parlava la Legge, la Legge emanata dai cappellai intemerati.

"Ma cara, questo è un premio, un attestato di merito, una prova di considerazione!"

"Lascia stare. Bella gente quei tuoi colleghi per i sentimenti delicati! Una elemosina, Girò, nient’altro che un’elemosina." Lo chiamava col vecchio nome di affetto, gli sorrideva con gli occhi nei quali lui solo poteva rintracciare gli antichi incanti.

"Domani comprerò un altro panettone piccolino, per noi basterà; e quattro di quelle candele rosse a turabusciò che sono esposte alla Standa; così sarà festa grande."

Il giorno dopo, infatti, lui acquistò un panettoncino anonimo, non quattro ma due delle stupefacenti candelle e, per mezzo di un’agenzia, mandò il mastodonte all’avvocato Risma, il che gli costò altre duecento lire.

Dopo Natale, del resto, fu costretto a comprare un terzo dolce che, mimetizzato in fette, dovette portare ai colleghi che lo avevano preso in giro perché non aveva dato loro neppure un briciolo della preda suntuosa.

Si recò all’agenzia "Fulmine" per reclamare. Gli venne mostrato con disprezzo il registrino delle ricevute sul quale il domestico dell’avvocato aveva firmato a rovescio. Dopo l’Epifania però arrivò un biglietto da visita "con vivissimi ringraziamenti ed auguri".

L’onore era stato salvato.

La moglie uscì dalla cucina, in una vestaglia celeste segnata dalla fuliggine delle pentole, con le piccole mani arrossate dalle risciacquature posate sul ventre deformato dai parti. I bimbi col moccio al naso si stringevano attorno al monumento roseo, e squittivano senza ardire toccarlo.

"Bravo! e lo stipendio lo hai portato? Non ho più una lira, io. "Eccolo, cara; tengo per me soltanto gli spiccioli, duecentoquarantacinque lire. Ma guarda che grazia di Dio!"

Era stata carina Maria e fino a qualche anno fa aveva avuto un musetto arguto, illuminato dagli occhi capricciosi. Adesso le beghe con i bottegai avevano arrochito la sua voce, i cattivi cibi guastato la sua carnagione, lo scrutare incessante di un avvenire carico di nebbie e di scogli spento il lustro degli occhi. In lei sopravviveva soltanto un’anima santa, quindi inflessibile e priva di tenerezza, una bontà profonda costretta ad esprimersi con rimbrotti e divieti; ed anche un orgoglio di casta mortificato ma tenace, perché essa era nipote di un grande cappellaio di via Indipendenza e disprezzava le non omologhe origini del suo Girolamo che poi adorava come si adora un bimbo stupido ma caro.

Lo sguardo di lei scivolò indifferente sul cartone adorno. "Molto bene. Domani lo manderemo all’avvocato Risma, al quale siamo molto obbligati."

L’avvocato, due anni fa, aveva incaricato lui di un complicato lavoro contabile, e, oltre ad averlo pagato, li aveva invitati ambedue a pranzo nel proprio appartamento astrattista e metallico nel quale il ragioniere aveva sofferto come un cane per via delle scarpe comprate apposta. E adesso per questo legale che non aveva bisogno di niente, la sua Maria, il suo Andrea, il suo Saverio, la piccola Giuseppina, lui stesso, dovevano rinunziare all’unico filone di abbondanza scavato in tanti anni!

Corse in cucina, prese un coltello e si slanciò a tagliare i fili dorati che un’industre operaia milanese aveva bellamente annodato attorno all’involucro; ma una mano arrossata gli toccò stancamente la spalla: "Girolamo, non fare il bambino. Lo sai che dobbiamo disobbligarci con Risma."

Parlava la Legge, la Legge emanata dai cappellai intemerati.

"Ma cara, questo è un premio, un attestato di merito, una prova di considerazione!"

"Lascia stare. Bella gente quei tuoi colleghi per i sentimenti delicati! Una elemosina, Girò, nient’altro che un’elemosina." Lo chiamava col vecchio nome di affetto, gli sorrideva con gli occhi nei quali lui solo poteva rintracciare gli antichi incanti.

"Domani comprerò un altro panettone piccolino, per noi basterà; e quattro di quelle candele rosse a turabusciò che sono esposte alla Standa; così sarà festa grande."

Il giorno dopo, infatti, lui acquistò un panettoncino anonimo, non quattro ma due delle stupefacenti candelle e, per mezzo di un’agenzia, mandò il mastodonte all’avvocato Risma, il che gli costò altre duecento lire.

Dopo Natale, del resto, fu costretto a comprare un terzo dolce che, mimetizzato in fette, dovette portare ai colleghi che lo avevano preso in giro perché non aveva dato loro neppure un briciolo della preda suntuosa.

Si recò all’agenzia "Fulmine" per reclamare. Gli venne mostrato con disprezzo il registrino delle ricevute sul quale il domestico dell’avvocato aveva firmato a rovescio. Dopo l’Epifania però arrivò un biglietto da visita "con vivissimi ringraziamenti ed auguri".

L’onore era stato salvato.