Il Resto del Carlino, 27 Dicembre 1899: Le donne e l'avvocatura

L'onorevole Socci, che già nella discussione del bilancio di grazia e giustizia nello scorso anno aveva spezzato una lancia in favore delle donne alle quali si contende al diritto d'esercitare l'avvocatura, è ritornato quest'anno alla carica dando una nuova botta nello stesso piastrone femminino.

Ma la risposta dell'attuale ministro fu anche peggiore di quella del ministro passato.

Quello rispose che i costumi in Italia non erano maturi per affidare alle donne il ministero della difesa; questo disse di non poter «consentire alla donna l'esercizio dell'avvocatura, non foss'altro per non esporre la parte più gentile del genere umano alle dure lotte per l'esistenza».

Una risposta che vorrebbe essere una spiritosità ed è invece un giro vizioso di frase e di pensiero che non fa troppo onore al senno e alla logica ministeriale.

La Camera, coerente a sè stessa, ribadì a grande maggioranza il voto negativo dato nello scorso anno.

La spiritosità del ministro, aveva trovato il suo pubblico!

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Non ci è questione per seria che sia che non si possa screditare col ridicolo se essa offre i fianco alla barzellelta, genere apprezzato non solo nel giornalismo, ma anche nel mondo ufficiale della politica.

È questa appunto la sventura delle donne laureate in legge reclamanti il diritto d'esercitare l'avvocatura.

Il tema si prestava allo spirito e ciò bastò perché non si badasse più alle ragioni giuridico, sociali che militivano in loro favore per correre dietro ai quadrettini di farsa della giovane avvocatessa che fa l'occhietto al presidente, mentre di sotto al banco giuoca una gaudiosa partita di pizzicotti coi colleghi della difesa, quasi che per il solo fatto d'indossare la toga le donne devano perdere ogni ritegno e gli uomini ogni principio d'educazione.

Per carità, colleghi miei in avvocatura ed in sesso, non ci facciamo di questi torti!

Diversamente – per essere logici – dovremmo scacciare le donne dalle scuole dove si distinguono e dagli uffici postali, telegrafici e telefonici dove prestano diligente e intelligente servizio.

Io non contesto che la donna sotto la toga possa non piacere alla maggioranza degli uomini; ma questa è cosa che riguarda lei.

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Socialmente parlando, la donna-avvocato non si troverà punto in diversa condizione delle medichesse e delle professoresse, nè l'ambiente dei tribunali è molto più scorso di un camerone di ospedale o di una sala studi. D'altronde non siamo noi i custodi della pulizia delle sue gonnelle, pensi lei a tirarsele su negli ambienti non puliti.

La signorina Lidia Poet di Pinerolo, l'unico esempio in Italia di donna che eserciti l'avvocatura, per quanto non iscritta in nessun albo, la esercita con tanto decoro e tanta nobiltà da rendersi modello di correttezza professionale.

Non facciamo, dunque, distinzioni di sesso nell'esercizio dell'avvocatura.

Se poi mi si dirà che la leggiadria della donna-avvocato può far pendere la bilancia della giustizia dalla parte della graziosa postulante, rispondo che se il magistrato giudicante ha certe debolezze, povero lui e povera giustizia, perché non vi ha causa in cui o direttamente o indirettamentenon entri la donna. Per tali magistrati sui quali possono far presa la donna e i danari, più seduttori ancora della donna, c'è il codice penale.

Questi, d'altronde, saranno argomenti buoni per un articolo brillante, ma non possono avere peso alcuno in un tema giuridico della più alta importanza sui diritti sociali della donna di fronte alla legge.

Tutti gli argomenti d'indole sociale, sulla convenienza, sul decoro ecc. ecc. si spuntano di fronte ad un articolo dello Statuto.

«Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo» e grado sono uguali di fronte alla legge.»

E lo Statuto non fa distinzione di regnicoli maschi e regnicoli femmine.

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In Francia nel caso della signorina Chauvin il buon diritto delle donne ha trionfato. Essa, non ostante le opposizioni del Procuratore Generale alla sua inscrizione, venne inserita nell'albo.

In Italia la questione ha una data più antica. Essa fu discussa sin dall'83 in seguito a domanda della signorina Poet di essere inscritta nell'albo degli avvocati.

E fu quella l'unica volta in cui si tentò, da parte della Corte d'Appello davanti a cui fu portata la questione, di opporre ragioni giuridiche ai giusti diritti della donna; ma quelle ragioni apparvero così sballate da bastare da sole a dar ragione alle gentili avversarie.

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La corte dovette partire da un principio falso che cioè l'avvocatura è un ufficio pubblico per giungere ad una conclusione più falsa ancora, che la donna non è ammessa agli uffici pubblici.

Affermò la Corte che l'avvocatura e ufficio pubblico... perché in certi casi l'avvocato non può rifiutare l'opera sua, quasi che il medico e il farmacista non si trovino in uguale condizione dell'avvocato di non potere rifiutare l'opera loro in certi casi, pur non essendo ufficiali pubblici.

Del resto è principio indiscusso di diritto, stabilito da costante giurisprudenza che l'avvocato non è ufficiale pubblico.

Affermata una premessa falsa, la Corte venne alla conclusione che le donne non sono «ammesse agli uffici pubblici perché... non trovasi nella nostra legge positiva alcuna disposizione la quale in modo esplicito ed espresso acconsenta alla donna l'esercizio dell'avvocatura» quasi che non sia lecito tutto ciò che dalla legge non è proibito.

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Ma la Corte, vedendo che le mancavano gli argomenti serii nella nostra legge positiva, andò a cercarli nientemeno che nel diritto romano, risalendo sino ad Ulpiano che dettò leggi sotto Caracalla ed Eliogabalo, esumando un certo editto contro le donne avvocate di quel tempo, promulgato per colpa di una certa Carftania improbissima foenina la quale, per quanto brutta, inverecunde postulans «inquietava» il magistrato Digesto libro III, titolo I.

Ma volendo applicare il diritto romano – De postulando – nei nostri tempi, bisognerebbe per essere coerenti proibire l'esercizio dell'avvocatura anche nei ciechi come presso i romani, perché il cieco non poteva vedere le insegne del magistrato et revereri non possit.

Ho voluto seguire rapidamente i così detti argomenti giuridici della Corte per mostrare a quali aberrazioni si giunga quando avendo torto si vuole a tutti i costi provare di aver ragione.

Dunque, se la donna avvocato non vi garba e non vi pare rispondente ancora al nostro gradp di progresso, provvedete con apposita legge che la respinga dall'esercizio dell'avvocatura, ma non pretendiate di negarle un diritto che la nostra legge positiva le dà.

[Le donne e l'avvocatura, Il Resto del Carlino, 27 Dicembre 1899]