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L’amministratore estraneo nelle società di persone

Il problema dell’amministratore non socio nelle società di persone. Premessa

Nell’ambito delle società di persone (categoria che ricomprende società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice), si è da sempre posto in dottrina e in giurisprudenza il problema relativo alla possibilità di nominare un amministratore che non rivesta, al contempo, la qualità di socio. Nel presente lavoro si tenterà di fare un punto sul dibattito ancora in corso.

Preliminarmente, occorre sgomberare il campo da qualsivoglia confusione fra amministrazione e rappresentanza, consistendo la prima nel potere di decidere la gestione dell’impresa collettiva, mentre il potere di rappresentanza concerne la possibilità di compiere atti giuridici nei confronti dei terzi, in nome della società e con effetti diretti nei confronti di quest’ultima. Di regola, ai sensi dell’art. 2266 comma 2 c.c., la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore. Tuttavia, la stessa norma fa salva una diversa volontà dei soci, i quali possono anche decidere di operare una scissione fra il momento gestionale e quello rappresentativo (di compimento dell’atto con la spendita del nome della società).

Problema del rappresentante estraneo

Premesso ciò, occorre separare dalla questione oggetto della presente trattazione il problema dell’ammissibilità del conferimento del potere di rappresentanza ad un soggetto non socio della società di persone. Su questo punto, sembrerebbe che sia possibile affidare la rappresentanza ad un soggetto estraneo alla società, in quanto la semplice spendita del nome sociale nei confronti dei terzi non incide sul presunto binomio gestione-responsabilità, dall’opinione dominante considerato il vero impedimento all’ammissibilità dell’amministratore estraneo nelle società di persone.

Se la responsabilità illimitata, propria dei soci delle società di persone, è connessa al solo potere di gestione dell’impresa collettiva, è evidente che il semplice potere di spendere il nome della società non involge profili di responsabilità per le obbligazioni sociali, assunte sulla base di decisioni pur sempre adottate dai componenti della compagine sociale ed alle quali resta estraneo il rappresentante. Ciò, sempre che si parta dal presupposto che, anche nelle società di persone, si possa scindere il potere gestionale da quello rappresentativo, come parrebbe confermare l’art. 2266 comma 2 c.c..

Tuttavia, vi è un’autorevole dottrina (Di Sabato) che ritiene impossibile detta scissione, almeno per le società semplici, laddove l’art. 2267 co. 1 c.c. sancisce la responsabilità personale e solidale dei soci che hanno rappresentato la società (cioè che hanno agito in nome e per conto della stessa). Detta dottrina, conseguentemente, ritiene che il potere di rappresentanza sia espressione del potere di amministrare e che, quindi, come non sia possibile conferire ad estranei il potere di rappresentare la società, a maggior ragione non sarebbe possibile conferirgli il potere di gestione sociale. Tuttavia, a ben vedere, l’art. 2267 co. 1 si limita a stabilire la responsabilità personale e solidale dei soci rappresentanti, senza dire che necessariamente i soci devono rappresentare la società nei confronti dei terzi.

La medesima responsabilità grava infatti anche sui soci non rappresentanti, pur essendo qui possibile prevedere un patto contrario, opponibile ai terzi in quanto portato a loro conoscenza con mezzi idonei. Ne consegue che la responsabilità non sembra essere indissolubilmente connessa al potere di rappresentanza. Tanto più che, di regola, è il potere gestionale e non quello rappresentativo ad essere visto come fonte di responsabilità personale per le obbligazioni assunte.

Una conferma sembra rinvenirsi nelle norme generali in tema di rappresentanza, quali gli articoli 1389 e 1398 c.c., laddove rimane sempre chi decide (il rappresentato) il punto di riferimento dell’obbligazione assunta, mentre il rappresentante assume obbligazioni e quindi responsabilità o in quanto operante al di fuori dell’ambito della rappresentanza (come nell’art. 1398 c.c.) oppure solo perché lo stabilisce espressamente lo stesso legislatore (come accade nell’art. 2267 co. 1).

Non solo.

Soprattutto in un’ottica dinamica di mercato, nella quale si inserisce anche la moderna società semplice, e ferma restando la tutela dei terzi (vero scopo dell’art. 2267 c.c.), ritenere che la stessa non possa assumere obbligazioni avvalendosi dell’ausilio di terzi rappresentanti, i quali realizzano soltanto ciò che già è stato deciso dalla società, sembrerebbe costituire un inutile ostacolo all’attività di quest’ultima. Certo è che laddove la società semplice si avvalga esclusivamente di rappresentanti non soci, sembra impossibile stravolgere il tipo sociale prescelto tramite un patto che escluda la responsabilità di tutti i soci che non agiscano in nome e per conto della società ex art. 2267 c.c. Ciò nell’ottica di tutela dei terzi, i quali, contrattando con la società semplice, debbono poter fare affidamento sulla responsabilità illimitata di almeno un socio, che sia esso quello col quale gli stessi siano entrati in contatto o che sia esso colui che faccia parte della società ma che sia rimasto estraneo alla conclusione dell’affare con i terzi.

Soluzione normativa nella società in accomandita semplice

Riguardo al problema oggetto del presente lavoro, è da evidenziare che il legislatore offre un’incontrovertibile soluzione normativa esclusivamente per la società in accomandita semplice, all’art. 2318 comma 2 c.c. (“L’amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari”). Questa norma esclude, senza possibilità di soluzioni difformi, che l’amministrazione della s.a.s. possa essere affidata a soggetti che non rivestano la qualità di soci accomandatari.

Non solo.

L’art. 2320 comma 1 c.c. è ancora più esplicito nel vietare l’attività amministrativa della società ai soci accomandanti, sanzionando la loro eventuale immistione non autorizzata con l’assunzione della responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali. Dunque, nella s.a.s., l’amministrazione può essere conferita solo ai soci accomandatari, rimanendo possibile esclusivamente il conferimento del potere rappresentativo, per singoli affari, ai soci accomandanti.

Problema aperto per società semplice e società in nome collettivo

Riguardo alle altre due società di persone il dibattito è tuttora aperto, non offrendo il legislatore soluzioni chiare e dando luogo, invece, a diverse interpretazioni delle medesime norme. Sintetizzando, la tesi che esclude la possibilità di nominare un amministratore che non rivesta al contempo anche la qualità di socio si basa sulle seguenti argomentazioni.

In primo luogo, quale argomentazione fondamentale di questa opinione, non sarebbe possibile nominare un amministratore estraneo nelle società di persone in quanto nelle stesse, a differenza delle società di capitali, il potere di gestione sarebbe inscindibilmente connesso con la responsabilità illimitata.

Se si procedesse alla nomina di un amministratore non socio, non potendo quest’ultimo assumere responsabilità illimitata, si avrebbe che la gestione della società verrebbe affidata ad un soggetto non responsabile illimitatamente, con danno per i terzi, i quali proprio su tale responsabilità fanno affidamento quando contraggono con le società di persone. Il binomio potere di gestione – responsabilità sarebbe indissolubile, secondo la tesi negativa, in quanto a tutela dell’affidamento dei terzi.

La conclusione cui giunge questa opinione sarebbe, inoltre, confortata da alcune norme che sembrerebbero escludere la possibilità di nominare un amministratore non socio quali, in particolare, l’art. 2295 n.3 c.c. (“i soci che hanno l’ amministrazione e la rappresentanza della società”) e l’art. 2380-bis co. 2 (“L’ amministrazione della società può essere affidata anche a non soci”) che non viene ripetuto, invece, nelle società di persone. Queste norme, in base al loro tenore letterale, farebbero ritenere che soltanto i soci sarebbero presi in considerazione, nelle società di persone, ai fini del conferimento del potere amministrativo (e finanche di quello rappresentativo). Ancora, l’unica norma in materia di società di persone che vale a risolvere il problema, e cioè l’art. 2318 co.2 c.c. (l’amministrazione può essere affidata solo a soci accomandatari), si esprime chiaramente in senso negativo circa la possibilità della nomina di estranei.

Infine, quale ulteriore argomento a sostegno, con riguardo alle società semplici, si afferma che in presenza di un patto limitativo della responsabilità personale di tutti i soci e con amministrazione affidata a terzi, non vi sarebbe più, ex art. 2267 co. 1 c.c., alcun soggetto responsabile illimitatamente. Ciò, oltre a danneggiare l’affidamento dei terzi, protetto dal legislatore proprio nelle norme che stabiliscono il regime di responsabilità, andrebbe a snaturare il tipo sociale prescelto che avrebbe solo la forma ma non più la sostanza di società semplice.

L’opinione positiva si basa, invece, su differenti argomentazioni.

In primo luogo, si nega il presupposto della tesi avversa concernente il necessario ed inscindibile collegamento fra potere di gestione e responsabilità illimitata. Il rapporto di amministrazione, infatti, sembra essere diverso dal rapporto sociale, in quanto è fonte di diritti, poteri, obblighi e responsabilità diversi e distinti da quelli spettanti al soggetto come socio (Campobasso).

Lo stesso legislatore, all’art. 2260 c.c., configura un rapporto di amministrazione regolato secondo autonome norme (quelle sul mandato) e fonte di distinta responsabilità rispetto a quella eventualmente spettante come socio. Se l’ipotesi più frequente (quella del socio che sia anche amministratore) sembra essere quella considerata dal legislatore nell’art. 2295 n. 3), non è detto che costituisca anche l’unica possibile. La stessa complessiva normativa in materia di società di persone pare lasciare quasi sempre la possibilità ai soci di derogare al regime legale, trattandosi di interessi privati.

Già nella norma cardine delle società di persone, e cioè l’art. 2252 c.c., si consente la derogabilità alla regola più rigida dell’unanimità, consentendo ai soci di strutturare un tipo di società, dal punto di vista decisionale, sempre più vicino al modello delle società di capitali, caratterizzato dalla collegialità e dalle decisioni a maggioranza. La stessa riforma del 2003 delle società di capitali ha costituito, secondo l’opinione largamente condivisa, un ulteriore passo per l’avvicinamento delle società di persone a quelle di capitali. Inoltre, l’art. 2257 co.1 c.c., prima di aver stabilito la regola suppletiva legale dell’amministrazione disgiuntiva di tutti i soci, prevede l’ipotesi di una diversa pattuizione sociale. Questa diversa pattuizione viene generalmente intesa come riferita ai sistemi amministrativi. Tuttavia, nulla osta che la deroga pattizia possa riguardare anche i soggetti ai quali affidare il potere di amministrazione, dato che il “salvo diversa pattuizione” non è limitato dalla legge al solo sistema amministrativo da adottare.

Ancora, l’art. 2318 comma 2 c.c., portato a sostegno dell’opinione negativa, costituisce un valido argomento anche per l’opinione che ammette l’amministratore non socio nelle società di persone, in quanto è norma prevista espressamente ed esclusivamente per la s.a.s. Analogo divieto non è riprodotto, invece, per i modelli base della società semplice e della s.n.c., le cui regole si applicano anche al modello più complesso della s.a.s., ai sensi dell’art. 2315 c.c., qualora compatibili con le norme del tipo sociale adottato. Ne consegue che l’esplicito divieto di nomina di amministratori estranei, sancito per il modello sociale più complesso, costituendo un’eccezione testualmente prevista, non si applicherebbe né alla società semplice né a quella in nome collettivo. Con particolare riferimento a quest’ultima tipologia sociale, l’opinione positiva evidenzia che, anche con la nomina di amministratori che non rivestano al contempo la qualità di soci, il principio della responsabilità illimitata a tutela dei terzi non verrebbe toccato.

Infatti, l’art. 2291 c.c. stabilisce che nella s.n.c. tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, avendo il patto contrario effetti solo interni alla società e non anche esterni (nei confronti dei terzi). Dunque, nella s.n.c., il regime di responsabilità, oltre ad essere inderogabile, non è neppure collegato al potere di amministrazione o di rappresentanza, ma è strettamente connesso alla semplice assunzione della qualità di socio. Ne consegue che, almeno nella s.n.c., non vi sarebbero ostacoli normativi all’ammissibilità di amministratori non facenti parte della compagine sociale. L’amministrazione conferita a terzi estranei alla società costituirebbe solo un modo come un altro di esercizio del potere di gestione dell’impresa comune.

Nella società semplice, data la complessità del regime di responsabilità posto dall’art. 2267 c.c., maggiori problemi e perplessità sembrano porsi anche per i sostenitori della possibilità di amministratori estranei.

Pur rimanendo valide le argomentazioni dogmatiche a sostegno dell’opinione positiva, la stessa dottrina è costretta ad ammettere un correttivo all’ortodossia delle proprie conclusioni. Difatti, solo nell’ipotesi estrema in cui sussistano, contemporaneamente, sia tutti gli amministratori non soci sia un patto che esoneri da responsabilità tutti i soci che non agiscano verso i terzi, anche l’opinione positiva deve ammettere che occorrerebbe rinunciare ad una delle due opzioni, a tutela dell’affidamento dei terzi. Dunque, anche nella società semplice sarebbe possibile nominare amministratori non soci, purchè vi sia almeno un socio, non esonerato mediante patto contrario, ad avere responsabilità illimitata.

Non incidenza sul problema della possibilità di una società di capitali di amministrare una società di persone

Da sottolineare, infine, che non incide sul problema in questione la possibilità, discussa ma sempre più accettata in dottrina, che una società di capitali (socia di una società di persone, ai sensi dell’art. 2361 c.c.) sia contemporaneamente amministratrice di quest’ultima, esercitando la funzione amministrativa necessariamente a mezzo di una persona fisica, per ipotesi anche estranea alla società di capitali, come consentito dall’art. 2380-bis c.c.

In questo caso, infatti, l’amministratore della società di persone partecipata non è la persona fisica facente parte della organizzazione della società di capitali partecipante nella qualità di organo amministrativo, bensì la stessa società di capitali partecipante, che si avvale, esclusivamente per il concreto espletamento dell’incarico, della predetta persona fisica. Dunque, la possibilità (dibattuta in dottrina) per una società di capitali di essere organo amministrativo di una società di persone di cui sia anche socia, non può costituire argomento a sostegno dell’ammissibilità di un amministratore estraneo nelle società di persone, non essendo il vero amministratore (dal punto di vista giuridico) il soggetto persona fisica, non socio della società di persone, che solo di fatto esercita le funzioni amministrative.



Bibliografia

R.Guglielmo, Studio CNN n. 5618/I /2005 “Riflessi della riforma sull’amministrazione delle società di persone”, Approvato dalla Commissione Studi d’Impresa il 31 marzo 2005;

F. Di Sabato, Manuale delle società, Torino 1995, pp. 124-128;

G. F. Campobasso, Diritto commerciale, 2. Diritto delle società, Torino 2002, p. 103-104. Il problema dell’amministratore non socio nelle società di persone. Premessa

Nell’ambito delle società di persone (categoria che ricomprende società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice), si è da sempre posto in dottrina e in giurisprudenza il problema relativo alla possibilità di nominare un amministratore che non rivesta, al contempo, la qualità di socio. Nel presente lavoro si tenterà di fare un punto sul dibattito ancora in corso.

Preliminarmente, occorre sgomberare il campo da qualsivoglia confusione fra amministrazione e rappresentanza, consistendo la prima nel potere di decidere la gestione dell’impresa collettiva, mentre il potere di rappresentanza concerne la possibilità di compiere atti giuridici nei confronti dei terzi, in nome della società e con effetti diretti nei confronti di quest’ultima. Di regola, ai sensi dell’art. 2266 comma 2 c.c., la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore. Tuttavia, la stessa norma fa salva una diversa volontà dei soci, i quali possono anche decidere di operare una scissione fra il momento gestionale e quello rappresentativo (di compimento dell’atto con la spendita del nome della società).

Problema del rappresentante estraneo

Premesso ciò, occorre separare dalla questione oggetto della presente trattazione il problema dell’ammissibilità del conferimento del potere di rappresentanza ad un soggetto non socio della società di persone. Su questo punto, sembrerebbe che sia possibile affidare la rappresentanza ad un soggetto estraneo alla società, in quanto la semplice spendita del nome sociale nei confronti dei terzi non incide sul presunto binomio gestione-responsabilità, dall’opinione dominante considerato il vero impedimento all’ammissibilità dell’amministratore estraneo nelle società di persone.

Se la responsabilità illimitata, propria dei soci delle società di persone, è connessa al solo potere di gestione dell’impresa collettiva, è evidente che il semplice potere di spendere il nome della società non involge profili di responsabilità per le obbligazioni sociali, assunte sulla base di decisioni pur sempre adottate dai componenti della compagine sociale ed alle quali resta estraneo il rappresentante. Ciò, sempre che si parta dal presupposto che, anche nelle società di persone, si possa scindere il potere gestionale da quello rappresentativo, come parrebbe confermare l’art. 2266 comma 2 c.c..

Tuttavia, vi è un’autorevole dottrina (Di Sabato) che ritiene impossibile detta scissione, almeno per le società semplici, laddove l’art. 2267 co. 1 c.c. sancisce la responsabilità personale e solidale dei soci che hanno rappresentato la società (cioè che hanno agito in nome e per conto della stessa). Detta dottrina, conseguentemente, ritiene che il potere di rappresentanza sia espressione del potere di amministrare e che, quindi, come non sia possibile conferire ad estranei il potere di rappresentare la società, a maggior ragione non sarebbe possibile conferirgli il potere di gestione sociale. Tuttavia, a ben vedere, l’art. 2267 co. 1 si limita a stabilire la responsabilità personale e solidale dei soci rappresentanti, senza dire che necessariamente i soci devono rappresentare la società nei confronti dei terzi.

La medesima responsabilità grava infatti anche sui soci non rappresentanti, pur essendo qui possibile prevedere un patto contrario, opponibile ai terzi in quanto portato a loro conoscenza con mezzi idonei. Ne consegue che la responsabilità non sembra essere indissolubilmente connessa al potere di rappresentanza. Tanto più che, di regola, è il potere gestionale e non quello rappresentativo ad essere visto come fonte di responsabilità personale per le obbligazioni assunte.

Una conferma sembra rinvenirsi nelle norme generali in tema di rappresentanza, quali gli articoli 1389 e 1398 c.c., laddove rimane sempre chi decide (il rappresentato) il punto di riferimento dell’obbligazione assunta, mentre il rappresentante assume obbligazioni e quindi responsabilità o in quanto operante al di fuori dell’ambito della rappresentanza (come nell’art. 1398 c.c.) oppure solo perché lo stabilisce espressamente lo stesso legislatore (come accade nell’art. 2267 co. 1).

Non solo.

Soprattutto in un’ottica dinamica di mercato, nella quale si inserisce anche la moderna società semplice, e ferma restando la tutela dei terzi (vero scopo dell’art. 2267 c.c.), ritenere che la stessa non possa assumere obbligazioni avvalendosi dell’ausilio di terzi rappresentanti, i quali realizzano soltanto ciò che già è stato deciso dalla società, sembrerebbe costituire un inutile ostacolo all’attività di quest’ultima. Certo è che laddove la società semplice si avvalga esclusivamente di rappresentanti non soci, sembra impossibile stravolgere il tipo sociale prescelto tramite un patto che escluda la responsabilità di tutti i soci che non agiscano in nome e per conto della società ex art. 2267 c.c. Ciò nell’ottica di tutela dei terzi, i quali, contrattando con la società semplice, debbono poter fare affidamento sulla responsabilità illimitata di almeno un socio, che sia esso quello col quale gli stessi siano entrati in contatto o che sia esso colui che faccia parte della società ma che sia rimasto estraneo alla conclusione dell’affare con i terzi.

Soluzione normativa nella società in accomandita semplice

Riguardo al problema oggetto del presente lavoro, è da evidenziare che il legislatore offre un’incontrovertibile soluzione normativa esclusivamente per la società in accomandita semplice, all’art. 2318 comma 2 c.c. (“L’amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari”). Questa norma esclude, senza possibilità di soluzioni difformi, che l’amministrazione della s.a.s. possa essere affidata a soggetti che non rivestano la qualità di soci accomandatari.

Non solo.

L’art. 2320 comma 1 c.c. è ancora più esplicito nel vietare l’attività amministrativa della società ai soci accomandanti, sanzionando la loro eventuale immistione non autorizzata con l’assunzione della responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali. Dunque, nella s.a.s., l’amministrazione può essere conferita solo ai soci accomandatari, rimanendo possibile esclusivamente il conferimento del potere rappresentativo, per singoli affari, ai soci accomandanti.

Problema aperto per società semplice e società in nome collettivo

Riguardo alle altre due società di persone il dibattito è tuttora aperto, non offrendo il legislatore soluzioni chiare e dando luogo, invece, a diverse interpretazioni delle medesime norme. Sintetizzando, la tesi che esclude la possibilità di nominare un amministratore che non rivesta al contempo anche la qualità di socio si basa sulle seguenti argomentazioni.

In primo luogo, quale argomentazione fondamentale di questa opinione, non sarebbe possibile nominare un amministratore estraneo nelle società di persone in quanto nelle stesse, a differenza delle società di capitali, il potere di gestione sarebbe inscindibilmente connesso con la responsabilità illimitata.

Se si procedesse alla nomina di un amministratore non socio, non potendo quest’ultimo assumere responsabilità illimitata, si avrebbe che la gestione della società verrebbe affidata ad un soggetto non responsabile illimitatamente, con danno per i terzi, i quali proprio su tale responsabilità fanno affidamento quando contraggono con le società di persone. Il binomio potere di gestione – responsabilità sarebbe indissolubile, secondo la tesi negativa, in quanto a tutela dell’affidamento dei terzi.

La conclusione cui giunge questa opinione sarebbe, inoltre, confortata da alcune norme che sembrerebbero escludere la possibilità di nominare un amministratore non socio quali, in particolare, l’art. 2295 n.3 c.c. (“i soci che hanno l’ amministrazione e la rappresentanza della società”) e l’art. 2380-bis co. 2 (“L’ amministrazione della società può essere affidata anche a non soci”) che non viene ripetuto, invece, nelle società di persone. Queste norme, in base al loro tenore letterale, farebbero ritenere che soltanto i soci sarebbero presi in considerazione, nelle società di persone, ai fini del conferimento del potere amministrativo (e finanche di quello rappresentativo). Ancora, l’unica norma in materia di società di persone che vale a risolvere il problema, e cioè l’art. 2318 co.2 c.c. (l’amministrazione può essere affidata solo a soci accomandatari), si esprime chiaramente in senso negativo circa la possibilità della nomina di estranei.

Infine, quale ulteriore argomento a sostegno, con riguardo alle società semplici, si afferma che in presenza di un patto limitativo della responsabilità personale di tutti i soci e con amministrazione affidata a terzi, non vi sarebbe più, ex art. 2267 co. 1 c.c., alcun soggetto responsabile illimitatamente. Ciò, oltre a danneggiare l’affidamento dei terzi, protetto dal legislatore proprio nelle norme che stabiliscono il regime di responsabilità, andrebbe a snaturare il tipo sociale prescelto che avrebbe solo la forma ma non più la sostanza di società semplice.

L’opinione positiva si basa, invece, su differenti argomentazioni.

In primo luogo, si nega il presupposto della tesi avversa concernente il necessario ed inscindibile collegamento fra potere di gestione e responsabilità illimitata. Il rapporto di amministrazione, infatti, sembra essere diverso dal rapporto sociale, in quanto è fonte di diritti, poteri, obblighi e responsabilità diversi e distinti da quelli spettanti al soggetto come socio (Campobasso).

Lo stesso legislatore, all’art. 2260 c.c., configura un rapporto di amministrazione regolato secondo autonome norme (quelle sul mandato) e fonte di distinta responsabilità rispetto a quella eventualmente spettante come socio. Se l’ipotesi più frequente (quella del socio che sia anche amministratore) sembra essere quella considerata dal legislatore nell’art. 2295 n. 3), non è detto che costituisca anche l’unica possibile. La stessa complessiva normativa in materia di società di persone pare lasciare quasi sempre la possibilità ai soci di derogare al regime legale, trattandosi di interessi privati.

Già nella norma cardine delle società di persone, e cioè l’art. 2252 c.c., si consente la derogabilità alla regola più rigida dell’unanimità, consentendo ai soci di strutturare un tipo di società, dal punto di vista decisionale, sempre più vicino al modello delle società di capitali, caratterizzato dalla collegialità e dalle decisioni a maggioranza. La stessa riforma del 2003 delle società di capitali ha costituito, secondo l’opinione largamente condivisa, un ulteriore passo per l’avvicinamento delle società di persone a quelle di capitali. Inoltre, l’art. 2257 co.1 c.c., prima di aver stabilito la regola suppletiva legale dell’amministrazione disgiuntiva di tutti i soci, prevede l’ipotesi di una diversa pattuizione sociale. Questa diversa pattuizione viene generalmente intesa come riferita ai sistemi amministrativi. Tuttavia, nulla osta che la deroga pattizia possa riguardare anche i soggetti ai quali affidare il potere di amministrazione, dato che il “salvo diversa pattuizione” non è limitato dalla legge al solo sistema amministrativo da adottare.

Ancora, l’art. 2318 comma 2 c.c., portato a sostegno dell’opinione negativa, costituisce un valido argomento anche per l’opinione che ammette l’amministratore non socio nelle società di persone, in quanto è norma prevista espressamente ed esclusivamente per la s.a.s. Analogo divieto non è riprodotto, invece, per i modelli base della società semplice e della s.n.c., le cui regole si applicano anche al modello più complesso della s.a.s., ai sensi dell’art. 2315 c.c., qualora compatibili con le norme del tipo sociale adottato. Ne consegue che l’esplicito divieto di nomina di amministratori estranei, sancito per il modello sociale più complesso, costituendo un’eccezione testualmente prevista, non si applicherebbe né alla società semplice né a quella in nome collettivo. Con particolare riferimento a quest’ultima tipologia sociale, l’opinione positiva evidenzia che, anche con la nomina di amministratori che non rivestano al contempo la qualità di soci, il principio della responsabilità illimitata a tutela dei terzi non verrebbe toccato.

Infatti, l’art. 2291 c.c. stabilisce che nella s.n.c. tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, avendo il patto contrario effetti solo interni alla società e non anche esterni (nei confronti dei terzi). Dunque, nella s.n.c., il regime di responsabilità, oltre ad essere inderogabile, non è neppure collegato al potere di amministrazione o di rappresentanza, ma è strettamente connesso alla semplice assunzione della qualità di socio. Ne consegue che, almeno nella s.n.c., non vi sarebbero ostacoli normativi all’ammissibilità di amministratori non facenti parte della compagine sociale. L’amministrazione conferita a terzi estranei alla società costituirebbe solo un modo come un altro di esercizio del potere di gestione dell’impresa comune.

Nella società semplice, data la complessità del regime di responsabilità posto dall’art. 2267 c.c., maggiori problemi e perplessità sembrano porsi anche per i sostenitori della possibilità di amministratori estranei.

Pur rimanendo valide le argomentazioni dogmatiche a sostegno dell’opinione positiva, la stessa dottrina è costretta ad ammettere un correttivo all’ortodossia delle proprie conclusioni. Difatti, solo nell’ipotesi estrema in cui sussistano, contemporaneamente, sia tutti gli amministratori non soci sia un patto che esoneri da responsabilità tutti i soci che non agiscano verso i terzi, anche l’opinione positiva deve ammettere che occorrerebbe rinunciare ad una delle due opzioni, a tutela dell’affidamento dei terzi. Dunque, anche nella società semplice sarebbe possibile nominare amministratori non soci, purchè vi sia almeno un socio, non esonerato mediante patto contrario, ad avere responsabilità illimitata.

Non incidenza sul problema della possibilità di una società di capitali di amministrare una società di persone

Da sottolineare, infine, che non incide sul problema in questione la possibilità, discussa ma sempre più accettata in dottrina, che una società di capitali (socia di una società di persone, ai sensi dell’art. 2361 c.c.) sia contemporaneamente amministratrice di quest’ultima, esercitando la funzione amministrativa necessariamente a mezzo di una persona fisica, per ipotesi anche estranea alla società di capitali, come consentito dall’art. 2380-bis c.c.

In questo caso, infatti, l’amministratore della società di persone partecipata non è la persona fisica facente parte della organizzazione della società di capitali partecipante nella qualità di organo amministrativo, bensì la stessa società di capitali partecipante, che si avvale, esclusivamente per il concreto espletamento dell’incarico, della predetta persona fisica. Dunque, la possibilità (dibattuta in dottrina) per una società di capitali di essere organo amministrativo di una società di persone di cui sia anche socia, non può costituire argomento a sostegno dell’ammissibilità di un amministratore estraneo nelle società di persone, non essendo il vero amministratore (dal punto di vista giuridico) il soggetto persona fisica, non socio della società di persone, che solo di fatto esercita le funzioni amministrative.



Bibliografia

R.Guglielmo, Studio CNN n. 5618/I /2005 “Riflessi della riforma sull’amministrazione delle società di persone”, Approvato dalla Commissione Studi d’Impresa il 31 marzo 2005;

F. Di Sabato, Manuale delle società, Torino 1995, pp. 124-128;

G. F. Campobasso, Diritto commerciale, 2. Diritto delle società, Torino 2002, p. 103-104.