Il ruolo della fattispecie contrattuale nell’illecito penale, con particolare riferimento al reato di usura
Il ruolo della fattispecie contrattuale nell’illecito penale, con particolare riferimento al reato di usura
A differenza del codice penale, quello civile non conosce l’usura come fenomeno unitario e non ne definisce in modo univoco la fattispecie. Occorrerà quindi far riferimento all’articolata dottrina concernente in generale i rapporti tra la fattispecie penale e la disciplina civilistica della patologia negoziale, dovendosi analizzare sia le norme civilistiche legate alla nullità e annullabilità del contratto (artt. 1418 e ss. cod. civ.), sia quelle penali generali e speciali (artt. 110, 629, 640, 643 e 648 cod. pen.). L’accostamento tra contratto e fattispecie penale genera una serie di problemi, il più rilevante dei quali è quello di verificare se l’invalidità del contratto, o più latamente le figure della patologia negoziale, incidano o meno sull’esistenza dell’illecito penale.
A maggior ragione tali problematiche ben si attagliano al delitto di usura, fenomeno antico che risale sia alla cultura greca che romana e riconducibile a chiunque prestasse denaro dietro interesse, il cui elemento caratterizzante consiste in un comportamento diretto ad operare sulla determinazione della volontà del contraente bisognoso, a differenza della fattispecie civilistica della rescissione del contratto per lesione, nella quale l’elemento sufficiente è la semplice consapevolezza da parte del contraente avvantaggiato di trarre una sproporzionata utilità economica in conseguenza dello stato di bisogno della controparte. Il delitto di usura, forma particolare di contratto concluso da un contraente debole (in posizione diversa da quella del consumatore), può consumarsi sia attraverso un contratto di mutuo, sia mediante qualsiasi altro contratto, anche preliminare, che importi il trasferimento di diritti o l’assunzione di obblighi verso un dato corrispettivo, sempre che si desuma l’intenzione dell’agente di farsi dare o promettere, approfittando dell’altrui stato di bisogno, interessi o altri vantaggi usurari. All’indomani della novella del 1996, come si vedrà anche in seguito, la sopravvenuta diversità strutturale tra norma civile e norma penale ha spostato l’attenzione degli interpreti dal rimedio della rescissione a quello della nullità del patto usurario, ma per ben comprendere tale questione è preliminare l’analisi delle fattispecie reati contratto e reati in contratto.
In primis, i possibili rapporti tra reato e contratto sono sussumibili in quattro categorie:
1) reati che presuppongono un contratto;
2) reati che consistono nella conclusione di un contratto (c.d. reati contratto);
3) reati commessi nella conclusione di un contratto (c.d. reati in contratto);
4) reati commessi nell’esecuzione di un contratto.
Quel che interessa la presente trattazione sono la seconda e terza fattispecie: i reati contratto sono quelli in cui la consumazione degli stessi avviene con la stipulazione dell’accordo (es. la ricettazione), mentre i reati in contratto sono quelli per cui la legge punisce il comportamento tenuto da uno dei due contraenti in una fase antecedente al raggiungimento dell’accordo.
Con i reati contratto (reati da considerarsi plurisoggettivi necessari) il legislatore ha inteso incriminare la stipulazione dell’accordo, non la sua esecuzione, per cui la condotta tipica che viene in evidenza è descritta in termini civilistici. Con i reati in contratto (da considerarsi plurisoggettivi impropri) si è voluta al contrario incriminare non la stipulazione, ma la condotta tenuta dal soggetto attivo nella fase delle trattative antecedente la manifestazione di volontà dei due contraenti, per cui la condotta della vittima entra a far parte del reato come “artificiosa”. Giova fin d’ora precisare che con la normativa ante 1996 l’usura, che era stata già oggetto di un primo intervento riformativo con d.l. 1992/306, veniva ricondotta a tale ultima fattispecie (reati in contratto): la legge 1996/108 ha stabilito infatti che il momento consumativo del reato si verifica quando si perfeziona la fattispecie negoziale a contenuto usurario, trasformando con ciò il reato da reato in contratto a reato contratto, la cui stipula è ciò che il legislatore intende appunto evitare. Da ciò consegue che il contratto potrebbe essere considerato invalido anche in base alla previsione della c.d. nullità virtuale di cui all’art. 1418, comma 1, cod. civ.
Le tesi elaborate dalla dottrina per la trattazione delle figure reati contratto e reati in contratto, e che tentano di risolvere il problema della rilevanza penale dell’invalidità del contratto, sono sostanzialmente tre: a) la tesi pancivilistica; 2) la tesi autonomistica; 3) la tesi intermedia.
La prima sostiene circa i reati contratto che la condotta punita consiste proprio nella conclusione di un contratto e quindi solo nell’incontro delle volontà manifestate, senza che sia necessaria un’attività in esecuzione del contratto stesso: ne consegue che le categorie della nullità, dell’inesistenza, dell’annullabilità del contratto incidono sulla fattispecie penale escludendone la sussistenza o degradandola alla categoria del tentativo. La critica a questa tesi si basa sulla considerazione che non sempre il reato sussiste anche in presenza di un negozio invalido o viziato (ad es. un contratto nullo per inesistenza dell’oggetto o un errore essenziale sull’oggetto del contratto). Circa i reati in contratto essa distingue la natura del vizio che incide sull’atto: la nullità o l’inesistenza del contratto (ad eccezione dei casi di conversione del negozio ex art. 1424 cod. civ. che lo renderebbero improduttivo di effetti determinando l’inesistenza del reato). Qui la critica evidenzia come accogliendo tale orientamento, non si punirebbero tutti quei casi in cui il bene della vittima è transitato nella disponibilità del reo, senza che si sia concluso un contratto valido e inoltre il concetto di patrimonio giuridico viene troppo circoscritto limitandolo a diritti e obblighi derivanti dal negozio, non tenendo conto delle possibili alterazioni del rapporto giuridico con la cosa in senso sfavorevole alla vittima anche nelle ipotesi di negozio nullo.
La seconda sostiene, circa i reati contratto, l’assoluta autonomia del diritto penale dal diritto civile con la conseguenza che la nozione di reato contratto è del tutto sganciata dalla corrispondente figura civile del negozio, pertanto ad eccezione di alcuni casi di inesistenza del negozio il cui verificarsi esclude la sussistenza del reato, le cause di invalidità del contratto sono ininfluenti per l’esistenza del reato. Circa i reati in contratto essa sostiene che tanto le cause di nullità che quelle di annullabilità sarebbero irrilevanti ai fini della sussistenza del reato. Obiezioni a questa teoria evidenziano come:
- non sempre la nullità del contratto determini l’inesistenza del reato (basti pensare alla nullità per motivo illecito o all’apposizione di una condizione sospensiva meramente potestativa che non incide sulla sussistenza dell’illecito penale);
- la tesi confonde la nullità, così come sancita dagli artt. 1418 e ss. cod. civ., con l’incompiutezza, che si verifica allorquando il contratto non è ancora perfezionato, difettando uno dei suoi elementi costitutivi, che arriverebbe a configurare ipotesi di delitto tentato in caso di nullità;
- alla stessa stregua non sempre l’annullabilità è irrilevante ai fini della sussistenza del reato, come accade nei vizi del consenso: se il vizio incide sul processo di formazione della volontà del contraente non punito, esso sarà irrilevante; se viceversa incide sul soggetto incriminato, sarà esclusa la sussistenza del reato.
Ed è proprio questa ultima obiezione che si coglie la differenza tra sistema penale e civile, sul terreno dell’annullabilità per vizio del consenso: nel sistema penale l’elemento soggettivo è strettamente correlato all’esigenza della responsabilità penale personale; nel sistema civilistico la volontà dell’atto è richiesta ai fini dell’efficacia dello stesso. Sui reati in contratto, l’affermazione circa l’irrilevanza delle cause di nullità e di annullabilità ai fini della sussistenza del reato si presta alle stesse critiche mosse alla teoria pancivilistica.
Infine la c.d. teoria intermedia, partendo dallo studio della struttura dei reati contratto, afferma che non possa costruirsi una categoria unitaria di tali reati avuto riguardo alla rilevanza penale del comportamento sanzionato: in alcune ipotesi il divieto penale si appunta sulla conclusione del contratto, in altri sulla attuazione delle finalità pratiche del contratto richiamato.
Ne consegue che dovrà stabilirsi di volta in volta quali vizi del contratto incidano sotto il profilo oggettivo e soggettivo, sulla tipicità del fatto, sulla suitas della condotta, sulla colpevolezza del soggetto agente, sulla prestazione oggetto del divieto penale - impedendone ab origine l’esecuzione, sull’elemento oggettivo del reato nel suo profilo negativo - integrando una causa di giustificazione: in pratica occorrerà di volta in volta verificare la corrispondenza o la divergenza tra gli elementi costitutivi del reato e quelli del contratto, per comprendere quali vizi del contratto incidono sull’esistenza del reato, escludendone la tipicità e quali cause di nullità e/o annullabilità mantengono, invece, inalterata la sussistenza del delitto.
Quanto ai reati in contratto, partendo dalla plurioffensività di questi, in quanto lesivi del patrimonio e della libertà personale del soggetto passivo, tale teoria li scompone in tre elementi: mezzo illecito (strumento con cui il soggetto incriminato ottiene il consenso e l’artificiosa cooperazione del soggetto passivo); la disposizione patrimoniale del soggetto passivo (requisito implicito o esplicito del reato) e il danno patrimoniale subìto dallo stesso (richiesto come requisito di perfezionamento della fattispecie). Circa il mezzo illecito, il problema è individuare in che misura il comportamento penalmente rilevante possa identificarsi con la stipulazione del contratto e quindi come si atteggia il mezzo illecito utilizzato dal soggetto attivo rispetto agli elementi privatistici. Circa la disposizione patrimoniale essendo necessario nei reati in contratto il consenso della vittima del reato, se questo manca del tutto vi sarà nullità del contratto e al contempo e assenza di reato in contratto, al massimo si realizzerà un mutamento del titolo del reato. Infine per quel che riguarda il danno patrimoniale vanno di fatto affrontati due problemi: 1) quali sono i vizi del negozio che determinano l’insussistenza del danno, con conseguente esclusione del reato e 2) successivamente, se il momento perfezionativo della fattispecie coincide con il sorgere dell’obbligazione contrattuale.
La dottrina che aderisce alla tesi intermedia afferma che tale elemento implica una distinzione tra reato e negozio invalido: mentre il contratto si perfeziona con lo scambio di proposta e accettazione conforme alla proposta, il reato si perfeziona invece con l’esecuzione della prestazione che arreca un danno patrimoniale alla vittima; sicché i vizi del contratto incideranno sulla prestazione svantaggiosa per il soggetto passivo del reato non implicando il danno ed escluderanno il reato; infatti in tale ipotesi la nullità derivante dall’indeterminatezza della prestazione, dalla sua impossibilità, dalla carenza della stessa, non consentendo il danno patrimoniale, renderà atipico il comportamento rispetto alla fattispecie incriminatrice.
La nuova disciplina dell’usura (legge 1996/198) ad avviso della dottrina non sembra aver risolto i problemi di coordinamento tra regime e sanzioni civili e regime e sanzioni penali: il legislatore non ha infatti risolto i problemi di carattere generale relativi ai profili civilistici del reato, disciplinando la sola ipotesi di mutuo ed omettendo ogni riferimento in ordine alle conseguenze che il compimento dell’illecito penale mediante eventuali altri schemi negoziali potrebbe produrre sul piano della validità e vincolatività dei medesimi (art. 1815, comma 2, cod. civ., come novellato, che individua nella non debenza degli interessi usurari del contratto di mutuo la sanzione civile per tale pattuizione). Per interessi usurari si intendono quelli che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento (combinato art. 1, comma 1, d.l. 2000/394 ai fini dell’applicazione degli artt. 644 cod. pen. con 1815 cod. civ.) e su tale concetto disciplina penale e civile evidenziano un’identità sostanziale di vedute.
Ciò ha alimentato i dubbi circa i rapporti tra l’art. 644 cod. pen. e le norme civili invocabili a tutela della vittima nei casi in cui l’usura non assuma la forma di un contratto di credito, ma si concretizzi in una diversa convenzione sinallagmatica.
L’usura civile va di fatto ridefinita in via interpretativa attorno a due poli distinti: quello della remunerazione eccessiva di un prestito di capitali erogato a titolo di mutuo e quello dello squilibrio tra le prestazioni radicate in un contratto di scambio dovuto allo stato di bisogno in cui versa uno dei contraenti e l’approfittamento da parte dell’altro contraente (condizione di stato di bisogno relativa al soggetto che accetta di dare o promettere interessi o vantaggi di carattere usurario quale nucleo centrale della fattispecie unita all’approfittamento di tale stato di bisogno da parte di chi ottiene tali vantaggi). Tale dualismo ha ricadute sotto il profilo sanzionatorio, giacché nel primo caso è sancita la nullità parziale del patto illegittimo, mentre nel secondo si ricorre al rimedio rescissorio, di ben altra natura e conseguenze.
Si comprende come un contratto usurario possa avere diverse forme: oltre alla manifestazione classica di mutuo feneratizio ad interessi illeciti, possiamo avere un contratto di mediazione o intermediazione creditizia o finanziaria laddove il corrispettivo sia usurario, un contratto di apertura di credito, di conto corrente, di sconto, ovvero il fenomeno può ravvisarsi in qualsiasi contratto, anche preliminare, che importi il trasferimento di diritti o l’assunzione di obblighi verso un dato corrispettivo, caratterizzato dalla sproporzione delle prestazioni e dall’approfittamento dello stato di bisogno di colui che accetta la prestazione usuraria, sempre che si desuma l’intenzione dell’agente di farsi dare o promettere, interessi o altri vantaggi usurari.
Il sistema di giustizia civile predispone una serie di rimedi per contrastare il fenomeno usurario, divisibili in due categorie: da un lato gli interventi che incidono sulla pattuizione evidenziandone la patologica formazione; dall’altro strumenti di ausilio e sostegno a tutela del patiscente debole.
Nella relazione al Codice civile del 1942 si individua quale corrispondente civile dell’usura l’istituto della rescissione per lesione ex art. 1448 cod. civ.: lo strumento della rescissione ha portata generale ed è utilizzabile per qualsiasi pattuizione iniqua e sproporzionata.
La ratio dell’istituto della rescissione per lesione è quella di colpire il disvalore di una condotta considerata dal legislatore come una grave forma di parassitismo, causa di vero e proprio allarme in una società civile, ed è per questo che non può e non deve rilevare la causa che ha determinato il bisogno e la relativa menomazione psicologica. La nozione di rescissione si rivela quindi più ampia di quella penalistica dell’usura, venendo in rilievo anche le ipotesi di contratti aventi ad oggetto beni immobili.
La giurisprudenza ritiene, infatti, che lo stato di bisogno di cui all’art. 644 c.p. è una particolare condizione psicologica in presenza della quale il soggetto passivo subisce una limitazione nella volontà di autodeterminazione, mentre sotto il profilo obiettivo può essere di qualsiasi natura, specie e grado e quindi, tra l’altro, può derivare anche dalla necessità di soddisfare un vizio (come potrebbe essere quello del gioco d’azzardo), non essendo richiesto dalla norma incriminatrice alcun requisito.
In ambito civile, invece, lo stato di bisogno è visto in chiave oggettiva: deve essere inteso e valutato in senso economico, in quanto coincide con la carenza di mezzi patrimoniali. La giurisprudenza ha così ritenuto che ai fini dell’ammissibilità dell’azione di rescissione per lesione di un contratto di compravendita, occorre aver riguardo, per accertare l’esistenza della lesione ultra dimidium in danno del venditore, ai prezzi correnti o mediamente ottenibili in una normale contrattazione.
Sotto il profilo penale invece l’art. 644 cod. pen., da considerarsi secondo alcuni norma penale in bianco per il rinvio ad una fonte esterna circa la determinazione del tasso limite, secondo altri non come tale in quanto il decreto ministeriale cui fa riferimento si limita ad effettuare una mera integrazione tecnica, prevede tre diverse fattispecie e livelli penalmente rilevanti, con un quadro certamente più definito e chiaro rispetto a quello civilistico rispetto all’inquadramento delle figure cui far riferimento:
a) l’ipotesi base, che diversamente dalla precedente disciplina, non fa alcun riferimento alla situazione di bisogno della vittima e ancora l’illiceità penale al superamento del valore di una delle prestazioni rispetto ad un parametro fisso legalmente predeterminato. La tutela riguarda la mera proporzione delle prestazioni del sinallagma;
b) in secondo luogo, individuazione dell’oggetto della prestazione come “danaro o altra utilità”, introducendo pertanto il concetto di c.d. usura reale;
c) il terzo comma introduce un ulteriore criterio di valutazione dell’usurarietà della prestazione dovendosi formulare un giudizio sulla base della sproporzione degli interessi rispetto alla prestazione di danaro o altra utilità rapportata alle condizioni di difficoltà economico-finanziaria del soggetto usurato.
Le manifestazioni penalmente rilevanti nel reato di usura sono quindi: l’usura presunta (che si verifica al superamento del tasso-soglia); l’usura in concreto (integrata dalla condotta) e la mediazione usuraria (definibile impropria).
Si tratta indubbiamente di una normativa che amplia il novero delle condotte punibili, accomunandole tutte dalla volontà di attribuire rilevanza allo squilibrio tra le prestazioni, realizzati in accordi contrattuali caratterizzati dalla posizione di debolezza della parte che si trova in condizioni della suddetta difficoltà. Il primo e terzo comma dell’art. 644 non sembra porre problemi circa il rimedio civilistico, ma l’ambito di operatività dell’art. 1815 cod. civ. rappresenta un primo aspetto problematico, in quanto formalmente collocato all’interno della disciplina specifica del mutuo. Seppure norma dettata specificamente per il contratto di mutuo, in virtù dell’interpretazione estensiva o analogica, e in considerazione della ratio legis che mira a difendere l’intero mercato finanziario e creditizio, non solo l’inviolabilità del patrimonio individuale, molti lo ritengono applicabile a tutti i contratti di finanziamento di capitali, con la conseguenza della nullità della clausola usuraria e della sanzione della non debenza di alcun interesse. In realtà vi è anche un diverso orientamento che non ritiene applicabile tale regime a tutti i negozi di finanziamento di capitali o alle più svariate forme che un’operazione di finanziamento potrebbe avere, pertanto la conseguenza sarebbe la nullità ex art. 1418, comma 2, cod. civ., in quanto aventi un oggetto illecito. Vengono in rilievo non solo i casi di nullità analizzati congiuntamente alle teorie sui reati contratto o in contratto, ma anche di nullità parziale e pertanto 1) automatica sostituzione clausole con interessi ultralegali (clausola di non debenza art. 1419 cod. civ.); 2) eliminazione clausole senza sostituzione (artt. 1339 e 1419, comma 2, cod. civ.).
Nello specifico caso di contratto usurario senza pagamento di denaro (permuta) i presupposti per la nullità del contratto sono che l’accordo importi il trasferimento di diritto o l’assunzione di obblighi verso un determinato corrispettivo in denaro, beni e servizi; che il contraente avvantaggiato abbia tenuto un comportamento diretto ad incidere sulla determinazione della volontà contrattuale del soggetto passivo (che secondo la giurisprudenza può essere anche persona giuridica), ad esempio provocando o sollecitando la formulazione della proposta contrattuale particolarmente svantaggiosa per il proponente.
Le incertezze fin qui esaminate hanno rivestito particolare complessità in epoca recente relativamente all’usura sopravvenuta, ovvero collocando il sistema sanzionatorio ex art. 1815 cod. civ. non solo sul piano spaziale, ma anche temporale (non solo momento della pattuizione interessi, ma anche quello diverso della loro maturazione e percezione). Il legislatore è in realtà intervenuto con il d.l. 2000/394 convertito in legge 2001/24 – a causa di un significativo e improvviso flusso di provvedimenti giudiziari in merito a mutui stipulati ante riforma 1996 - facendo seguito all’orientamento della Cassazione nell’anno 2000 che ha chiarito che la valutazione di congruità del tasso deve essere riferita esclusivamente all’epoca in cui esso viene convenuto tra le parti, indipendentemente dal tempo dell’effettivo pagamento. All’epoca erano emerse due istanze contrapposte, seppur accomunate dagli stessi criteri di ragionevolezza ed equità contrattuale: l’esigenza di evitare la coesistenza di rapporti di finanziamento non allineati rispetto al tasso-soglia di volta in volta vigente e la necessità di non applicare disposizioni punitive nei confronti del mutuante cui non era rimproverabile la diminuzione del tasso limite in tempo successivo (tasso soglia che rappresenta il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari e che viene stabilito dal legislatore in una volta e mezzo il tasso medio relativo alla categoria delle operazioni in cui il credito è ricompreso ex art. 2, legge 1996/108 e che è stato pertanto sottratto alla valutazione discrezionale da parte del giudice ancorandolo ad un parametro prefissato, per quanto variabile, fondato su rilevazioni statistiche di natura finanziaria). A tale intervento legislativo consegue che nei contratti di mutuo e nelle ipotesi di usura penale non è più configurabile l’usurarietà sopravvenuta.
Maggiori difficoltà si rinvengono poi nel caso dell’usura reale (secondo comma) in considerazione del mancato coordinamento della nuova disposizione con la norma disciplinante la rescissione per lesione, non avendo il legislatore novellato l’art. 1448 cod. civ. Per molti questa ambiguità lascerebbe privo di rimedio civilistico il soggetto passivo, come nei casi in cui la sproporzione non integra l’estremo della c.d. laesio enormis, ovvero non si sostanzia una condotta di approfitta mento o infine quando il contraente svantaggiato non versa in una situazione di bisogno. L’azione di rescissione per lesione sarebbe esperibile nei casi in cui sussisterebbe l’aggravante ex art. 644, comma 5, n. 3, cod. pen. qualora vi sia altresì una lesione qualificata nella misura dell’ultra dimidium.
La modifica del 1996 ha spostato il centro del penalmente rilevante determinando una scissione tra l’usura civile e l’usura penale ormai allargata a tutte le ipotesi di usura reale o concreta in cui l’approfittamento dello stato di bisogno non è più un requisito del fatto tipico. La dottrina si è pertanto adoperata nell’individuare il regime giuridico applicabile a tutti i restanti casi. Secondo alcuni la sanzione applicabile è quella della nullità per contrarietà a norme imperative (art. 1418, comma 1, cod. civ.), giustificandola con l’offesa al bene protetto che è rappresentato sia dai beni personali che dall’interesse pubblico alla correttezza e genuinità dei rapporti economici, nonché il corretto funzionamento del mercato finanziario e del credito.
Rispetto ad alcuni sforzi interpretativi che ritengono l’azione di rescissione applicabile come adeguamento della normativa civile alla condizione che la norma penale descrive con la locuzione “difficoltà economica o finanziaria”, nonché nei confronti di coloro che propongono di utilizzare il limite dell’ultra dimidium quale criterio tendenziale ma non rigido di delimitazione della fattispecie penale residuale, superando in tal modo lo scarto esistente sotto il profilo oggettivo tra usura reale e rescissione, vi è la maggior parte della dottrina che sottolinea viceversa l’inidoneità dell’azione di rescissione per lesione proprio per i suoi limiti di ricavarsi allo stato attuale della normativa un proprio autonomo spazio operativo.
Da tutte le considerazioni fin qui svolte non può che evidenziarsi e concludersi in tema di usura che vi è un sostanziale appiattimento della disciplina civilistica su quella penalistica, pur nel ricorso - e conseguente integrazione - ai principi dell’illecito civile, anche in virtù del principio generale che in diritto civile non si punisce qualsiasi disallineamento del rapporto contrattuale, nel rispetto dell’autonomia privata libera di determinarsi negozialmente, se non quello patologico.
L’insoddisfazione verso una certa rigidità regolamentare e alcune zone d’ombra tuttora significative continuano a dimostrare da un lato la difficoltà da parte del legislatore di disciplinare una realtà policroma e non uniforme, dall’altro l’esigenza e l’auspicio che si adottino ulteriori e successivi interventi che rispondano all’esigenza di graduare, secondo la gravità della vicenda usuraria, strumenti di repressione e di correzione che risultano concepiti allo stato attuale secondo uno schema applicativo unico, che costringe l’interprete ad intervenire con difficoltà sia in merito al ricorso ai rimedi generali sia in merito all’operatività delle sanzioni, a discapito delle esigenze di certezza ed obiettivizzazione del fenomeno dell’usura, come era nell’intenzione del legislatore del
Il ruolo della fattispecie contrattuale nell’illecito penale, con particolare riferimento al reato di usura
A differenza del codice penale, quello civile non conosce l’usura come fenomeno unitario e non ne definisce in modo univoco la fattispecie. Occorrerà quindi far riferimento all’articolata dottrina concernente in generale i rapporti tra la fattispecie penale e la disciplina civilistica della patologia negoziale, dovendosi analizzare sia le norme civilistiche legate alla nullità e annullabilità del contratto (artt. 1418 e ss. cod. civ.), sia quelle penali generali e speciali (artt. 110, 629, 640, 643 e 648 cod. pen.). L’accostamento tra contratto e fattispecie penale genera una serie di problemi, il più rilevante dei quali è quello di verificare se l’invalidità del contratto, o più latamente le figure della patologia negoziale, incidano o meno sull’esistenza dell’illecito penale.
A maggior ragione tali problematiche ben si attagliano al delitto di usura, fenomeno antico che risale sia alla cultura greca che romana e riconducibile a chiunque prestasse denaro dietro interesse, il cui elemento caratterizzante consiste in un comportamento diretto ad operare sulla determinazione della volontà del contraente bisognoso, a differenza della fattispecie civilistica della rescissione del contratto per lesione, nella quale l’elemento sufficiente è la semplice consapevolezza da parte del contraente avvantaggiato di trarre una sproporzionata utilità economica in conseguenza dello stato di bisogno della controparte. Il delitto di usura, forma particolare di contratto concluso da un contraente debole (in posizione diversa da quella del consumatore), può consumarsi sia attraverso un contratto di mutuo, sia mediante qualsiasi altro contratto, anche preliminare, che importi il trasferimento di diritti o l’assunzione di obblighi verso un dato corrispettivo, sempre che si desuma l’intenzione dell’agente di farsi dare o promettere, approfittando dell’altrui stato di bisogno, interessi o altri vantaggi usurari. All’indomani della novella del 1996, come si vedrà anche in seguito, la sopravvenuta diversità strutturale tra norma civile e norma penale ha spostato l’attenzione degli interpreti dal rimedio della rescissione a quello della nullità del patto usurario, ma per ben comprendere tale questione è preliminare l’analisi delle fattispecie reati contratto e reati in contratto.
In primis, i possibili rapporti tra reato e contratto sono sussumibili in quattro categorie:
1) reati che presuppongono un contratto;
2) reati che consistono nella conclusione di un contratto (c.d. reati contratto);
3) reati commessi nella conclusione di un contratto (c.d. reati in contratto);
4) reati commessi nell’esecuzione di un contratto.
Quel che interessa la presente trattazione sono la seconda e terza fattispecie: i reati contratto sono quelli in cui la consumazione degli stessi avviene con la stipulazione dell’accordo (es. la ricettazione), mentre i reati in contratto sono quelli per cui la legge punisce il comportamento tenuto da uno dei due contraenti in una fase antecedente al raggiungimento dell’accordo.
Con i reati contratto (reati da considerarsi plurisoggettivi necessari) il legislatore ha inteso incriminare la stipulazione dell’accordo, non la sua esecuzione, per cui la condotta tipica che viene in evidenza è descritta in termini civilistici. Con i reati in contratto (da considerarsi plurisoggettivi impropri) si è voluta al contrario incriminare non la stipulazione, ma la condotta tenuta dal soggetto attivo nella fase delle trattative antecedente la manifestazione di volontà dei due contraenti, per cui la condotta della vittima entra a far parte del reato come “artificiosa”. Giova fin d’ora precisare che con la normativa ante 1996 l’usura, che era stata già oggetto di un primo intervento riformativo con d.l. 1992/306, veniva ricondotta a tale ultima fattispecie (reati in contratto): la legge 1996/108 ha stabilito infatti che il momento consumativo del reato si verifica quando si perfeziona la fattispecie negoziale a contenuto usurario, trasformando con ciò il reato da reato in contratto a reato contratto, la cui stipula è ciò che il legislatore intende appunto evitare. Da ciò consegue che il contratto potrebbe essere considerato invalido anche in base alla previsione della c.d. nullità virtuale di cui all’art. 1418, comma 1, cod. civ.
Le tesi elaborate dalla dottrina per la trattazione delle figure reati contratto e reati in contratto, e che tentano di risolvere il problema della rilevanza penale dell’invalidità del contratto, sono sostanzialmente tre: a) la tesi pancivilistica; 2) la tesi autonomistica; 3) la tesi intermedia.
La prima sostiene circa i reati contratto che la condotta punita consiste proprio nella conclusione di un contratto e quindi solo nell’incontro delle volontà manifestate, senza che sia necessaria un’attività in esecuzione del contratto stesso: ne consegue che le categorie della nullità, dell’inesistenza, dell’annullabilità del contratto incidono sulla fattispecie penale escludendone la sussistenza o degradandola alla categoria del tentativo. La critica a questa tesi si basa sulla considerazione che non sempre il reato sussiste anche in presenza di un negozio invalido o viziato (ad es. un contratto nullo per inesistenza dell’oggetto o un errore essenziale sull’oggetto del contratto). Circa i reati in contratto essa distingue la natura del vizio che incide sull’atto: la nullità o l’inesistenza del contratto (ad eccezione dei casi di conversione del negozio ex art. 1424 cod. civ. che lo renderebbero improduttivo di effetti determinando l’inesistenza del reato). Qui la critica evidenzia come accogliendo tale orientamento, non si punirebbero tutti quei casi in cui il bene della vittima è transitato nella disponibilità del reo, senza che si sia concluso un contratto valido e inoltre il concetto di patrimonio giuridico viene troppo circoscritto limitandolo a diritti e obblighi derivanti dal negozio, non tenendo conto delle possibili alterazioni del rapporto giuridico con la cosa in senso sfavorevole alla vittima anche nelle ipotesi di negozio nullo.
La seconda sostiene, circa i reati contratto, l’assoluta autonomia del diritto penale dal diritto civile con la conseguenza che la nozione di reato contratto è del tutto sganciata dalla corrispondente figura civile del negozio, pertanto ad eccezione di alcuni casi di inesistenza del negozio il cui verificarsi esclude la sussistenza del reato, le cause di invalidità del contratto sono ininfluenti per l’esistenza del reato. Circa i reati in contratto essa sostiene che tanto le cause di nullità che quelle di annullabilità sarebbero irrilevanti ai fini della sussistenza del reato. Obiezioni a questa teoria evidenziano come:
- non sempre la nullità del contratto determini l’inesistenza del reato (basti pensare alla nullità per motivo illecito o all’apposizione di una condizione sospensiva meramente potestativa che non incide sulla sussistenza dell’illecito penale);
- la tesi confonde la nullità, così come sancita dagli artt. 1418 e ss. cod. civ., con l’incompiutezza, che si verifica allorquando il contratto non è ancora perfezionato, difettando uno dei suoi elementi costitutivi, che arriverebbe a configurare ipotesi di delitto tentato in caso di nullità;
- alla stessa stregua non sempre l’annullabilità è irrilevante ai fini della sussistenza del reato, come accade nei vizi del consenso: se il vizio incide sul processo di formazione della volontà del contraente non punito, esso sarà irrilevante; se viceversa incide sul soggetto incriminato, sarà esclusa la sussistenza del reato.
Ed è proprio questa ultima obiezione che si coglie la differenza tra sistema penale e civile, sul terreno dell’annullabilità per vizio del consenso: nel sistema penale l’elemento soggettivo è strettamente correlato all’esigenza della responsabilità penale personale; nel sistema civilistico la volontà dell’atto è richiesta ai fini dell’efficacia dello stesso. Sui reati in contratto, l’affermazione circa l’irrilevanza delle cause di nullità e di annullabilità ai fini della sussistenza del reato si presta alle stesse critiche mosse alla teoria pancivilistica.
Infine la c.d. teoria intermedia, partendo dallo studio della struttura dei reati contratto, afferma che non possa costruirsi una categoria unitaria di tali reati avuto riguardo alla rilevanza penale del comportamento sanzionato: in alcune ipotesi il divieto penale si appunta sulla conclusione del contratto, in altri sulla attuazione delle finalità pratiche del contratto richiamato.
Ne consegue che dovrà stabilirsi di volta in volta quali vizi del contratto incidano sotto il profilo oggettivo e soggettivo, sulla tipicità del fatto, sulla suitas della condotta, sulla colpevolezza del soggetto agente, sulla prestazione oggetto del divieto penale - impedendone ab origine l’esecuzione, sull’elemento oggettivo del reato nel suo profilo negativo - integrando una causa di giustificazione: in pratica occorrerà di volta in volta verificare la corrispondenza o la divergenza tra gli elementi costitutivi del reato e quelli del contratto, per comprendere quali vizi del contratto incidono sull’esistenza del reato, escludendone la tipicità e quali cause di nullità e/o annullabilità mantengono, invece, inalterata la sussistenza del delitto.
Quanto ai reati in contratto, partendo dalla plurioffensività di questi, in quanto lesivi del patrimonio e della libertà personale del soggetto passivo, tale teoria li scompone in tre elementi: mezzo illecito (strumento con cui il soggetto incriminato ottiene il consenso e l’artificiosa cooperazione del soggetto passivo); la disposizione patrimoniale del soggetto passivo (requisito implicito o esplicito del reato) e il danno patrimoniale subìto dallo stesso (richiesto come requisito di perfezionamento della fattispecie). Circa il mezzo illecito, il problema è individuare in che misura il comportamento penalmente rilevante possa identificarsi con la stipulazione del contratto e quindi come si atteggia il mezzo illecito utilizzato dal soggetto attivo rispetto agli elementi privatistici. Circa la disposizione patrimoniale essendo necessario nei reati in contratto il consenso della vittima del reato, se questo manca del tutto vi sarà nullità del contratto e al contempo e assenza di reato in contratto, al massimo si realizzerà un mutamento del titolo del reato. Infine per quel che riguarda il danno patrimoniale vanno di fatto affrontati due problemi: 1) quali sono i vizi del negozio che determinano l’insussistenza del danno, con conseguente esclusione del reato e 2) successivamente, se il momento perfezionativo della fattispecie coincide con il sorgere dell’obbligazione contrattuale.
La dottrina che aderisce alla tesi intermedia afferma che tale elemento implica una distinzione tra reato e negozio invalido: mentre il contratto si perfeziona con lo scambio di proposta e accettazione conforme alla proposta, il reato si perfeziona invece con l’esecuzione della prestazione che arreca un danno patrimoniale alla vittima; sicché i vizi del contratto incideranno sulla prestazione svantaggiosa per il soggetto passivo del reato non implicando il danno ed escluderanno il reato; infatti in tale ipotesi la nullità derivante dall’indeterminatezza della prestazione, dalla sua impossibilità, dalla carenza della stessa, non consentendo il danno patrimoniale, renderà atipico il comportamento rispetto alla fattispecie incriminatrice.
La nuova disciplina dell’usura (legge 1996/198) ad avviso della dottrina non sembra aver risolto i problemi di coordinamento tra regime e sanzioni civili e regime e sanzioni penali: il legislatore non ha infatti risolto i problemi di carattere generale relativi ai profili civilistici del reato, disciplinando la sola ipotesi di mutuo ed omettendo ogni riferimento in ordine alle conseguenze che il compimento dell’illecito penale mediante eventuali altri schemi negoziali potrebbe produrre sul piano della validità e vincolatività dei medesimi (art. 1815, comma 2, cod. civ., come novellato, che individua nella non debenza degli interessi usurari del contratto di mutuo la sanzione civile per tale pattuizione). Per interessi usurari si intendono quelli che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento (combinato art. 1, comma 1, d.l. 2000/394 ai fini dell’applicazione degli artt. 644 cod. pen. con 1815 cod. civ.) e su tale concetto disciplina penale e civile evidenziano un’identità sostanziale di vedute.
Ciò ha alimentato i dubbi circa i rapporti tra l’art. 644 cod. pen. e le norme civili invocabili a tutela della vittima nei casi in cui l’usura non assuma la forma di un contratto di credito, ma si concretizzi in una diversa convenzione sinallagmatica.
L’usura civile va di fatto ridefinita in via interpretativa attorno a due poli distinti: quello della remunerazione eccessiva di un prestito di capitali erogato a titolo di mutuo e quello dello squilibrio tra le prestazioni radicate in un contratto di scambio dovuto allo stato di bisogno in cui versa uno dei contraenti e l’approfittamento da parte dell’altro contraente (condizione di stato di bisogno relativa al soggetto che accetta di dare o promettere interessi o vantaggi di carattere usurario quale nucleo centrale della fattispecie unita all’approfittamento di tale stato di bisogno da parte di chi ottiene tali vantaggi). Tale dualismo ha ricadute sotto il profilo sanzionatorio, giacché nel primo caso è sancita la nullità parziale del patto illegittimo, mentre nel secondo si ricorre al rimedio rescissorio, di ben altra natura e conseguenze.
Si comprende come un contratto usurario possa avere diverse forme: oltre alla manifestazione classica di mutuo feneratizio ad interessi illeciti, possiamo avere un contratto di mediazione o intermediazione creditizia o finanziaria laddove il corrispettivo sia usurario, un contratto di apertura di credito, di conto corrente, di sconto, ovvero il fenomeno può ravvisarsi in qualsiasi contratto, anche preliminare, che importi il trasferimento di diritti o l’assunzione di obblighi verso un dato corrispettivo, caratterizzato dalla sproporzione delle prestazioni e dall’approfittamento dello stato di bisogno di colui che accetta la prestazione usuraria, sempre che si desuma l’intenzione dell’agente di farsi dare o promettere, interessi o altri vantaggi usurari.
Il sistema di giustizia civile predispone una serie di rimedi per contrastare il fenomeno usurario, divisibili in due categorie: da un lato gli interventi che incidono sulla pattuizione evidenziandone la patologica formazione; dall’altro strumenti di ausilio e sostegno a tutela del patiscente debole.
Nella relazione al Codice civile del 1942 si individua quale corrispondente civile dell’usura l’istituto della rescissione per lesione ex art. 1448 cod. civ.: lo strumento della rescissione ha portata generale ed è utilizzabile per qualsiasi pattuizione iniqua e sproporzionata.
La ratio dell’istituto della rescissione per lesione è quella di colpire il disvalore di una condotta considerata dal legislatore come una grave forma di parassitismo, causa di vero e proprio allarme in una società civile, ed è per questo che non può e non deve rilevare la causa che ha determinato il bisogno e la relativa menomazione psicologica. La nozione di rescissione si rivela quindi più ampia di quella penalistica dell’usura, venendo in rilievo anche le ipotesi di contratti aventi ad oggetto beni immobili.
La giurisprudenza ritiene, infatti, che lo stato di bisogno di cui all’art. 644 c.p. è una particolare condizione psicologica in presenza della quale il soggetto passivo subisce una limitazione nella volontà di autodeterminazione, mentre sotto il profilo obiettivo può essere di qualsiasi natura, specie e grado e quindi, tra l’altro, può derivare anche dalla necessità di soddisfare un vizio (come potrebbe essere quello del gioco d’azzardo), non essendo richiesto dalla norma incriminatrice alcun requisito.
In ambito civile, invece, lo stato di bisogno è visto in chiave oggettiva: deve essere inteso e valutato in senso economico, in quanto coincide con la carenza di mezzi patrimoniali. La giurisprudenza ha così ritenuto che ai fini dell’ammissibilità dell’azione di rescissione per lesione di un contratto di compravendita, occorre aver riguardo, per accertare l’esistenza della lesione ultra dimidium in danno del venditore, ai prezzi correnti o mediamente ottenibili in una normale contrattazione.
Sotto il profilo penale invece l’art. 644 cod. pen., da considerarsi secondo alcuni norma penale in bianco per il rinvio ad una fonte esterna circa la determinazione del tasso limite, secondo altri non come tale in quanto il decreto ministeriale cui fa riferimento si limita ad effettuare una mera integrazione tecnica, prevede tre diverse fattispecie e livelli penalmente rilevanti, con un quadro certamente più definito e chiaro rispetto a quello civilistico rispetto all’inquadramento delle figure cui far riferimento:
a) l’ipotesi base, che diversamente dalla precedente disciplina, non fa alcun riferimento alla situazione di bisogno della vittima e ancora l’illiceità penale al superamento del valore di una delle prestazioni rispetto ad un parametro fisso legalmente predeterminato. La tutela riguarda la mera proporzione delle prestazioni del sinallagma;
b) in secondo luogo, individuazione dell’oggetto della prestazione come “danaro o altra utilità”, introducendo pertanto il concetto di c.d. usura reale;
c) il terzo comma introduce un ulteriore criterio di valutazione dell’usurarietà della prestazione dovendosi formulare un giudizio sulla base della sproporzione degli interessi rispetto alla prestazione di danaro o altra utilità rapportata alle condizioni di difficoltà economico-finanziaria del soggetto usurato.
Le manifestazioni penalmente rilevanti nel reato di usura sono quindi: l’usura presunta (che si verifica al superamento del tasso-soglia); l’usura in concreto (integrata dalla condotta) e la mediazione usuraria (definibile impropria).
Si tratta indubbiamente di una normativa che amplia il novero delle condotte punibili, accomunandole tutte dalla volontà di attribuire rilevanza allo squilibrio tra le prestazioni, realizzati in accordi contrattuali caratterizzati dalla posizione di debolezza della parte che si trova in condizioni della suddetta difficoltà. Il primo e terzo comma dell’art. 644 non sembra porre problemi circa il rimedio civilistico, ma l’ambito di operatività dell’art. 1815 cod. civ. rappresenta un primo aspetto problematico, in quanto formalmente collocato all’interno della disciplina specifica del mutuo. Seppure norma dettata specificamente per il contratto di mutuo, in virtù dell’interpretazione estensiva o analogica, e in considerazione della ratio legis che mira a difendere l’intero mercato finanziario e creditizio, non solo l’inviolabilità del patrimonio individuale, molti lo ritengono applicabile a tutti i contratti di finanziamento di capitali, con la conseguenza della nullità della clausola usuraria e della sanzione della non debenza di alcun interesse. In realtà vi è anche un diverso orientamento che non ritiene applicabile tale regime a tutti i negozi di finanziamento di capitali o alle più svariate forme che un’operazione di finanziamento potrebbe avere, pertanto la conseguenza sarebbe la nullità ex art. 1418, comma 2, cod. civ., in quanto aventi un oggetto illecito. Vengono in rilievo non solo i casi di nullità analizzati congiuntamente alle teorie sui reati contratto o in contratto, ma anche di nullità parziale e pertanto 1) automatica sostituzione clausole con interessi ultralegali (clausola di non debenza art. 1419 cod. civ.); 2) eliminazione clausole senza sostituzione (artt. 1339 e 1419, comma 2, cod. civ.).
Nello specifico caso di contratto usurario senza pagamento di denaro (permuta) i presupposti per la nullità del contratto sono che l’accordo importi il trasferimento di diritto o l’assunzione di obblighi verso un determinato corrispettivo in denaro, beni e servizi; che il contraente avvantaggiato abbia tenuto un comportamento diretto ad incidere sulla determinazione della volontà contrattuale del soggetto passivo (che secondo la giurisprudenza può essere anche persona giuridica), ad esempio provocando o sollecitando la formulazione della proposta contrattuale particolarmente svantaggiosa per il proponente.
Le incertezze fin qui esaminate hanno rivestito particolare complessità in epoca recente relativamente all’usura sopravvenuta, ovvero collocando il sistema sanzionatorio ex art. 1815 cod. civ. non solo sul piano spaziale, ma anche temporale (non solo momento della pattuizione interessi, ma anche quello diverso della loro maturazione e percezione). Il legislatore è in realtà intervenuto con il d.l. 2000/394 convertito in legge 2001/24 – a causa di un significativo e improvviso flusso di provvedimenti giudiziari in merito a mutui stipulati ante riforma 1996 - facendo seguito all’orientamento della Cassazione nell’anno 2000 che ha chiarito che la valutazione di congruità del tasso deve essere riferita esclusivamente all’epoca in cui esso viene convenuto tra le parti, indipendentemente dal tempo dell’effettivo pagamento. All’epoca erano emerse due istanze contrapposte, seppur accomunate dagli stessi criteri di ragionevolezza ed equità contrattuale: l’esigenza di evitare la coesistenza di rapporti di finanziamento non allineati rispetto al tasso-soglia di volta in volta vigente e la necessità di non applicare disposizioni punitive nei confronti del mutuante cui non era rimproverabile la diminuzione del tasso limite in tempo successivo (tasso soglia che rappresenta il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari e che viene stabilito dal legislatore in una volta e mezzo il tasso medio relativo alla categoria delle operazioni in cui il credito è ricompreso ex art. 2, legge 1996/108 e che è stato pertanto sottratto alla valutazione discrezionale da parte del giudice ancorandolo ad un parametro prefissato, per quanto variabile, fondato su rilevazioni statistiche di natura finanziaria). A tale intervento legislativo consegue che nei contratti di mutuo e nelle ipotesi di usura penale non è più configurabile l’usurarietà sopravvenuta.
Maggiori difficoltà si rinvengono poi nel caso dell’usura reale (secondo comma) in considerazione del mancato coordinamento della nuova disposizione con la norma disciplinante la rescissione per lesione, non avendo il legislatore novellato l’art. 1448 cod. civ. Per molti questa ambiguità lascerebbe privo di rimedio civilistico il soggetto passivo, come nei casi in cui la sproporzione non integra l’estremo della c.d. laesio enormis, ovvero non si sostanzia una condotta di approfitta mento o infine quando il contraente svantaggiato non versa in una situazione di bisogno. L’azione di rescissione per lesione sarebbe esperibile nei casi in cui sussisterebbe l’aggravante ex art. 644, comma 5, n. 3, cod. pen. qualora vi sia altresì una lesione qualificata nella misura dell’ultra dimidium.
La modifica del 1996 ha spostato il centro del penalmente rilevante determinando una scissione tra l’usura civile e l’usura penale ormai allargata a tutte le ipotesi di usura reale o concreta in cui l’approfittamento dello stato di bisogno non è più un requisito del fatto tipico. La dottrina si è pertanto adoperata nell’individuare il regime giuridico applicabile a tutti i restanti casi. Secondo alcuni la sanzione applicabile è quella della nullità per contrarietà a norme imperative (art. 1418, comma 1, cod. civ.), giustificandola con l’offesa al bene protetto che è rappresentato sia dai beni personali che dall’interesse pubblico alla correttezza e genuinità dei rapporti economici, nonché il corretto funzionamento del mercato finanziario e del credito.
Rispetto ad alcuni sforzi interpretativi che ritengono l’azione di rescissione applicabile come adeguamento della normativa civile alla condizione che la norma penale descrive con la locuzione “difficoltà economica o finanziaria”, nonché nei confronti di coloro che propongono di utilizzare il limite dell’ultra dimidium quale criterio tendenziale ma non rigido di delimitazione della fattispecie penale residuale, superando in tal modo lo scarto esistente sotto il profilo oggettivo tra usura reale e rescissione, vi è la maggior parte della dottrina che sottolinea viceversa l’inidoneità dell’azione di rescissione per lesione proprio per i suoi limiti di ricavarsi allo stato attuale della normativa un proprio autonomo spazio operativo.
Da tutte le considerazioni fin qui svolte non può che evidenziarsi e concludersi in tema di usura che vi è un sostanziale appiattimento della disciplina civilistica su quella penalistica, pur nel ricorso - e conseguente integrazione - ai principi dell’illecito civile, anche in virtù del principio generale che in diritto civile non si punisce qualsiasi disallineamento del rapporto contrattuale, nel rispetto dell’autonomia privata libera di determinarsi negozialmente, se non quello patologico.
L’insoddisfazione verso una certa rigidità regolamentare e alcune zone d’ombra tuttora significative continuano a dimostrare da un lato la difficoltà da parte del legislatore di disciplinare una realtà policroma e non uniforme, dall’altro l’esigenza e l’auspicio che si adottino ulteriori e successivi interventi che rispondano all’esigenza di graduare, secondo la gravità della vicenda usuraria, strumenti di repressione e di correzione che risultano concepiti allo stato attuale secondo uno schema applicativo unico, che costringe l’interprete ad intervenire con difficoltà sia in merito al ricorso ai rimedi generali sia in merito all’operatività delle sanzioni, a discapito delle esigenze di certezza ed obiettivizzazione del fenomeno dell’usura, come era nell’intenzione del legislatore del